Tesi etd-01192021-085658 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MARTINI, CHIARA
URN
etd-01192021-085658
Titolo
I problemi ancora aperti della prova nel processo tributario
Dipartimento
ECONOMIA E MANAGEMENT
Corso di studi
CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE
Relatori
relatore Prof. Zanotti, Nicolò
Parole chiave
- I problemi della prova nel processo tributario
Data inizio appello
22/02/2021
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
22/02/2091
Riassunto
Il lavoro che mi preparo ad affrontare ha ad oggetto lo studio delle prove nel processo tributario.
Nel primo capitolo ho cercato di ripercorrere, seppur brevemente, la natura del processo tributario attraverso lo studio dei poteri delle Commissioni tributarie.
In origine, i poteri delle Commissioni sono stati caratterizzati da una impronta fortemente inquisitoria, dove la ricerca degli elementi istruttori da parte del giudice tributario era assolutamente spontanea e libera. In tal senso, infatti, mancavano dei veri e propri limiti ai poteri istruttori concessi al giudice. Il processo tributario veniva, quindi, qualificato come processo fortemente inquisitorio. Dopo vari sviluppi, a seguito dell’introduzione dell’art. 7 del D.lgs. 546 del 1992, sono stati modificati i limiti entro cui i poteri conferiti alle Commissioni tributarie potessero essere esercitati. Ai sensi di tale articolo, tutt’oggi in vigore, non è consentito alle Commissioni di acquisire d’ufficio prove, su fatti diversi da quelli dedotti nel ricorso, oppure di proseguire la ricerca delle prove, sostituendosi alle parti nella deduzione dei fatti da produrre. La regola in esame deve ricondursi al principio dispositivo (art. 115 c.p.c.) per il quale solo alle parti spetta il potere di delimitare la materia del contendere ed il relativo thema probandum. Di vitale importanza, in tale ricostruzione storica, è stata l’abrogazione del 3 ° comma dell’art. 7 del D.lgs. 546 del 1992, che attribuiva alle Commissioni tributarie tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli Uffici tributari: tra queste facoltà doveva ricomprendersi anche il potere di acquisire ex officio atti e documenti. La ratio dell’abrogazione di tale norma è stata individuata nella volontà del legislatore di rimettere all’iniziativa delle parti l’andamento del processo.
Con tale abrogazione si rafforza in tal modo il carattere dispositivo del processo, evitando che il giudice possa rimediare alle carenze probatorie delle parti o possa indagare al di là di quanto risulta dagli atti di causa. L’applicazione di tale principio nel processo tributario ha rappresentato una delle novità più importanti all’interno del D.lgs. 546 del 1992.
Una volta chiarito che spetta alle parti delimitare la materia del contendere ed il relativo thema probandum, nel secondo capitolo si intende svolgere un’analisi dell’onere della prova e delle prove ammesse e quelle non concesse nel processo tributario. L’applicabilità della regola di giudizio fondata sull’onere della prova di cui all’art. 2697 è stata affermata soltanto in tempi recenti. In passato, infatti, tale regola è stata per molto tempo condizionata da alcune errate costruzioni teoretiche: in particolare la presunzione di legittimità degli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria, il principio del solve et repete e la posizione formale delle parti nel processo. Superate tali illegittime previsioni, dobbiamo ad una dottrina successiva, ed in particolare ad E. Allorio, la corretta impostazione della questione dell’onere probatorio nel processo tributario. A seguito di tale tesi, non si può più dubitare che sull’Ufficio accertatore incomba l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa.
In particolare, con riferimento al criterio di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., si afferma che sull’attore grava, l’onere di allegare e dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto di cui si ritiene titolare, mentre al convenuto spetta l’allegazione e la prova dei c.d. fatti estintivi, modificativi ed impeditivi. Tuttavia, tale assunto è riproducibile, nel processo tributario, solo sul piano formale, mentre, dal punto di vista sostanziale il fenomeno si atteggia in termini diametralmente opposti. In particolare nel processo soggetto attivo formale è il contribuente, soggetto attivo sostanziale è, invece, il soggetto che ha emanato l’atto impugnato.
