Thesis etd-06272019-111337 |
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Thesis type
Tesi di laurea magistrale LM6
Author
BASTIANI, MATTEO
URN
etd-06272019-111337
Thesis title
La ri-protesizzazione d’anca: analisi retrospettiva sul tasso di re-intervento dopo la sostituzione di una sola componente.
Department
RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Course of study
MEDICINA E CHIRURGIA
Supervisors
relatore Prof. Capanna, Rodolfo
Keywords
- anca
- componente
- hip
- prosthetis
- protesi
- revision
- revisione
Graduation session start date
16/07/2019
Availability
Withheld
Release date
16/07/2089
Summary
Rivedendo a lungo termine le revisioni di protesi d’anca, lo scopo del nostro studio multicentrico è stato quello di valutare l’utilità della revisione di una singola componente e la validità dei criteri utilizzati per definire la stabilità dell’impianto.
Da un punto di vista gestionale l’imprevedibilità di questo tipo di intervento obbliga il chirurgo a dover disporre di professionalità specializzate nonché di un’ampia gamma di presidi e strumentari in sala operatoria, spesso accessibili solo nei centri ospedalieri ad alta specializzazione.
In relazione ai costi, la durata media dei ricoveri nelle revisioni risulta essere superiore a quella del primo impianto con una ricaduta sul bilancio economico ospedaliero: ad esempio, in Italia è stato stimato che il costo di revisione di protesi d’anca infetta è 4,8 volte superiore a quello di un primo impianto.
L’indicazione all’intervento chirurgico di revisione risulta spesso indaginosa, specialmente quando, malgrado un quadro clinico caratterizzato da dolore e limitata funzionalità articolare, non risulti evidente un quadro radiografico di mobilizzazione caratterizzato da assenza dei criteri suddetti, ovvero modificazioni temporali all’imaging, presenza di doppio contorno e di riassorbimento osseo periprotesico.
Qualora sia posta l’indicazione alla sostituzione di una delle componenti, risulta complesso stabilire se l’altra componente necessiti anch’essa di revisione.
Infatti, la revisione della singola componente acetabolare, incrementa le difficoltà chirurgiche: la rimozione dello stelo non modulare femorale può, ad esempio, offrire una maggiore esposizione dell’acetabolo sul campo operatorio con conseguente facilitazione dell’intervento. Questo porta tuttavia ad un aumento delle complicanze intraoperatorie (in primis fratture periprotesiche), dei tempi chirurgici, della perdita di sangue e dei costi specialmente quando lo stelo non risulti mobilizzato.
Se da un lato la presenza di uno stelo femorale ben integrato garantisce un adeguato mantenimento della lunghezza dell’arto inferiore, di una buona stabilità e dell’antiversione del collo femorale, dall’altro la conservazione dello stelo, specialmente in quelli non modulari, limita notevolmente la capacità di adattare l’impianto e obbliga il chirurgo a utilizzare solo componenti protesiche compatibili al fine di assicurare una buona stabilità ed eumetria.
Dal punto di vista biomeccanico, in caso di sostituzione protesica la trasmissione dei carichi dalla protesi all’osso varia nettamente rispetto a quella fisiologica ed è determinata dalla geometria della protesi, dalle caratteristiche meccaniche dei materiali utilizzati e dai vincoli introdotti. La durata pertanto degli impianti è strettamente dipendente dalla loro interazione. Per ottimizzare la capacità di resistenza meccanica dell’impianto è necessario innanzitutto assicurarne una stabilità primaria. L’integrazione totale sarà però condizionata dal successivo rimaneggiamento osseo dato dalla stabilità secondaria.
Un’alterata distribuzione delle tensioni con l’insorgenza di micromovimenti relativi può innescare il processo di distacco dell’interfaccia protesi-osso. In questo gioca un ruolo determinante l’attivazione di fenomeni reattivi innescati dalla presenza di microparticelle di cemento o detriti di usura: i macrofagi richiamati, infatti, dopo aver fagocitato i detriti rilasciano mediatori chimici in grado di attivare gli osteoclasti.
Dall’analisi dei dati raccolti possiamo intanto evincere che l’85% dei pazienti sottoposti ad una singola revisione protesica mostra il fallimento della componente acetabolare (che si associa a dolore, ridotta funzionalità e instabilità della protesi) anziché di quella femorale. Questo è giustificabile dato il maggior utilizzo di componenti cementate per l’acetabolo rispetto allo stelo femorale. Per quest’ultimo infatti l’ancoraggio può essere meccanico utilizzando filettature specifiche.
