Tesi etd-01222015-110410 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MILEA, DIANA
URN
etd-01222015-110410
Titolo
PLASMARE LA PERCEZIONE.
SIMBOLOGIE DI MATERIA, COLORE E VUOTO NELLA SCULTURA DI ANISH KAPOOR
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA
Relatori
relatore Prof. Cortesini, Sergio
Parole chiave
- autogeneration
- color Kapoor
- colore Kapoor
- il sistema dell'autogenerazione
- mirror Kapoor
- sculpture Kapoor
- scultura Kapoor
- specchio Kapoor
- Anish Kapoor
Data inizio appello
09/02/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
«La logica della scultura, a quanto pare, è inseparabile dalla logica del monumento. In virtù di questa logica una scultura è una rappresentazione commemorativa. Si trova in un luogo particolare e parla una lingua simbolica circa il significato e l'utilizzo del luogo stesso» .
Sembra appropriato riferirsi a questa espressione quando parliamo delle opere di Anish Kapoor, che in effetti sono situate in un preciso spazio e parlano una lingua simbolica circa il significato e l’utilizzo di quel dato spazio. La complessità di questi lavori necessita comunque un’attenzione dettagliata al materiale e al processo di trasformazione che si è evoluto all’interno della scultura contemporanea, facendo ovviamente ricorso ai cambiamenti che l’hanno definita nella storia moderna. Nel corso del ventesimo secolo, il ruolo della scultura nel mondo dell'arte è mutato, specialmente perché essa ha messo in discussione le proprie ragioni e metodologie esecutive, e gli artisti hanno cercato nuovi materiali e finalità estetiche.
Kapoor è nato nel 1954 a Bombay, ora rinominata Mumbai, in India, da padre indiano e madre ebrea. Come si vedrà la nascita in India è stata fondamentale nella cultura di Kapoor, per le sue tradizioni popolari, religiose e per il suo paesaggio. In aggiunta, l’artista ha lavorato all'interno delle radici del modernismo del XX secolo, e ha preso ispirazioni da artisti quali Richard Serra, Dan Flavin, Yves Klein e James Turrell nei quali minimalismo geometrico e costruttivismo si fondono con la teatralità, per cui l’artista trasforma l’atto di “vedere” in un tipo di spettacolo in cui la partecipazione dello spettatore è richiesta e l’artificio dell’opera è svelato. Anche il lavoro di espressionisti astratti quali Barnett Newman, Mark Rothko e Jackson Pollock è stato fondamentale per modellare la sua poetica circa il colore e l’approccio all’opera d’arte. In Inghilterra dal 1972, l’artista ha frequentato il Hornsey College of Art (1973-77) e la Chelsea School of Art (1977-78) di Londra, ed è dai primi anni ottanta che si impone sulla scena internazionale rappresentando nel 1990 il Regno Unito alla XLIV Biennale di Venezia.
Nella mia tesi mi propongo di analizzare il percorso artistico di Kapoor, focalizzandomi su specifiche opere che, a mio parere, sono esemplificative della sua poetica ed esplorano i fenomeni psico-percettivi attraverso l’utilizzo di materiali che per le loro intrinseche proprietà di riflessione della luce o di texture, o trasparenza, implicano analogie con il corpo umano, oppure la sua stessa presenza, e puntano a manifestare una forma di sublime e perturbante.
Propongo di descrivere l’arte di Kapoor, come un “lirismo ermetico”. Lirismo in quanto nelle sue opere predomina l’espressione della soggettività. Nelle opere, infatti, viene accentuato il valore evocativo e musicale di determinate forme e materiali. Quella di Kapoor vuole essere una sorta di prosa mirata a raggiungere una estrema essenzialità espressiva. Egli attraverso l’intuizione e l’istinto, trova il modo di far sì che i materiali come il PVC, la cera, l’acciaio, emanino sensazioni equivalenti a quelle suscitate dalla poesia.