Una volta stabilito come opera il criterio di ripartizione dell’onere della prova, non si potrà prescindere da un’analisi delle prove e in particolare da stabilire se l’elencazione del codice esaurisca i modelli probatori che il giudice è legittimato ad utilizzare, oppure se questi possa, con altri mezzi, acquisire conoscenza sui fatti in contestazione. La questione è di particolare importanza nel processo tributario stante l’applicabilità della disciplina processuale del rito ordinario per opera del rinvio operato dalla norma di cui all’art. 1 D.lgs. 546 del 1992. La laconica formulazione dell’art. 7, comma 4°, di tale decreto, ha suscitato un intenso dibattito in dottrina e in giurisprudenza: in particolare ci si è chiesti se l’elencazione analitica dei mezzi di prova, prevista e disciplinata dal codice di rito, implicasse il divieto di includerne altri, ovvero se la mancanza di una norma di chiusura, che esprimesse formalmente tale divieto, consentisse di argomentare per l’ammissibilità delle cosiddette prove atipiche.
L’art. 7 del D.lgs. 546 indica, infatti, al 4° comma, le prove che non sono ammesse e nulla dice su quelle ammesse: in particolare stabilisce che non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale. Tale affermazione apre la strada per l’ammissione delle altre prove previste dalla disciplina civilistica: in special modo, sono ammessi la confessione, le presunzioni e la prova documentale.
Nel terzo capitolo, l’obiettivo sarà quello di analizzare il tema delle cosiddette prove innominate o atipiche, e delle prove irritualmente acquisite.
In particolare la mancanza di un principio di tipicità dei mezzi istruttori, apre la strada all’ammissione nel processo tributario delle cosiddette prove atipiche. Tali prove sono sottoposte, ai sensi dell’art. 116 c.p.c. al “principio del libero convincimento del giudice”, il quale permette a quest’ultimo di scegliere all’interno del materiale probatorio acquisito al giudizio, gli elementi di prova su cui fondare il proprio convincimento. Tra le prove atipiche, si porrà particolare attenzione sulle dichiarazioni di terzi, la consulenza tecnica d’ufficio, il giudicato penale e le intercettazioni telefoniche, ed il comportamento delle parti.
Come ultima analisi, ci soffermeremo sul tema delle prove irritualmente acquisite. Sono tali le prove che, pur essendo connotate dalla rilevanza ai fini dell’accertamento della verità dei fatti oggetto del procedimento, sono acquisite con modalità illecite o illegittime. A differenza del codice di procedura penale (art. 191 c.p.p.), la disciplina tributaria non possiede norme che fungono da filtro del sistema, impedendo l’ingresso di prove assunte con modalità illegittime. Questa lacuna ha suscitato in dottrina e in giurisprudenza interpretazioni in contrasto tra di loro: da una parte, tale mancanza, può essere intesa come un segnale di accoglimento nel sistema di qualunque elemento probatorio, indipendentemente dalla sua origine più o meno lecita. Dall’altro, può rappresentare la conferma dell’assenza di norme in grado di rendere legittimo l’ingresso di prove illecite. Tra le prove irritualmente acquisite porremo l’attenzione sulle prove illecitamente acquisite all’estero, ed in particolare sulla c.d. Lista Falciani. Dopo un intenso dibattito riguardante la costituzionalità o l’incostituzionalità dell’utilizzo della prova illegittimamente acquisita, mantengono rilievo due ordinanze ovvero la n. 8605 e la n. 8606 del 2015, in cui la Corte di Cassazione ha sostenuto la tesi della piena utilizzabilità della prova irritualmente acquisita, privilegiando così l’interesse erariale alla riscossione dei tributi. Questo a discapito di altri valori e principi, in particolar modo a quelli collegati al diritto alla riservatezza e al dovere di riserbo sui dati bancari, che la Corte ha considerato degradati rispetto a quelli riferibili al dovere inderogabile imposto ad ogni contribuente ai sensi dell’art. 53, ovvero il principio di capacità contributiva.
