Tesi etd-01112015-170210 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
DEMISEA, EMEBET MOLLA
Indirizzo email
emebet.molla@libero.it
URN
etd-01112015-170210
Titolo
L'immigrazione dall'Africa subsahariana verso l'Italia
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Paone, Sonia
Parole chiave
- immigrazione
Data inizio appello
05/02/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
Riassunto della Tesi di Emebet Molla Demisea
L’immigrazione dall’Africa sub sahariana verso l’Italia
La tesi analizza alcuni aspetti dei flussi migratori dall’ Africa Sub Sahariana che spostano verso l’Italia.
I migranti sub sahariani utilizzano diversi percorsi: via terra, mare e aerea per raggiungere le loro destinazioni prima in Nord Africa e poi in Europa. Le politiche di immigrazione sempre più restrittive dell'UE hanno portato i migranti ad una crescente dipendenza dalle vie terrestri. Infatti, molti migranti sub sahariani per arrivare in Europa via mare devono attraversare prima il deserto del Sahara. Questo deserto unisce l’Africa sahariana ai Paesi del Maghreb, è in particolare, luogo di transito dei migranti economici (provenienti dall’Africa occidentale) e dei richiedenti asilo (in gran parte del Corno d’Africa). Però, la traversata del Sahara è colma di pericoli: per sperare di avere una possibilità di giungere alla meta, i migranti sono costretti ad affidarsi a organizzazioni criminali che gestiscono il passaggio da un confine all’altro.
Le rotte verso l’Italia sono varie ma possiamo citare le tre più interessanti: la prima rotta è quella che parte da Dakar ( Senegal) attraversa il Niger seguendo l’antico tragitto carovaniero che passa per Agadez, Dirkou e Madama per arrivare in Libia e poi per proseguire a Lampedusa. Questa rotta è stata percorsa anche dal giornalista Fabrizio Gatti, egli nel suo libro Bilal narra così: ad ogni città di transito i passeggeri vengono derubati e spesso picchiati violentemente dalle forze armate per estorcergli denaro: oltre al costo del viaggio già enorme, si aggiungono, le c.d. pesanti tangenti. L’impossibilità per alcuni migranti di aver sufficienti risorse per superare le varie stazioni di sosta crea il fenomeno delle cosiddette “oasi degli schiavi”: luoghi
in cui i migranti rimangono bloccati e non possono neanche a ritornare nel loro paese d’origine. Per non morire di fame lavorano gratis. Solo dopo mesi di fatica il padrone gli lascia andare, pagando finalmente il biglietto per la Libia . La seconda via è quella che raduna gli immigranti provenienti dall’Africa occidentale attraversa lo stato del Mali per arrivare in Algeria e poi per giungere in Sardegna; in questa via da Agadez la rotta migratoria si biforca in due direzioni: verso nord-est all’oasi di Sebha (attraverso l’oasi di Dirkou) e verso nord-ovest a Tammanrasset nel sud dell’Algeria. Nella Libia meridionale dall’oasi di Sebha i migranti riprendono la loro strada verso Tripoli e altre città costiere, per poi imbarcarsi in piccole barche direte verso Lampedusa, e anche Sardegna. La terza rotta è percorsa dai migranti originari del Corno d’Africa (eritrei, etiopi somali e sudanesi) che attraversano il Sudan per raggiungere il deserto Libico, passando per le oasi di Kufrah. Il biglietto si acquista nei mercati di Khartoum. Da lì si parte sui fuoristrada pick-up che trasportano una media di trenta persone. Il viaggio per la Libia salvo imprevisti dura un paio di settimane. Arrivati in Libia, vengono venduti dai trafficanti sudanesi ai loro “colleghi” libici.
La Libia ha tradizionalmente gestito la forza lavoro immigrata secondo il modello condiviso dagli altri stati arabi oil-rentier, aprendo all’immigrazione, ma chiudendo ogni forma d’integrazione e di stabilizzazione ai lavoratori stranieri. La politica panafricanista di Gheddafi negli anni ’90 spingeva i lavoratori provenienti dal territorio sub sahariano a venire a lavorare in Libia.
Una volta arrivati in Libia, però le speranze di una vita migliore per i rifugiati e i migranti vengono indebolite. Essi vivono in un clima di paura, perché temono di esser trattenuti indefinitamente in campi e in centri di detenzione sovraffollati, e rimpatriati, dove li aspettano persecuzioni e torture.
I campi sono la forma per confinare chi non appartiene a quell’ordine statuale. Di campi sono disseminati tutti i paesi confinanti con l’area di Shengen: dalla Polonia alla Romania, dalla Bulgaria alla Libia i migranti non assimilabili o non desiderabili sono rinchiusi in spazi senza diritti. I primi campi furono costruiti nelle varie colonie d’oltremare: in Cuba, Sudafrica, Namibia e Libia. E’ proprio nelle colonie che nasce l’idea di un’umanità in eccesso da riterritorializzare.
I centri di detenzione per i migranti irregolari in Libia sono costruiti per trattenere gli stranieri che entrano illegalmente nel territorio libico, e per quelli che sono espulsi dall’Europa. Alcuni centri sono costruiti con finanziamento dell’Italia e altri con finanziamento dell’Unione Europea. I centri di detenzione più noti: El-Fellah, Misuratah, Zeliten, Kufrah, Sebha questi ultimi 3 centri invece sono stati finanziati dall’Italia.