Lavorare con segni molto sintetici è essenziale, essi solo in minima parte infatti sono allusivi al reale, e permettono alla mente dello spettatore di rivisitarli. L’artista non rispetta i normali accostamenti logici, non vuole affermare niente di definitivo con la sua poetica artistica, anzi, lascia aperta la porta dell’interpretazione. Il termine “ermetico” mi pare appropriato, in quanto le sue opere spesso sono più tracce che significati, tracce che devono essere interpretate da altri in un secondo tempo. Il più delle volte lo scopo dell’artista è quello di coinvolgere lo spettatore, di provocare una reazione attraverso la semplicità e la potenza di materiali come la pietra, elementi in grado di riflettere (acqua, resine, specchi), cera, tessuti industriali, per indagare sulla natura dell’uomo anche attraverso la sua stessa pelle o la sua immagine riflessa. Umorismo e gioco permeano le opere dell’artista in modo pressoché equilibrato lungo tutta la sua carriera; le sue sculture creano un senso di sorpresa, sopraffazione e disorientamento nello spettatore, questo per via delle loro dimensioni, spesso gigantesche, ma anche perché esse, attraverso il colore, o il modo in cui comunicano con lo spazio circostante, sembrano attivare percezioni nascoste legate al nostro inconscio.
Il mio elaborato intende puntare sulle tematiche ricorrenti all’interno del lavoro dell’artista anglo-indiano che sono riconducibili in primo luogo alla luce e all’oscurità come generatori del nostro senso dello spazio. Il concetto di luce va anche inteso nell’accezione di generatrice di colore. Le opere di Kapoor sono caratterizzate da materiali tanto diversi come pigmenti naturali, resine traslucide, alabastro, acqua e specchi o acciaio riflettente. Inoltre dalla metà degli anni novanta l’artista si è dedicato ad esplorare la nozione di “vuoto”, creando delle opere che sembrano ritirarsi in lontananza, sparire dentro i muri o nel pavimento, o destabilizzare lo spettatore circa le leggi fisiche che governano il mondo. L’artista infatti è molto interessato allo spazio anche nella sua accezione negativa. In opere come Adam (1989, fig. 1), Void Field (1990, fig. 2) e Discent into Limbo (1992, fig. 3), il vuoto si manifesta come un campo di forze in cui la materia sembra immateriale, la solidità degli oggetti è negata da spazi recessivi e in fuga, e superfici e masse sono perforate da aperture che indicano l'infinito. Le opere di Kapoor obbligano lo spettatore a diventare sensibile ai continui processi di conoscenza e immaginazione, d’istinto e di sogno, con cui la mente costruisce il mondo. Centrale nella sua ricerca rimane sempre l’uomo. Spazio e forme sono componenti della totalità percettiva del mondo circostante e del nostro Io. L’artista ricerca quindi la conoscenza attraverso una rappresentazione, talvolta diretta, talvolta illusoria, del mondo fenomenico e cerca di soddisfare quella che è la curiosità innata dell’uomo.
La ricerca della consapevolezza di sé avviene infatti proprio attraverso quei “buchi”, quelle assenze, quei riflessi che caratterizzano opere come Double Mirror (1998, fig. 4). Quest’opera è stata realizzata, a mio parere, grazie al contribuito che precedenti movimenti storici come il surrealismo e il futurismo hanno dato alla formazione di Kapoor. Il surrealismo permise di liberare l'inconscio in uno stato illusorio della mente, e incoraggia Kapoor ad esplorare la sua identità inconscia. L’obbiettivo del futurismo fu quello di scartare l'arte del passato e celebrare il cambiamento, l'originalità e l'innovazione nella cultura e nella società, insieme al dinamismo e la violenza della nuova tecnologia.
Kapoor rompe la tradizione scultorea, chiedendo allo spettatore di portare l’azione all’interno della scultura e contestando lo stesso ruolo dell’artista come creatore e rappresentante dell’espressione artistica. Un elemento ricorrente nella sua poetica è lo spazio e la percezione che l’opera stimola all’interno di un determinato ambiente. Molte delle sue installazioni vengono incorporate all’interno dei muri o dei pavimenti su cui sono esposte, o sembrano volerle inglobare, in una lotta continua alla stasi. L’effetto è quello di disorientarci, perché questi oggetti tridimensionali sembrano animarsi di vita propria. Un altro elemento chiave quindi interviene all’interno della lettura dell’opera, ossia il tempo. Il disorientamento provoca una pausa, e l’artista vuole far sì che proprio questo momento di riflessione si allunghi il più possibile, in modo che lo stimolo dell’opera raggiunga il suo interlocutore.