Nel primo capitolo ho cercato di ripercorrere, seppur brevemente, la natura del processo tributario attraverso lo studio dei poteri delle Commissioni tributarie.
In origine, i poteri delle Commissioni sono stati caratterizzati da una impronta fortemente inquisitoria, dove la ricerca degli elementi istruttori da parte del giudice tributario era assolutamente spontanea e libera. In tal senso, infatti, mancavano dei veri e propri limiti ai poteri istruttori concessi al giudice. Il processo tributario veniva, quindi, qualificato come processo fortemente inquisitorio. Dopo vari sviluppi, a seguito dell’introduzione dell’art. 7 del D.lgs. 546 del 1992, sono stati modificati i limiti entro cui i poteri conferiti alle Commissioni tributarie potessero essere esercitati. Ai sensi di tale articolo, tutt’oggi in vigore, non è consentito alle Commissioni di acquisire d’ufficio prove, su fatti diversi da quelli dedotti nel ricorso, oppure di proseguire la ricerca delle prove, sostituendosi alle parti nella deduzione dei fatti da produrre. La regola in esame deve ricondursi al principio dispositivo (art. 115 c.p.c.) per il quale solo alle parti spetta il potere di delimitare la materia del contendere ed il relativo thema probandum. Di vitale importanza, in tale ricostruzione storica, è stata l’abrogazione del 3 ° comma dell’art. 7 del D.lgs. 546 del 1992, che attribuiva alle Commissioni tributarie tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli Uffici tributari: tra queste facoltà doveva ricomprendersi anche il potere di acquisire ex officio atti e documenti. La ratio dell’abrogazione di tale norma è stata individuata nella volontà del legislatore di rimettere all’iniziativa delle parti l’andamento del processo.
Con tale abrogazione si rafforza in tal modo il carattere dispositivo del processo, evitando che il giudice possa rimediare alle carenze probatorie delle parti o possa indagare al di là di quanto risulta dagli atti di causa. L’applicazione di tale principio nel processo tributario ha rappresentato una delle novità più importanti all’interno del D.lgs. 546 del 1992.
Una volta chiarito che spetta alle parti delimitare la materia del contendere ed il relativo thema probandum, nel secondo capitolo si intende svolgere un’analisi dell’onere della prova e delle prove ammesse e quelle non concesse nel processo tributario. L’applicabilità della regola di giudizio fondata sull’onere della prova di cui all’art. 2697 è stata affermata soltanto in tempi recenti. In passato, infatti, tale regola è stata per molto tempo condizionata da alcune errate costruzioni teoretiche: in particolare la presunzione di legittimità degli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria, il principio del solve et repete e la posizione formale delle parti nel processo. Superate tali illegittime previsioni, dobbiamo ad una dottrina successiva, ed in particolare ad E. Allorio, la corretta impostazione della questione dell’onere probatorio nel processo tributario. A seguito di tale tesi, non si può più dubitare che sull’Ufficio accertatore incomba l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa.
In particolare, con riferimento al criterio di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., si afferma che sull’attore grava, l’onere di allegare e dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto di cui si ritiene titolare, mentre al convenuto spetta l’allegazione e la prova dei c.d. fatti estintivi, modificativi ed impeditivi. Tuttavia, tale assunto è riproducibile, nel processo tributario, solo sul piano formale, mentre, dal punto di vista sostanziale il fenomeno si atteggia in termini diametralmente opposti. In particolare nel processo soggetto attivo formale è il contribuente, soggetto attivo sostanziale è, invece, il soggetto che ha emanato l’atto impugnato.