Vediamo come sono costruiti ed organizzati alcuni di questi centri di detenzione. Il centro detenzione di El-Fellah è collocato nel cuore di Tripoli. Un carcere blindato, sorvegliato da uomini armati, Intorno a un cortile sale una struttura quadrata su due piani e un seminterrato. Su ogni piano 6 camerati senza porte, suddivise ciascuna in 8 celle di 5 metri per 3. Porte di ferro, finestre alte e sbarrate. In questo centro finiscono gli immigrati clandestini sorpresi in territorio libico; anche quelli sbarcati a Lampedusa e rispediti “in Libia”. In questo luogo soldi, preziosi e telefonini vengono confiscati prima dell’arresto dai poliziotti. Qui gli stranieri sono nudi, e sono spogliati tutto quello che avevano con sé. Il centro di detenzione di Kufrah, è si trova in pieno deserto al confine con il Sudan. Questo luogo è uno dei punti più sensibili per lo smistamento dei clandestini. In passato, ha rappresentato uno snodo importante per le carovane di mercanti che arrivavano dal Ciad per raggiungere la costa mediterranea. Attualmente a Kufrah giungono soprattutto i migranti irregolari che partono dai paesi del Corno d’Africa. In questo luogo vengono internati sia migranti alla loro entrata nel paese che quando stanno per essere deportati al di là dei confini di terra con il Sudan e l’Egitto. La struttura Misuratah invece è chiamata “campo”, addirittura “campo profughi”, perché qui finiscono in maggioranza i respinti dall’Italia. Questa struttura è divenuta anche un centro specializzato prevalentemente per rifugiati e richiedenti asilo eritrei ed altri individui di interesse per l’Unhcr. I clandestini vengono trattenuti per oltre 3 anni. A differenza di quanto avviene in altre località meno controllate, al “campo” di Misratha dal 2007 ha accesso la delegazione Unhcr e la sua organizzazione. Zleitan si trova vicino a Tripoli, in questo luogo i trafficanti di esseri umani hanno modificato le rotte della traversata per evitare il controllo congiunto italo-libico. Invece venire direttamente in Italia prima vanno verso le coste greche, e voltano in direzione della Sicilia allungano il tempo e i rischi della navigazione. Il centro di detenzione di Zleitan situato nell’omonimo porto a est di Tripoli, dove vengono portati alcuni dei migranti che non riescono a partire. Infine Zuwara città portuale e noto punto di partenza dei migranti, confine con la Tunisia, è un centro della tratta di essere umani. Il centro detenzione di Zwara è uno dei posti dove vengono portati i migranti dei barconi respinti dall’ Italia a partire dal maggio 2009. Tutti questi non sono centri di detenzione sono veri carceri. Spesso sono vecchi magazzini adibiti alla funzione detentiva e sorvegliati dalla polizia. Per quanto riguarda le situazioni delle donne nei centri di detenzione è terrificante; ragazze stuprate e giovani donne picchiate, umiliate sotto gli occhi dei mariti. Per avere un’idea di quanti siano i bambini e i ragazzi a passare per la detenzione basti pensare che solo nel 2011 sono sbarcati a Lampedusa quasi 4.500 ragazzini non accompagnati. Per loro la fuga e il rischio della morte in mare è sempre meglio dell’incubo di una vita in Libia.
Si può affermare che i flussi migratori tra l’Africa sub sahariana e la Libia hanno contribuito a modificare la geografia del Sahara. Le città nelle quali i migranti fanno tappa come Agadez, Kufrah e Sebha hanno conosciuto lo sviluppo di un’economia di transito che è diventata anche il motore dello sviluppo locale. Sono dunque tre gli aspetti sotto i quali le migrazioni contribuiscono alla trasformazione dello spazio sahariano modellato dallo Stato: quello dell’ambiente abitativo, quello delle attività economiche e quello della costruzione di un’identità urbana. Negli anni ‘90, i flussi migratori africani hanno messo in discussione il riferimento spaziale del Sahara, così come quello etnico e religioso, e la relazione diretta tra emigrazione dal Sahel e immigrazione in Libia. Questa dicotomia si riflette in modo evidente nei paesaggi urbani: sono moltiplicati i villaggi di rifugiati alla periferia delle città del Sahara libico, i villaggi sono travolti dal rapido sviluppo dell’edilizia abitativa informale . I modelli abitativi prevalenti sono tre: il 1° è “ ksar”: antichi villaggi fortificati e abbandonati. Grazie a questi immigrati sub sahariani in villaggi si assiste la ripopolazione dei paesi; il 2° modello è quello che consiste nel vivere sul luogo di lavoro; il 3° i “ghetti” sono oltre che degli alloggi, anche dei luoghi dove ritrovare dei connazionali che potranno facilitare l’inserimento dei nuovi arrivi in Libia.
Per la sua posizione geografica, l’Italia rappresenta uno dei punti d’ingresso in Europa per la migrazione africana. Le partenze si concentrano lungo le coste tra Zuwarah e Tripoli. Si può affermare che l’Italia è un ponte “fisico” fra Europa e Africa piazzato nel mezzo del Mediterraneo. Questo mare viene attraversato su imbarcazioni di fortuna: vecchi pescherecci, gommoni stracariche. Il viaggio dalla Libia a Lampedusa che, potrebbe durare poco più di un giorno e può prolungarsi per diverse settimane.