L’acquisizione dei dati è stata ottenuta utilizzando un database di raccolta dei percorsi chirurgici di tutti i pazienti trattati presso le strutture analizzate, selezionando quelli che sono stati sottoposti ad interventi di revisione protesica d’anca presso la Ia e IIa Clinica Universitaria Ortopedica Pisana e il reparto di Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale Versilia nel periodo compreso tra Gennaio 2007 e Dicembre 2016 (10 anni).
Rispettando i criteri di inclusione abbiamo considerato la data del primo intervento di revisione e gli eventuali interventi successivi, valutando l’intervello di tempo intercorso tra questi e la tipologia di revisione eseguita. Sono stati sistematicamente esclusi i pazienti sottoposti a sostituzione di entrambe le componenti, le revisioni con sostituzione del solo inserto e coloro sottoposti a revisione per mobilizzazione settica o traumatica.
Nel valutare la stabilità delle componenti protesiche sono stati utilizzati i classici criteri radiografici per escludere la mobilizzazione (assenza di modificazioni temporali, di doppio contorno e di riassorbimento osseo periprotesico) in associazione alla valutazione della stabilità meccanica intraoperatoria.
Nello studio sono stati inclusi un totale di 242 pazienti, selezionati per aver revisionato una sola componente protesica, rispettivamente acetabolare o femorale.
Dei 242 casi presi in esame, 226 pazienti (93%) sono stati sottoposti ad unico intervento di revisione di cui 193 pazienti con revisione della sola componente acetabolare, 33 pazienti della sola componente femorale.
I restanti 16 pazienti che hanno effettuato almeno due interventi di revisione protesica, di cui 10 per fallimento consecutivo della stessa componente protesica. Solo il 2,5% (6 pazienti) è stato sottoposto a ri-revisione della componente inizialmente non sostituita. Questo giustifica ampiamente sia l’utilità della revisione di una singola componente in assenza di segni di mobilizzazione dell’altra, sia la validità dei criteri utilizzati per valutare la stabilità della componente non sostituita.
Infine, il tipo di componente primariamente revisionata, acetabolare o femorale, non ha influito sul rischio di ri-revisione dell’altra componente. Infatti nella metà dei casi è stata inizialmente revisionata solo la componente acetabolare e secondariamente quella femorale, nell’altra metà dei casi viceversa.
La revisione di una singola componente protesica appare dunque come una tecnica chirurgica valida in assenza di segni di mobilizzazione dell’altra componente, esclusa mediante l’applicazione di criteri correntemente applicati dimostratisi validi. Malgrado la ri-revisione rappresenti un possibile rischio, le percentuali appaiono comunque esigue, specialmente se confrontate con l’elevato tasso di complicanze legate alla sostituzione di una componente non mobilizzata.
Da un punto di vista gestionale l’imprevedibilità di questo tipo di intervento obbliga il chirurgo a dover disporre di professionalità specializzate nonché di un’ampia gamma di presidi e strumentari in sala operatoria, spesso accessibili solo nei centri ospedalieri ad alta specializzazione.
In relazione ai costi, la durata media dei ricoveri nelle revisioni risulta essere superiore a quella del primo impianto con una ricaduta sul bilancio economico ospedaliero: ad esempio, in Italia è stato stimato che il costo di revisione di protesi d’anca infetta è 4,8 volte superiore a quello di un primo impianto.
L’indicazione all’intervento chirurgico di revisione risulta spesso indaginosa, specialmente quando, malgrado un quadro clinico caratterizzato da dolore e limitata funzionalità articolare, non risulti evidente un quadro radiografico di mobilizzazione caratterizzato da assenza dei criteri suddetti, ovvero modificazioni temporali all’imaging, presenza di doppio contorno e di riassorbimento osseo periprotesico.
Qualora sia posta l’indicazione alla sostituzione di una delle componenti, risulta complesso stabilire se l’altra componente necessiti anch’essa di revisione.
Infatti, la revisione della singola componente acetabolare, incrementa le difficoltà chirurgiche: la rimozione dello stelo non modulare femorale può, ad esempio, offrire una maggiore esposizione dell’acetabolo sul campo operatorio con conseguente facilitazione dell’intervento. Questo porta tuttavia ad un aumento delle complicanze intraoperatorie (in primis fratture periprotesiche), dei tempi chirurgici, della perdita di sangue e dei costi specialmente quando lo stelo non risulti mobilizzato.