Attraverso la trasformazione di proprietà di oggetti e materiali, recentemente il lavoro di Kapoor ha ridotto sempre più i confini tra architettura, design, ingegneria e arte. Le sue istallazioni si caratterizzano per essere spesso monocromatiche, dalle forme curve, dai colori brillanti. Un elemento che ulteriormente le caratterizza, di cui ho già accennato e tratterò più ampiamente in seguito, sono le dimensioni, e proprio per rendere possibile la realizzazione di opere gigantesche come Leviathan (2011, fig. 5), un’installazione che andò ad occupare le sale del Grand Palais di Parigi in occasione della mostra di Monumenta 2011, che si compone di tre palloni interconnessi di PVC alti 35 metri gonfiati ad aria, è stato necessario l’intervento di una équipe specializzata di ingegneri. I visitatori della mostra sono stati invitati a camminare all’interno della struttura, immergendosi nel colore rosso intenso traslucido delle sue pareti, vivendo un’esperienza contemplativa quasi surreale. Il processo di fruizione dell’opera d’arte da parte dello spettatore, nel momento in cui questo si trova ad interagire con essa, quindi si caratterizza spesso per un senso di sopraffazione.
Ciò che mi ha particolarmente affascinato in Kapoor, spingendo a dedicarmi a questa ricerca monografica, è il fatto che il visibile non si costruisce solo nello sguardo rivolto all’opera. Il visibile esiste grazie alla comunicazione che lo sguardo costruisce tutto intorno all’opera stessa, entrando in rapporto con gli altri soggetti e lo spazio circostante. «Non c’è niente di immanente all’interno del mio lavoro, ma il cerchio si completa unicamente con la presenza dello spettatore. Esiste quindi una sostanziale differenza con quelle opere con un soggetto preciso, che hanno un significato preciso e una ragione di esistere al di là di tutto» .
La mia ricerca si inserisce nel panorama critico dell’artista come ultima analisi di alcune tematiche specifiche all’interno della poetica dello stesso. L’idea della tesi e i suoi primi risvolti sono nati principalmente intorno all’analisi della percezione, o è meglio dire “percezioni”, relative all’utilizzo di superfici specchianti all’interno della produzione artistica di autori quali Jeppe Hein, Olafur Elliason e Anish Kapoor. In particolare ciò che mi aveva affascinata era la stretta connessione che ha legato specchio e identità, poiché varie e molteplici sono le implicazioni assunte dallo specchio nei processi della formazione dell’io. Partendo quindi dall’analisi delle opere di Kapoor realizzate in acciaio inox specchiante, la mia ricerca si è amplificata andando a coinvolgere altri aspetti che sono emersi attraverso uno studio comparato sull’autore. Sempre mantenendo come denominatore comune la percezione, è stato interessante andare ad indagare i diversi ambienti estetici, dal colore, alla scala, ai giochi prospettici, attraverso cui l’artista conduce il suo personale assalto all’empirismo percettivo.
La prima parte del mio lavoro intende definire il contesto sociale nel quale l’artista nasce e cresce, l’India, e in seguito il viaggio in Inghilterra e il raggiungimento di una poetica più matura. Nel primo capitolo mi occuperò anche di fare una somma delle tendenze estetiche della penisola britannica, nello specifico Londra e dintorni, in modo da collocare Kapoor all’interno di un panorama artistico che indubbiamente lo ha contagiato.