Le tre principali fasi del traffico di migranti per mare: la raccolta dei migranti; il carico e viaggio per mare; lo sbarco ed eventuale proseguimento del viaggio. Sebbene esistano viaggi auto organizzati dagli stessi migranti, la maggior parte delle partenze è controllata da alcune organizzazioni, ognuna dei quali si occupa del passaggio d’una frontiera. Ogni nazionalità ha i suoi connection man, che mettono in contatto il candidato all’emigrazione clandestina con il passeur e con la rete di persone che lo ospiterà e lo trasporterà al luogo d’imbarco. Sconti particolari vengono fatti a chi si offre volontario per guidare le imbarcazioni, e spesso affidate a capitani senza nessuna esperienza di mare. Anche per questo aumentano le vittime nel Mar Mediterraneo. Attraversare il mare rappresenta l’unica via per tentare la salvezza. Prendere il mare può vuol dire andare a ingrossare le fila delle quasi 20.000 vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo. Il 2014 si conferma l’anno più mortale di sempre con 4.077 vittime accertate nel mondo di cui 3.072 nel “Mediterraneo “. La maggior parte delle persone decedute (30%) è di origine sub sahariana. Ma il mar Mediterraneo detiene anche un altro primato, perché il 75% di tutti i decessi avvenuti nel globo durante il 2014, sono stati contati qui.
L’Italia, uno tra gli Stati membri dell’Unione Europea che ha passato da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Dalla metà degli anni ’80 alla metà degli ’90 seguì la fase che potremmo dire dell’emergenza. Negli anni ’90 si aprì una fase di approfondimento che, dopo un percorso tormentato, portò all’approvazione di una legge organica sull’immigrazione detta legge Turco-Napoletano (1998). Proprio con questa legge venne proposta anche la creazione dei Cpt (Centri di Permanenza Temporanea per gli stranieri).
Che cosa sono questi centri? Per “centri di detenzione“ sono quelle strutture che stabili o improvvisate nell’emergenza, sono spazi racchiusi all’interno di un confine materiale (mura, filo spinato, sbarre). Ciò che differenzia questi luoghi dalle istituzioni penali è soprattutto il loro aspetto amministrativo. Sono luoghi in cui le persone vengono internate sulla base di ciò che sono, della loro nazionalità del paese da cui provengono, del loro status di migranti, rifugiati, e in generale viaggiatori non autorizzati. I Centri di Permanenza Temporanea (CPT) furono creati per custodire gli stranieri clandestini in attesa di identificazione e di espulsione. Innanzitutto espellere uno straniero non è una faccenda semplice: ci sono questioni di carattere normativo: l’accompagnamento alla frontiera è una misura limitativa della libertà personale. Vi sono poi difficoltà economiche: rimpatriare i clandestini ha costi non uguale, e poi l’espulsione comporta notevoli difficoltà relative alla riammissione dei migranti nei loro paesi di origine., I Cpt prima di diventare luoghi di detenzione, erano appunto dei centri di accoglienza.
Nel 1998 il governo italiano istituiva i CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza) nei quali lo straniero, per il quale non poteva essere eseguita immediatamente l’espulsione, doveva essere trattenuto il tempo strettamente necessario ai fini dell’espulsione (massimo 20 giorni) più eventuali altri 10 giorni, nella imminenza del rimpatrio. Il primo Centro ad essere istituito è il “Serraino Vulpitta” di Trapani, a cui ne seguono altri in Sicilia, in Puglia e nel resto d’Italia, a Milano, Torino, Trieste. Gli edifici sono dislocati per lo più in zone periferiche, circondati spesso da alti muri e dotati di sbarre, recinti e filo spinati, somigliano alla tradizionale “prigione.
Attualmente il sistema dei centri di accoglienza e detenzione per stranieri è costituito da: CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza); CDA (Centri D’Accoglienza); CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Se analizziamo 1 dei questi centri come sono organizzati e costruiti, il CDA di Lampedusa è un emblematico ha l’aspetto di un vero carcere: filo spinato corre lungo il perimetro del Centro, Polizia ed Esercito ne controllano i confini. I CARA sono strutture istituite nel 2008 con il decreto legge 25/2008 dove viene inviato lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento. I CARA derivano dai CDI (Centri di Identificazione) Gli stranieri accolti in questi Centri si trovano in una condizione “semi-detentiva” in quanto possono lasciare le strutture durante il giorno, ma devono farvi ritorno per la notte. I CARA e i CDA, con dimensioni enormi, si trovano in zone periferiche, isolati dal resto del territorio e circondati da poderose recinzioni, assumendo facilmente la connotazione di “luoghi speciali”. Da un punto di vista strutturale, la funzione di contenimento e sorveglianza appare spesso predominante rispetto a quella dell’accoglienza. I centri che assolvono entrambe le funzioni di CDA e CARA sono: Bari Palese, Area aeroportuale, Brindisi, Loc. Restinco, Caltanissetta, Contrada Pian del Lago ecc.). A Caltanissetta c’e anche il CIE che si trova a Contrada Pian del Lago a circa 6–7 Km dal centro abitato. Il centro polifunzionale CDA/CARA/CIE può accogliere 552 persone in totale, mentre il CIE ha una capienza massima di 96 posti. Le nazionalità più rappresentate sono in genere Tunisia, Marocco, Nigeria ed Algeria. Per quanto riguarda i CIE prima denominati centri di permanenza temporanea (CPT), sono strutture previste dalla legge Bossi-Fini istituite per trattenere gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento. Il funzionamento dei CIE è di competenza del Prefetto, che affida i servizi di gestione della struttura a soggetti privati, responsabili del rapporto con i detenuti e del funzionamento materiale del centro.