Se da un lato la presenza di uno stelo femorale ben integrato garantisce un adeguato mantenimento della lunghezza dell’arto inferiore, di una buona stabilità e dell’antiversione del collo femorale, dall’altro la conservazione dello stelo, specialmente in quelli non modulari, limita notevolmente la capacità di adattare l’impianto e obbliga il chirurgo a utilizzare solo componenti protesiche compatibili al fine di assicurare una buona stabilità ed eumetria.
Dal punto di vista biomeccanico, in caso di sostituzione protesica la trasmissione dei carichi dalla protesi all’osso varia nettamente rispetto a quella fisiologica ed è determinata dalla geometria della protesi, dalle caratteristiche meccaniche dei materiali utilizzati e dai vincoli introdotti. La durata pertanto degli impianti è strettamente dipendente dalla loro interazione. Per ottimizzare la capacità di resistenza meccanica dell’impianto è necessario innanzitutto assicurarne una stabilità primaria. L’integrazione totale sarà però condizionata dal successivo rimaneggiamento osseo dato dalla stabilità secondaria.
Un’alterata distribuzione delle tensioni con l’insorgenza di micromovimenti relativi può innescare il processo di distacco dell’interfaccia protesi-osso. In questo gioca un ruolo determinante l’attivazione di fenomeni reattivi innescati dalla presenza di microparticelle di cemento o detriti di usura: i macrofagi richiamati, infatti, dopo aver fagocitato i detriti rilasciano mediatori chimici in grado di attivare gli osteoclasti.
Dall’analisi dei dati raccolti possiamo intanto evincere che l’85% dei pazienti sottoposti ad una singola revisione protesica mostra il fallimento della componente acetabolare (che si associa a dolore, ridotta funzionalità e instabilità della protesi) anziché di quella femorale. Questo è giustificabile dato il maggior utilizzo di componenti cementate per l’acetabolo rispetto allo stelo femorale. Per quest’ultimo infatti l’ancoraggio può essere meccanico utilizzando filettature specifiche.
L’acquisizione dei dati è stata ottenuta utilizzando un database di raccolta dei percorsi chirurgici di tutti i pazienti trattati presso le strutture analizzate, selezionando quelli che sono stati sottoposti ad interventi di revisione protesica d’anca presso la Ia e IIa Clinica Universitaria Ortopedica Pisana e il reparto di Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale Versilia nel periodo compreso tra Gennaio 2007 e Dicembre 2016 (10 anni).
Rispettando i criteri di inclusione abbiamo considerato la data del primo intervento di revisione e gli eventuali interventi successivi, valutando l’intervello di tempo intercorso tra questi e la tipologia di revisione eseguita. Sono stati sistematicamente esclusi i pazienti sottoposti a sostituzione di entrambe le componenti, le revisioni con sostituzione del solo inserto e coloro sottoposti a revisione per mobilizzazione settica o traumatica.
Nel valutare la stabilità delle componenti protesiche sono stati utilizzati i classici criteri radiografici per escludere la mobilizzazione (assenza di modificazioni temporali, di doppio contorno e di riassorbimento osseo periprotesico) in associazione alla valutazione della stabilità meccanica intraoperatoria.
Nello studio sono stati inclusi un totale di 242 pazienti, selezionati per aver revisionato una sola componente protesica, rispettivamente acetabolare o femorale.
Dei 242 casi presi in esame, 226 pazienti (93%) sono stati sottoposti ad unico intervento di revisione di cui 193 pazienti con revisione della sola componente acetabolare, 33 pazienti della sola componente femorale.
I restanti 16 pazienti che hanno effettuato almeno due interventi di revisione protesica, di cui 10 per fallimento consecutivo della stessa componente protesica. Solo il 2,5% (6 pazienti) è stato sottoposto a ri-revisione della componente inizialmente non sostituita. Questo giustifica ampiamente sia l’utilità della revisione di una singola componente in assenza di segni di mobilizzazione dell’altra, sia la validità dei criteri utilizzati per valutare la stabilità della componente non sostituita.
Infine, il tipo di componente primariamente revisionata, acetabolare o femorale, non ha influito sul rischio di ri-revisione dell’altra componente. Infatti nella metà dei casi è stata inizialmente revisionata solo la componente acetabolare e secondariamente quella femorale, nell’altra metà dei casi viceversa.
La revisione di una singola componente protesica appare dunque come una tecnica chirurgica valida in assenza di segni di mobilizzazione dell’altra componente, esclusa mediante l’applicazione di criteri correntemente applicati dimostratisi validi. Malgrado la ri-revisione rappresenti un possibile rischio, le percentuali appaiono comunque esigue, specialmente se confrontate con l’elevato tasso di complicanze legate alla sostituzione di una componente non mobilizzata.
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