La seconda parte della tesi si propone di estrapolare una serie di concetti ricorrenti all’interno dell’opera dell’artista ed andarli ad analizzare uno ad uno. Il lavoro di Kapoor si sviluppa fin dall’inizio come una ricerca che riguarda ciò che non si vede, o, alternativamente, ciò che si vede ed è contraddetto dalla nostra conoscenza del mondo. La realtà, per Kapoor, è più complessa di ciò che si crede. Possiamo leggere le sue opere in modi diversi: esiste il linguaggio del colore, il linguaggio del vuoto, il linguaggio dello specchio, il linguaggio della cera, ed altri ancora. A mio parere, e la parte centrale del mio lavoro si occuperà proprio di giustificare questa affermazione, queste diverse tipologie di linguaggio sono in relazione le une con le altre e il loro interagire è fondamentale.
Attraverso i capitoli che analizzeranno in seguito questo approccio all’opera d’arte sono spesso tornata sulla domanda circa lo status dell’oggetto all’interno della poetica di Kapoor. Quanto rivela e quanto nasconde? Dove si trova lo spazio reale dell’oggetto? È davvero ciò che osserviamo o in realtà è il luogo nascosto dietro a quello che sta di fronte ai nostri occhi? Il lavoro dell’artista si sviluppa in aperto dialogo con il minimalismo e l’arte concettuale, perché fondamentalmente condivide con questi movimenti una profonda avversione verso la nozione di arte come processo di espressione autocelebrativa. Le sue opere sembrano al contrario esprimere più dubbi che certezze, lo status dell’oggetto è messo in questione, così come la figura del creatore. La mitologia dell’autogenerazione pervade infatti tutta la sua produzione artistica. Ritengo che esistano due tipologie del divenire che definiscono l’opera di Kapoor, una essenzialmente cinetica, che ha a che fare con l’evoluzione, col divenire, registrato dal nostro occhio che si posa sull’oggetto; l’altra ha a che fare con uno stato interiore, più poetico, che necessita l’intervento della nostra immaginazione.
Questa analisi si è avvalsa dell’utilizzo di fonti bibliografiche da cui ho potuto estrapolare le informazioni biografiche sull’autore. Risalire all’infanzia dell’artista non è stato semplice, perché Kapoor nelle sue dichiarazioni sembra quasi voler mascherare l’importanza che hanno avuto le sue origini indiane nel processo di formazione della sua sensibilità estetica. Quello che è affascinante, da un punto di vista culturale è la confluenza di vocabolari visuali provenienti da tempi e luoghi diversi. Non si può affermare con esattezza che l’elemento indiano sia stato primario rispetto alla tradizione modernista, quello che è importante è il modo in cui l’opera di Kapoor rende omaggio a disparate culture senza tradirne nessuna, bensì integrandole.
Sembra appropriato riferirsi a questa espressione quando parliamo delle opere di Anish Kapoor, che in effetti sono situate in un preciso spazio e parlano una lingua simbolica circa il significato e l’utilizzo di quel dato spazio. La complessità di questi lavori necessita comunque un’attenzione dettagliata al materiale e al processo di trasformazione che si è evoluto all’interno della scultura contemporanea, facendo ovviamente ricorso ai cambiamenti che l’hanno definita nella storia moderna. Nel corso del ventesimo secolo, il ruolo della scultura nel mondo dell'arte è mutato, specialmente perché essa ha messo in discussione le proprie ragioni e metodologie esecutive, e gli artisti hanno cercato nuovi materiali e finalità estetiche.
Kapoor è nato nel 1954 a Bombay, ora rinominata Mumbai, in India, da padre indiano e madre ebrea. Come si vedrà la nascita in India è stata fondamentale nella cultura di Kapoor, per le sue tradizioni popolari, religiose e per il suo paesaggio. In aggiunta, l’artista ha lavorato all'interno delle radici del modernismo del XX secolo, e ha preso ispirazioni da artisti quali Richard Serra, Dan Flavin, Yves Klein e James Turrell nei quali minimalismo geometrico e costruttivismo si fondono con la teatralità, per cui l’artista trasforma l’atto di “vedere” in un tipo di spettacolo in cui la partecipazione dello spettatore è richiesta e l’artificio dell’opera è svelato. Anche il lavoro di espressionisti astratti quali Barnett Newman, Mark Rothko e Jackson Pollock è stato fondamentale per modellare la sua poetica circa il colore e l’approccio all’opera d’arte. In Inghilterra dal 1972, l’artista ha frequentato il Hornsey College of Art (1973-77) e la Chelsea School of Art (1977-78) di Londra, ed è dai primi anni ottanta che si impone sulla scena internazionale rappresentando nel 1990 il Regno Unito alla XLIV Biennale di Venezia.