Vediamo come sono costruiti e gestiti alcuni Cie in Italia: il centro di espulsione di Torino era in funzione dal 1999. Si trovava nell’area di una vecchia caserma del genio ferroviario, tra Corso Brunelleschi e via Santa Maria Mazzarello. Dal maggio del 2008, i container del vecchio centro erano stati rottamati e sostituiti da 3 sezioni in muratura appositamente progettati per la detenzione. 2 erano per gli uomini e 1 per le donne, ogni sezione consisteva in un area recintata da gabbie metalliche alte 6 metri. Mentre il Cie di Modena è aperto nel novembre del 2002, nasce dopo una vergognosa campagna di raccolta di firme che identifica i “clandestini” dai delinquenti. Inoltre, il Cie di Modena era 1dei centri a 5 stelle. La struttura fu costruita a fianco del carcere, dall’esterno aveva l’aspetto di un albergo su 2 piani. Niente filo spinato, niente mura di cinta. Pero, dal suo funzionamento si è verificato nel tempo numerosi problemi tra i quali l’utilizzo del CIE come contenitore di ex carcerati stranieri insieme a semplici persone irregolari, infiniti casi di autolesionismo fino ad arrivare ai gravissimi episodi dei suicidi.
L’Italia ha un rapporto particolare con la Libia, derivante dal periodo coloniale (gli anni 20 del novecento) in cui migliaia di italiani si trasferirono lì per avviare delle attività soprattutto riguardanti l’agricoltura e le attività imprenditoriali. Dopo la rimozione nell’embargo, l’Italia e la Libia avevano terminato un primo accordo nell’estate del 2000 contro terrorismo, criminalità organizzata, traffico di droga e immigrazione illegale. Il trattato più articolato è quello del 30 agosto 2008 siglato a Bengasi, dall’ex premier Berlusconi e Gheddafi con il c.d. “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” che mette la parola fine al contenzioso sul passato coloniale italiano in Tripolitania e Cirenaica e apre un’epoca di cooperazione in campo economico soprattutto energetico e di lotta all’immigrazione clandestina. Il trattato di amicizia del 2008 prevede 4 punti sulla mutua cooperazione nel contrasto all’immigrazione: il pattugliamento congiunto in acque libiche, l’intercettamento in alto mare, il finanziamento di un sistema di controllo libico, un sistema congiunto di individuazione dei migranti con rader e satellite.
L’intesa bilaterale quella è firmata nel 2007 rappresenta un tentativo di esternalizzare le procedure di detenzione amministrativa e rimpatrio anche alla luce del sovraffollamento del centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa.
L'esternalizzazione dell'asilo è un tipo di politiche migratorie attuate dai paesi dell'Unione europea consistente nella creazione dei centri per l’esame delle domande di asilo sia nei paesi di transito che nei paesi di origine. In tali strutture dovrebbero essere indotti a fermarsi i profughi prima ancora di raggiungere l’UE, ma rinviati anche quelli che erano già entrati in Europa a chiedere asilo. Inoltre l'esternalizzazione della politica europea d'asilo e d'immigrazione può essere suddivisa in due tendenze principali. L'UE avverte l'esigenza, da un lato, di "delocalizzare" al di fuori del suo territorio; e dall'altro, di far ricadere sui paesi terzi, mediante trasferimento delle responsabilità. Si può affermare che la Libia è parte integrante del sistema europeo di esternalizzazione dei controlli di frontiera per impedire gli arrivi dei migranti in UE.
Alla luce di quando detto sin’ora, si può affermare che Lampedusa è diventata peggio di Ellis Island, i trafficanti di uomini del 21° secolo sono più spietati dei negrieri del 1700. La porta più meridionale d’Italia e d’Europa da anni accoglie barconi carichi di disperati. Tutti provengono dalla Libia dopo viaggi della speranza durante i quali vivono in condizioni peggiori dei migranti del 1800 e 1900 che sono partiti per America e persino degli schiavi neri portati via dall’Africa . Di loro si sapeva in quanti sono partiti, ma di immigrati di oggi che vengano via mare dall’Africa si sa poco.
Il lavoro comprende anche delle interviste telefonica che ho fatto ad alcuni migranti sub sahariani, ho registrato le esperienze che avevano avuto durante la traversata del deserto del Sahara e del Mediterraneo: il loro viaggio per arrivare in Italia non è stata facile, infatti il racconto di John di origine nigeriano mi ha toccato:” il mare fa meno paura del deserto. Se hai superato il deserto del Sahara rimanendo vivo, è già grande cose. Prendere il largo a bordo di una qualsiasi imbarcazione è il segnale che stai per farcela perché il peggio è ormai alle spalle, che ti sei lasciato l’inferno libico. Il passaggio in mare non è certo una cosa facile. Un immigrato clandestino è costretto anche a bere acqua salata, l’esposizione continua al sole lo sfianca. Ma per me arrivare a Lampedusa era come arrivare alla terra promessa”.