Una volta stabilito come opera il criterio di ripartizione dell’onere della prova, non si potrà prescindere da un’analisi delle prove e in particolare da stabilire se l’elencazione del codice esaurisca i modelli probatori che il giudice è legittimato ad utilizzare, oppure se questi possa, con altri mezzi, acquisire conoscenza sui fatti in contestazione. La questione è di particolare importanza nel processo tributario stante l’applicabilità della disciplina processuale del rito ordinario per opera del rinvio operato dalla norma di cui all’art. 1 D.lgs. 546 del 1992. La laconica formulazione dell’art. 7, comma 4°, di tale decreto, ha suscitato un intenso dibattito in dottrina e in giurisprudenza: in particolare ci si è chiesti se l’elencazione analitica dei mezzi di prova, prevista e disciplinata dal codice di rito, implicasse il divieto di includerne altri, ovvero se la mancanza di una norma di chiusura, che esprimesse formalmente tale divieto, consentisse di argomentare per l’ammissibilità delle cosiddette prove atipiche.
L’art. 7 del D.lgs. 546 indica, infatti, al 4° comma, le prove che non sono ammesse e nulla dice su quelle ammesse: in particolare stabilisce che non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale. Tale affermazione apre la strada per l’ammissione delle altre prove previste dalla disciplina civilistica: in special modo, sono ammessi la confessione, le presunzioni e la prova documentale.
Nel terzo capitolo, l’obiettivo sarà quello di analizzare il tema delle cosiddette prove innominate o atipiche, e delle prove irritualmente acquisite.
In particolare la mancanza di un principio di tipicità dei mezzi istruttori, apre la strada all’ammissione nel processo tributario delle cosiddette prove atipiche. Tali prove sono sottoposte, ai sensi dell’art. 116 c.p.c. al “principio del libero convincimento del giudice”, il quale permette a quest’ultimo di scegliere all’interno del materiale probatorio acquisito al giudizio, gli elementi di prova su cui fondare il proprio convincimento. Tra le prove atipiche, si porrà particolare attenzione sulle dichiarazioni di terzi, la consulenza tecnica d’ufficio, il giudicato penale e le intercettazioni telefoniche, ed il comportamento delle parti.
Come ultima analisi, ci soffermeremo sul tema delle prove irritualmente acquisite. Sono tali le prove che, pur essendo connotate dalla rilevanza ai fini dell’accertamento della verità dei fatti oggetto del procedimento, sono acquisite con modalità illecite o illegittime. A differenza del codice di procedura penale (art. 191 c.p.p.), la disciplina tributaria non possiede norme che fungono da filtro del sistema, impedendo l’ingresso di prove assunte con modalità illegittime. Questa lacuna ha suscitato in dottrina e in giurisprudenza interpretazioni in contrasto tra di loro: da una parte, tale mancanza, può essere intesa come un segnale di accoglimento nel sistema di qualunque elemento probatorio, indipendentemente dalla sua origine più o meno lecita. Dall’altro, può rappresentare la conferma dell’assenza di norme in grado di rendere legittimo l’ingresso di prove illecite. Tra le prove irritualmente acquisite porremo l’attenzione sulle prove illecitamente acquisite all’estero, ed in particolare sulla c.d. Lista Falciani. Dopo un intenso dibattito riguardante la costituzionalità o l’incostituzionalità dell’utilizzo della prova illegittimamente acquisita, mantengono rilievo due ordinanze ovvero la n. 8605 e la n. 8606 del 2015, in cui la Corte di Cassazione ha sostenuto la tesi della piena utilizzabilità della prova irritualmente acquisita, privilegiando così l’interesse erariale alla riscossione dei tributi. Questo a discapito di altri valori e principi, in particolar modo a quelli collegati al diritto alla riservatezza e al dovere di riserbo sui dati bancari, che la Corte ha considerato degradati rispetto a quelli riferibili al dovere inderogabile imposto ad ogni contribuente ai sensi dell’art. 53, ovvero il principio di capacità contributiva.
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