Nella mia tesi mi propongo di analizzare il percorso artistico di Kapoor, focalizzandomi su specifiche opere che, a mio parere, sono esemplificative della sua poetica ed esplorano i fenomeni psico-percettivi attraverso l’utilizzo di materiali che per le loro intrinseche proprietà di riflessione della luce o di texture, o trasparenza, implicano analogie con il corpo umano, oppure la sua stessa presenza, e puntano a manifestare una forma di sublime e perturbante.
Propongo di descrivere l’arte di Kapoor, come un “lirismo ermetico”. Lirismo in quanto nelle sue opere predomina l’espressione della soggettività. Nelle opere, infatti, viene accentuato il valore evocativo e musicale di determinate forme e materiali. Quella di Kapoor vuole essere una sorta di prosa mirata a raggiungere una estrema essenzialità espressiva. Egli attraverso l’intuizione e l’istinto, trova il modo di far sì che i materiali come il PVC, la cera, l’acciaio, emanino sensazioni equivalenti a quelle suscitate dalla poesia.
Lavorare con segni molto sintetici è essenziale, essi solo in minima parte infatti sono allusivi al reale, e permettono alla mente dello spettatore di rivisitarli. L’artista non rispetta i normali accostamenti logici, non vuole affermare niente di definitivo con la sua poetica artistica, anzi, lascia aperta la porta dell’interpretazione. Il termine “ermetico” mi pare appropriato, in quanto le sue opere spesso sono più tracce che significati, tracce che devono essere interpretate da altri in un secondo tempo. Il più delle volte lo scopo dell’artista è quello di coinvolgere lo spettatore, di provocare una reazione attraverso la semplicità e la potenza di materiali come la pietra, elementi in grado di riflettere (acqua, resine, specchi), cera, tessuti industriali, per indagare sulla natura dell’uomo anche attraverso la sua stessa pelle o la sua immagine riflessa. Umorismo e gioco permeano le opere dell’artista in modo pressoché equilibrato lungo tutta la sua carriera; le sue sculture creano un senso di sorpresa, sopraffazione e disorientamento nello spettatore, questo per via delle loro dimensioni, spesso gigantesche, ma anche perché esse, attraverso il colore, o il modo in cui comunicano con lo spazio circostante, sembrano attivare percezioni nascoste legate al nostro inconscio.
Il mio elaborato intende puntare sulle tematiche ricorrenti all’interno del lavoro dell’artista anglo-indiano che sono riconducibili in primo luogo alla luce e all’oscurità come generatori del nostro senso dello spazio. Il concetto di luce va anche inteso nell’accezione di generatrice di colore. Le opere di Kapoor sono caratterizzate da materiali tanto diversi come pigmenti naturali, resine traslucide, alabastro, acqua e specchi o acciaio riflettente. Inoltre dalla metà degli anni novanta l’artista si è dedicato ad esplorare la nozione di “vuoto”, creando delle opere che sembrano ritirarsi in lontananza, sparire dentro i muri o nel pavimento, o destabilizzare lo spettatore circa le leggi fisiche che governano il mondo. L’artista infatti è molto interessato allo spazio anche nella sua accezione negativa. In opere come Adam (1989, fig. 1), Void Field (1990, fig. 2) e Discent into Limbo (1992, fig. 3), il vuoto si manifesta come un campo di forze in cui la materia sembra immateriale, la solidità degli oggetti è negata da spazi recessivi e in fuga, e superfici e masse sono perforate da aperture che indicano l'infinito. Le opere di Kapoor obbligano lo spettatore a diventare sensibile ai continui processi di conoscenza e immaginazione, d’istinto e di sogno, con cui la mente costruisce il mondo. Centrale nella sua ricerca rimane sempre l’uomo. Spazio e forme sono componenti della totalità percettiva del mondo circostante e del nostro Io. L’artista ricerca quindi la conoscenza attraverso una rappresentazione, talvolta diretta, talvolta illusoria, del mondo fenomenico e cerca di soddisfare quella che è la curiosità innata dell’uomo.