Bisogna valutare quali prospettive dovrebbero mutare, in ambito europeo, italiano, libico ed africano, per evitare le continue stragi nel Mediterraneo durante le disperate traversate.
L’immigrazione dall’Africa sub sahariana verso l’Italia
La tesi analizza alcuni aspetti dei flussi migratori dall’ Africa Sub Sahariana che spostano verso l’Italia.
I migranti sub sahariani utilizzano diversi percorsi: via terra, mare e aerea per raggiungere le loro destinazioni prima in Nord Africa e poi in Europa. Le politiche di immigrazione sempre più restrittive dell'UE hanno portato i migranti ad una crescente dipendenza dalle vie terrestri. Infatti, molti migranti sub sahariani per arrivare in Europa via mare devono attraversare prima il deserto del Sahara. Questo deserto unisce l’Africa sahariana ai Paesi del Maghreb, è in particolare, luogo di transito dei migranti economici (provenienti dall’Africa occidentale) e dei richiedenti asilo (in gran parte del Corno d’Africa). Però, la traversata del Sahara è colma di pericoli: per sperare di avere una possibilità di giungere alla meta, i migranti sono costretti ad affidarsi a organizzazioni criminali che gestiscono il passaggio da un confine all’altro.
Le rotte verso l’Italia sono varie ma possiamo citare le tre più interessanti: la prima rotta è quella che parte da Dakar ( Senegal) attraversa il Niger seguendo l’antico tragitto carovaniero che passa per Agadez, Dirkou e Madama per arrivare in Libia e poi per proseguire a Lampedusa. Questa rotta è stata percorsa anche dal giornalista Fabrizio Gatti, egli nel suo libro Bilal narra così: ad ogni città di transito i passeggeri vengono derubati e spesso picchiati violentemente dalle forze armate per estorcergli denaro: oltre al costo del viaggio già enorme, si aggiungono, le c.d. pesanti tangenti. L’impossibilità per alcuni migranti di aver sufficienti risorse per superare le varie stazioni di sosta crea il fenomeno delle cosiddette “oasi degli schiavi”: luoghi
in cui i migranti rimangono bloccati e non possono neanche a ritornare nel loro paese d’origine. Per non morire di fame lavorano gratis. Solo dopo mesi di fatica il padrone gli lascia andare, pagando finalmente il biglietto per la Libia . La seconda via è quella che raduna gli immigranti provenienti dall’Africa occidentale attraversa lo stato del Mali per arrivare in Algeria e poi per giungere in Sardegna; in questa via da Agadez la rotta migratoria si biforca in due direzioni: verso nord-est all’oasi di Sebha (attraverso l’oasi di Dirkou) e verso nord-ovest a Tammanrasset nel sud dell’Algeria. Nella Libia meridionale dall’oasi di Sebha i migranti riprendono la loro strada verso Tripoli e altre città costiere, per poi imbarcarsi in piccole barche direte verso Lampedusa, e anche Sardegna. La terza rotta è percorsa dai migranti originari del Corno d’Africa (eritrei, etiopi somali e sudanesi) che attraversano il Sudan per raggiungere il deserto Libico, passando per le oasi di Kufrah. Il biglietto si acquista nei mercati di Khartoum. Da lì si parte sui fuoristrada pick-up che trasportano una media di trenta persone. Il viaggio per la Libia salvo imprevisti dura un paio di settimane. Arrivati in Libia, vengono venduti dai trafficanti sudanesi ai loro “colleghi” libici.
La Libia ha tradizionalmente gestito la forza lavoro immigrata secondo il modello condiviso dagli altri stati arabi oil-rentier, aprendo all’immigrazione, ma chiudendo ogni forma d’integrazione e di stabilizzazione ai lavoratori stranieri. La politica panafricanista di Gheddafi negli anni ’90 spingeva i lavoratori provenienti dal territorio sub sahariano a venire a lavorare in Libia.
Una volta arrivati in Libia, però le speranze di una vita migliore per i rifugiati e i migranti vengono indebolite. Essi vivono in un clima di paura, perché temono di esser trattenuti indefinitamente in campi e in centri di detenzione sovraffollati, e rimpatriati, dove li aspettano persecuzioni e torture.
I campi sono la forma per confinare chi non appartiene a quell’ordine statuale. Di campi sono disseminati tutti i paesi confinanti con l’area di Shengen: dalla Polonia alla Romania, dalla Bulgaria alla Libia i migranti non assimilabili o non desiderabili sono rinchiusi in spazi senza diritti. I primi campi furono costruiti nelle varie colonie d’oltremare: in Cuba, Sudafrica, Namibia e Libia. E’ proprio nelle colonie che nasce l’idea di un’umanità in eccesso da riterritorializzare.
I centri di detenzione per i migranti irregolari in Libia sono costruiti per trattenere gli stranieri che entrano illegalmente nel territorio libico, e per quelli che sono espulsi dall’Europa. Alcuni centri sono costruiti con finanziamento dell’Italia e altri con finanziamento dell’Unione Europea. I centri di detenzione più noti: El-Fellah, Misuratah, Zeliten, Kufrah, Sebha questi ultimi 3 centri invece sono stati finanziati dall’Italia.
Vediamo come sono costruiti ed organizzati alcuni di questi centri di detenzione. Il centro detenzione di El-Fellah è collocato nel cuore di Tripoli. Un carcere blindato, sorvegliato da uomini armati, Intorno a un cortile sale una struttura quadrata su due piani e un seminterrato. Su ogni piano 6 camerati senza porte, suddivise ciascuna in 8 celle di 5 metri per 3. Porte di ferro, finestre alte e sbarrate. In questo centro finiscono gli immigrati clandestini sorpresi in territorio libico; anche quelli sbarcati a Lampedusa e rispediti “in Libia”. In questo luogo soldi, preziosi e telefonini vengono confiscati prima dell’arresto dai poliziotti. Qui gli stranieri sono nudi, e sono spogliati tutto quello che avevano con sé. Il centro di detenzione di Kufrah, è si trova in pieno deserto al confine con il Sudan. Questo luogo è uno dei punti più sensibili per lo smistamento dei clandestini. In passato, ha rappresentato uno snodo importante per le carovane di mercanti che arrivavano dal Ciad per raggiungere la costa mediterranea. Attualmente a Kufrah giungono soprattutto i migranti irregolari che partono dai paesi del Corno d’Africa. In questo luogo vengono internati sia migranti alla loro entrata nel paese che quando stanno per essere deportati al di là dei confini di terra con il Sudan e l’Egitto. La struttura Misuratah invece è chiamata “campo”, addirittura “campo profughi”, perché qui finiscono in maggioranza i respinti dall’Italia. Questa struttura è divenuta anche un centro specializzato prevalentemente per rifugiati e richiedenti asilo eritrei ed altri individui di interesse per l’Unhcr. I clandestini vengono trattenuti per oltre 3 anni. A differenza di quanto avviene in altre località meno controllate, al “campo” di Misratha dal 2007 ha accesso la delegazione Unhcr e la sua organizzazione. Zleitan si trova vicino a Tripoli, in questo luogo i trafficanti di esseri umani hanno modificato le rotte della traversata per evitare il controllo congiunto italo-libico. Invece venire direttamente in Italia prima vanno verso le coste greche, e voltano in direzione della Sicilia allungano il tempo e i rischi della navigazione. Il centro di detenzione di Zleitan situato nell’omonimo porto a est di Tripoli, dove vengono portati alcuni dei migranti che non riescono a partire. Infine Zuwara città portuale e noto punto di partenza dei migranti, confine con la Tunisia, è un centro della tratta di essere umani. Il centro detenzione di Zwara è uno dei posti dove vengono portati i migranti dei barconi respinti dall’ Italia a partire dal maggio 2009. Tutti questi non sono centri di detenzione sono veri carceri. Spesso sono vecchi magazzini adibiti alla funzione detentiva e sorvegliati dalla polizia. Per quanto riguarda le situazioni delle donne nei centri di detenzione è terrificante; ragazze stuprate e giovani donne picchiate, umiliate sotto gli occhi dei mariti. Per avere un’idea di quanti siano i bambini e i ragazzi a passare per la detenzione basti pensare che solo nel 2011 sono sbarcati a Lampedusa quasi 4.500 ragazzini non accompagnati. Per loro la fuga e il rischio della morte in mare è sempre meglio dell’incubo di una vita in Libia.
Si può affermare che i flussi migratori tra l’Africa sub sahariana e la Libia hanno contribuito a modificare la geografia del Sahara. Le città nelle quali i migranti fanno tappa come Agadez, Kufrah e Sebha hanno conosciuto lo sviluppo di un’economia di transito che è diventata anche il motore dello sviluppo locale. Sono dunque tre gli aspetti sotto i quali le migrazioni contribuiscono alla trasformazione dello spazio sahariano modellato dallo Stato: quello dell’ambiente abitativo, quello delle attività economiche e quello della costruzione di un’identità urbana. Negli anni ‘90, i flussi migratori africani hanno messo in discussione il riferimento spaziale del Sahara, così come quello etnico e religioso, e la relazione diretta tra emigrazione dal Sahel e immigrazione in Libia. Questa dicotomia si riflette in modo evidente nei paesaggi urbani: sono moltiplicati i villaggi di rifugiati alla periferia delle città del Sahara libico, i villaggi sono travolti dal rapido sviluppo dell’edilizia abitativa informale . I modelli abitativi prevalenti sono tre: il 1° è “ ksar”: antichi villaggi fortificati e abbandonati. Grazie a questi immigrati sub sahariani in villaggi si assiste la ripopolazione dei paesi; il 2° modello è quello che consiste nel vivere sul luogo di lavoro; il 3° i “ghetti” sono oltre che degli alloggi, anche dei luoghi dove ritrovare dei connazionali che potranno facilitare l’inserimento dei nuovi arrivi in Libia.
Per la sua posizione geografica, l’Italia rappresenta uno dei punti d’ingresso in Europa per la migrazione africana. Le partenze si concentrano lungo le coste tra Zuwarah e Tripoli. Si può affermare che l’Italia è un ponte “fisico” fra Europa e Africa piazzato nel mezzo del Mediterraneo. Questo mare viene attraversato su imbarcazioni di fortuna: vecchi pescherecci, gommoni stracariche. Il viaggio dalla Libia a Lampedusa che, potrebbe durare poco più di un giorno e può prolungarsi per diverse settimane.