La ricerca della consapevolezza di sé avviene infatti proprio attraverso quei “buchi”, quelle assenze, quei riflessi che caratterizzano opere come Double Mirror (1998, fig. 4). Quest’opera è stata realizzata, a mio parere, grazie al contribuito che precedenti movimenti storici come il surrealismo e il futurismo hanno dato alla formazione di Kapoor. Il surrealismo permise di liberare l'inconscio in uno stato illusorio della mente, e incoraggia Kapoor ad esplorare la sua identità inconscia. L’obbiettivo del futurismo fu quello di scartare l'arte del passato e celebrare il cambiamento, l'originalità e l'innovazione nella cultura e nella società, insieme al dinamismo e la violenza della nuova tecnologia.
Kapoor rompe la tradizione scultorea, chiedendo allo spettatore di portare l’azione all’interno della scultura e contestando lo stesso ruolo dell’artista come creatore e rappresentante dell’espressione artistica. Un elemento ricorrente nella sua poetica è lo spazio e la percezione che l’opera stimola all’interno di un determinato ambiente. Molte delle sue installazioni vengono incorporate all’interno dei muri o dei pavimenti su cui sono esposte, o sembrano volerle inglobare, in una lotta continua alla stasi. L’effetto è quello di disorientarci, perché questi oggetti tridimensionali sembrano animarsi di vita propria. Un altro elemento chiave quindi interviene all’interno della lettura dell’opera, ossia il tempo. Il disorientamento provoca una pausa, e l’artista vuole far sì che proprio questo momento di riflessione si allunghi il più possibile, in modo che lo stimolo dell’opera raggiunga il suo interlocutore.
Attraverso la trasformazione di proprietà di oggetti e materiali, recentemente il lavoro di Kapoor ha ridotto sempre più i confini tra architettura, design, ingegneria e arte. Le sue istallazioni si caratterizzano per essere spesso monocromatiche, dalle forme curve, dai colori brillanti. Un elemento che ulteriormente le caratterizza, di cui ho già accennato e tratterò più ampiamente in seguito, sono le dimensioni, e proprio per rendere possibile la realizzazione di opere gigantesche come Leviathan (2011, fig. 5), un’installazione che andò ad occupare le sale del Grand Palais di Parigi in occasione della mostra di Monumenta 2011, che si compone di tre palloni interconnessi di PVC alti 35 metri gonfiati ad aria, è stato necessario l’intervento di una équipe specializzata di ingegneri. I visitatori della mostra sono stati invitati a camminare all’interno della struttura, immergendosi nel colore rosso intenso traslucido delle sue pareti, vivendo un’esperienza contemplativa quasi surreale. Il processo di fruizione dell’opera d’arte da parte dello spettatore, nel momento in cui questo si trova ad interagire con essa, quindi si caratterizza spesso per un senso di sopraffazione.
Ciò che mi ha particolarmente affascinato in Kapoor, spingendo a dedicarmi a questa ricerca monografica, è il fatto che il visibile non si costruisce solo nello sguardo rivolto all’opera. Il visibile esiste grazie alla comunicazione che lo sguardo costruisce tutto intorno all’opera stessa, entrando in rapporto con gli altri soggetti e lo spazio circostante. «Non c’è niente di immanente all’interno del mio lavoro, ma il cerchio si completa unicamente con la presenza dello spettatore. Esiste quindi una sostanziale differenza con quelle opere con un soggetto preciso, che hanno un significato preciso e una ragione di esistere al di là di tutto» .