Le tre principali fasi del traffico di migranti per mare: la raccolta dei migranti; il carico e viaggio per mare; lo sbarco ed eventuale proseguimento del viaggio. Sebbene esistano viaggi auto organizzati dagli stessi migranti, la maggior parte delle partenze è controllata da alcune organizzazioni, ognuna dei quali si occupa del passaggio d’una frontiera. Ogni nazionalità ha i suoi connection man, che mettono in contatto il candidato all’emigrazione clandestina con il passeur e con la rete di persone che lo ospiterà e lo trasporterà al luogo d’imbarco. Sconti particolari vengono fatti a chi si offre volontario per guidare le imbarcazioni, e spesso affidate a capitani senza nessuna esperienza di mare. Anche per questo aumentano le vittime nel Mar Mediterraneo. Attraversare il mare rappresenta l’unica via per tentare la salvezza. Prendere il mare può vuol dire andare a ingrossare le fila delle quasi 20.000 vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo. Il 2014 si conferma l’anno più mortale di sempre con 4.077 vittime accertate nel mondo di cui 3.072 nel “Mediterraneo “. La maggior parte delle persone decedute (30%) è di origine sub sahariana. Ma il mar Mediterraneo detiene anche un altro primato, perché il 75% di tutti i decessi avvenuti nel globo durante il 2014, sono stati contati qui.
L’Italia, uno tra gli Stati membri dell’Unione Europea che ha passato da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Dalla metà degli anni ’80 alla metà degli ’90 seguì la fase che potremmo dire dell’emergenza. Negli anni ’90 si aprì una fase di approfondimento che, dopo un percorso tormentato, portò all’approvazione di una legge organica sull’immigrazione detta legge Turco-Napoletano (1998). Proprio con questa legge venne proposta anche la creazione dei Cpt (Centri di Permanenza Temporanea per gli stranieri).
Che cosa sono questi centri? Per “centri di detenzione“ sono quelle strutture che stabili o improvvisate nell’emergenza, sono spazi racchiusi all’interno di un confine materiale (mura, filo spinato, sbarre). Ciò che differenzia questi luoghi dalle istituzioni penali è soprattutto il loro aspetto amministrativo. Sono luoghi in cui le persone vengono internate sulla base di ciò che sono, della loro nazionalità del paese da cui provengono, del loro status di migranti, rifugiati, e in generale viaggiatori non autorizzati. I Centri di Permanenza Temporanea (CPT) furono creati per custodire gli stranieri clandestini in attesa di identificazione e di espulsione. Innanzitutto espellere uno straniero non è una faccenda semplice: ci sono questioni di carattere normativo: l’accompagnamento alla frontiera è una misura limitativa della libertà personale. Vi sono poi difficoltà economiche: rimpatriare i clandestini ha costi non uguale, e poi l’espulsione comporta notevoli difficoltà relative alla riammissione dei migranti nei loro paesi di origine., I Cpt prima di diventare luoghi di detenzione, erano appunto dei centri di accoglienza.
Nel 1998 il governo italiano istituiva i CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza) nei quali lo straniero, per il quale non poteva essere eseguita immediatamente l’espulsione, doveva essere trattenuto il tempo strettamente necessario ai fini dell’espulsione (massimo 20 giorni) più eventuali altri 10 giorni, nella imminenza del rimpatrio. Il primo Centro ad essere istituito è il “Serraino Vulpitta” di Trapani, a cui ne seguono altri in Sicilia, in Puglia e nel resto d’Italia, a Milano, Torino, Trieste. Gli edifici sono dislocati per lo più in zone periferiche, circondati spesso da alti muri e dotati di sbarre, recinti e filo spinati, somigliano alla tradizionale “prigione.
Attualmente il sistema dei centri di accoglienza e detenzione per stranieri è costituito da: CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza); CDA (Centri D’Accoglienza); CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Se analizziamo 1 dei questi centri come sono organizzati e costruiti, il CDA di Lampedusa è un emblematico ha l’aspetto di un vero carcere: filo spinato corre lungo il perimetro del Centro, Polizia ed Esercito ne controllano i confini. I CARA sono strutture istituite nel 2008 con il decreto legge 25/2008 dove viene inviato lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento. I CARA derivano dai CDI (Centri di Identificazione) Gli stranieri accolti in questi Centri si trovano in una condizione “semi-detentiva” in quanto possono lasciare le strutture durante il giorno, ma devono farvi ritorno per la notte. I CARA e i CDA, con dimensioni enormi, si trovano in zone periferiche, isolati dal resto del territorio e circondati da poderose recinzioni, assumendo facilmente la connotazione di “luoghi speciali”. Da un punto di vista strutturale, la funzione di contenimento e sorveglianza appare spesso predominante rispetto a quella dell’accoglienza. I centri che assolvono entrambe le funzioni di CDA e CARA sono: Bari Palese, Area aeroportuale, Brindisi, Loc. Restinco, Caltanissetta, Contrada Pian del Lago ecc.). A Caltanissetta c’e anche il CIE che si trova a Contrada Pian del Lago a circa 6–7 Km dal centro abitato. Il centro polifunzionale CDA/CARA/CIE può accogliere 552 persone in totale, mentre il CIE ha una capienza massima di 96 posti. Le nazionalità più rappresentate sono in genere Tunisia, Marocco, Nigeria ed Algeria. Per quanto riguarda i CIE prima denominati centri di permanenza temporanea (CPT), sono strutture previste dalla legge Bossi-Fini istituite per trattenere gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento. Il funzionamento dei CIE è di competenza del Prefetto, che affida i servizi di gestione della struttura a soggetti privati, responsabili del rapporto con i detenuti e del funzionamento materiale del centro.