La mia ricerca si inserisce nel panorama critico dell’artista come ultima analisi di alcune tematiche specifiche all’interno della poetica dello stesso. L’idea della tesi e i suoi primi risvolti sono nati principalmente intorno all’analisi della percezione, o è meglio dire “percezioni”, relative all’utilizzo di superfici specchianti all’interno della produzione artistica di autori quali Jeppe Hein, Olafur Elliason e Anish Kapoor. In particolare ciò che mi aveva affascinata era la stretta connessione che ha legato specchio e identità, poiché varie e molteplici sono le implicazioni assunte dallo specchio nei processi della formazione dell’io. Partendo quindi dall’analisi delle opere di Kapoor realizzate in acciaio inox specchiante, la mia ricerca si è amplificata andando a coinvolgere altri aspetti che sono emersi attraverso uno studio comparato sull’autore. Sempre mantenendo come denominatore comune la percezione, è stato interessante andare ad indagare i diversi ambienti estetici, dal colore, alla scala, ai giochi prospettici, attraverso cui l’artista conduce il suo personale assalto all’empirismo percettivo.
La prima parte del mio lavoro intende definire il contesto sociale nel quale l’artista nasce e cresce, l’India, e in seguito il viaggio in Inghilterra e il raggiungimento di una poetica più matura. Nel primo capitolo mi occuperò anche di fare una somma delle tendenze estetiche della penisola britannica, nello specifico Londra e dintorni, in modo da collocare Kapoor all’interno di un panorama artistico che indubbiamente lo ha contagiato.
La seconda parte della tesi si propone di estrapolare una serie di concetti ricorrenti all’interno dell’opera dell’artista ed andarli ad analizzare uno ad uno. Il lavoro di Kapoor si sviluppa fin dall’inizio come una ricerca che riguarda ciò che non si vede, o, alternativamente, ciò che si vede ed è contraddetto dalla nostra conoscenza del mondo. La realtà, per Kapoor, è più complessa di ciò che si crede. Possiamo leggere le sue opere in modi diversi: esiste il linguaggio del colore, il linguaggio del vuoto, il linguaggio dello specchio, il linguaggio della cera, ed altri ancora. A mio parere, e la parte centrale del mio lavoro si occuperà proprio di giustificare questa affermazione, queste diverse tipologie di linguaggio sono in relazione le une con le altre e il loro interagire è fondamentale.
Attraverso i capitoli che analizzeranno in seguito questo approccio all’opera d’arte sono spesso tornata sulla domanda circa lo status dell’oggetto all’interno della poetica di Kapoor. Quanto rivela e quanto nasconde? Dove si trova lo spazio reale dell’oggetto? È davvero ciò che osserviamo o in realtà è il luogo nascosto dietro a quello che sta di fronte ai nostri occhi? Il lavoro dell’artista si sviluppa in aperto dialogo con il minimalismo e l’arte concettuale, perché fondamentalmente condivide con questi movimenti una profonda avversione verso la nozione di arte come processo di espressione autocelebrativa. Le sue opere sembrano al contrario esprimere più dubbi che certezze, lo status dell’oggetto è messo in questione, così come la figura del creatore. La mitologia dell’autogenerazione pervade infatti tutta la sua produzione artistica. Ritengo che esistano due tipologie del divenire che definiscono l’opera di Kapoor, una essenzialmente cinetica, che ha a che fare con l’evoluzione, col divenire, registrato dal nostro occhio che si posa sull’oggetto; l’altra ha a che fare con uno stato interiore, più poetico, che necessita l’intervento della nostra immaginazione.
Questa analisi si è avvalsa dell’utilizzo di fonti bibliografiche da cui ho potuto estrapolare le informazioni biografiche sull’autore. Risalire all’infanzia dell’artista non è stato semplice, perché Kapoor nelle sue dichiarazioni sembra quasi voler mascherare l’importanza che hanno avuto le sue origini indiane nel processo di formazione della sua sensibilità estetica. Quello che è affascinante, da un punto di vista culturale è la confluenza di vocabolari visuali provenienti da tempi e luoghi diversi. Non si può affermare con esattezza che l’elemento indiano sia stato primario rispetto alla tradizione modernista, quello che è importante è il modo in cui l’opera di Kapoor rende omaggio a disparate culture senza tradirne nessuna, bensì integrandole.
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