Vediamo come sono costruiti e gestiti alcuni Cie in Italia: il centro di espulsione di Torino era in funzione dal 1999. Si trovava nell’area di una vecchia caserma del genio ferroviario, tra Corso Brunelleschi e via Santa Maria Mazzarello. Dal maggio del 2008, i container del vecchio centro erano stati rottamati e sostituiti da 3 sezioni in muratura appositamente progettati per la detenzione. 2 erano per gli uomini e 1 per le donne, ogni sezione consisteva in un area recintata da gabbie metalliche alte 6 metri. Mentre il Cie di Modena è aperto nel novembre del 2002, nasce dopo una vergognosa campagna di raccolta di firme che identifica i “clandestini” dai delinquenti. Inoltre, il Cie di Modena era 1dei centri a 5 stelle. La struttura fu costruita a fianco del carcere, dall’esterno aveva l’aspetto di un albergo su 2 piani. Niente filo spinato, niente mura di cinta. Pero, dal suo funzionamento si è verificato nel tempo numerosi problemi tra i quali l’utilizzo del CIE come contenitore di ex carcerati stranieri insieme a semplici persone irregolari, infiniti casi di autolesionismo fino ad arrivare ai gravissimi episodi dei suicidi.
L’Italia ha un rapporto particolare con la Libia, derivante dal periodo coloniale (gli anni 20 del novecento) in cui migliaia di italiani si trasferirono lì per avviare delle attività soprattutto riguardanti l’agricoltura e le attività imprenditoriali. Dopo la rimozione nell’embargo, l’Italia e la Libia avevano terminato un primo accordo nell’estate del 2000 contro terrorismo, criminalità organizzata, traffico di droga e immigrazione illegale. Il trattato più articolato è quello del 30 agosto 2008 siglato a Bengasi, dall’ex premier Berlusconi e Gheddafi con il c.d. “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” che mette la parola fine al contenzioso sul passato coloniale italiano in Tripolitania e Cirenaica e apre un’epoca di cooperazione in campo economico soprattutto energetico e di lotta all’immigrazione clandestina. Il trattato di amicizia del 2008 prevede 4 punti sulla mutua cooperazione nel contrasto all’immigrazione: il pattugliamento congiunto in acque libiche, l’intercettamento in alto mare, il finanziamento di un sistema di controllo libico, un sistema congiunto di individuazione dei migranti con rader e satellite.
L’intesa bilaterale quella è firmata nel 2007 rappresenta un tentativo di esternalizzare le procedure di detenzione amministrativa e rimpatrio anche alla luce del sovraffollamento del centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa.
L'esternalizzazione dell'asilo è un tipo di politiche migratorie attuate dai paesi dell'Unione europea consistente nella creazione dei centri per l’esame delle domande di asilo sia nei paesi di transito che nei paesi di origine. In tali strutture dovrebbero essere indotti a fermarsi i profughi prima ancora di raggiungere l’UE, ma rinviati anche quelli che erano già entrati in Europa a chiedere asilo. Inoltre l'esternalizzazione della politica europea d'asilo e d'immigrazione può essere suddivisa in due tendenze principali. L'UE avverte l'esigenza, da un lato, di "delocalizzare" al di fuori del suo territorio; e dall'altro, di far ricadere sui paesi terzi, mediante trasferimento delle responsabilità. Si può affermare che la Libia è parte integrante del sistema europeo di esternalizzazione dei controlli di frontiera per impedire gli arrivi dei migranti in UE.
Alla luce di quando detto sin’ora, si può affermare che Lampedusa è diventata peggio di Ellis Island, i trafficanti di uomini del 21° secolo sono più spietati dei negrieri del 1700. La porta più meridionale d’Italia e d’Europa da anni accoglie barconi carichi di disperati. Tutti provengono dalla Libia dopo viaggi della speranza durante i quali vivono in condizioni peggiori dei migranti del 1800 e 1900 che sono partiti per America e persino degli schiavi neri portati via dall’Africa . Di loro si sapeva in quanti sono partiti, ma di immigrati di oggi che vengano via mare dall’Africa si sa poco.
Il lavoro comprende anche delle interviste telefonica che ho fatto ad alcuni migranti sub sahariani, ho registrato le esperienze che avevano avuto durante la traversata del deserto del Sahara e del Mediterraneo: il loro viaggio per arrivare in Italia non è stata facile, infatti il racconto di John di origine nigeriano mi ha toccato:” il mare fa meno paura del deserto. Se hai superato il deserto del Sahara rimanendo vivo, è già grande cose. Prendere il largo a bordo di una qualsiasi imbarcazione è il segnale che stai per farcela perché il peggio è ormai alle spalle, che ti sei lasciato l’inferno libico. Il passaggio in mare non è certo una cosa facile. Un immigrato clandestino è costretto anche a bere acqua salata, l’esposizione continua al sole lo sfianca. Ma per me arrivare a Lampedusa era come arrivare alla terra promessa”.
Bisogna valutare quali prospettive dovrebbero mutare, in ambito europeo, italiano, libico ed africano, per evitare le continue stragi nel Mediterraneo durante le disperate traversate.
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