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Thesis etd-04122021-152206


Thesis type
Tesi di laurea magistrale
Author
BERTOLI, ANDREA
URN
etd-04122021-152206
Thesis title
Il contro esodo nelle aree marginali. Tentativi di rinascita in Val di Vara in Provincia di Spezia.
Department
SCIENZE POLITICHE
Course of study
SOCIOLOGIA E MANAGEMENT DEI SERVIZI SOCIALI
Supervisors
relatore Prof.ssa Paone, Sonia
Keywords
  • Coevolutionary
  • Coevolutivo
  • Depopulation
  • Deterritorialization
  • Deterritorializzazione
  • Esodo
  • Landscape
  • Marginalità
  • Marginality
  • Paesaggio
  • SnaiExodus
  • Spopolamento
  • Territorialization
  • Territorializzazione
Graduation session start date
10/05/2021
Availability
None
Summary
Ancora prima della Grande Guerra la mano d’opera agricola ha iniziato a scivolare gradualmente a fondovalle, lungo i pendii dov’era aggrappata, ma questo primo movimento ha visto una brusca accelerazione nel periodo della ricostruzione post-bellica a metà del secolo scorso in cui si è registrata una massiccia immissione nel mercato del lavoro della produzione industriale. Il periodo tra la fine del 1800 e gli inizi della crisi economica del secolo scorso ha segnato gli anni dello spostamento di masse di contadini verso le città, così come di meridionali verso il Settentrione. Nel nostro Paese abbiamo assistito ad un vero e proprio esodo biblico, in cui milioni di abitanti hanno cercato nella città un’opportunità di riscatto sociale ed economico. La Regione Liguria, compressa tra il mare e gli Appennini, non ha fatto eccezione, il suo territorio è caratterizzato da molte valli e montagne, aree interne e marginali che hanno ospitato l’insediamento di molti paesi che nel tempo si sono spopolati dando vita ad un esodo rurale massiccio verso le grandi città.
L’attenzione politica-amministrativa dello Stato si è immediatamente spostata ai luoghi in cui si concentrava una moltitudine di gente con la realizzazione di abitazioni popolari: la casa ha rappresentato uno degli assi prioritari dell’azione del Governo con investimenti pubblici e piani economici sia per la ricostruzione del Paese sia per soddisfare una domanda crescente di occupazione lavorativa. I nuovi quartieri nati per accogliere gli operai sono diventati appendici di un’urbanizzazione confusa e pervasiva.
Tanto la politica, quanto le persone, hanno lasciato sullo sfondo i tanti piccoli Comuni da cui la gente partiva per ricercare quella che si riteneva poter essere una migliore qualità di vita, l’incessante procedere di una società moderna ha fatto emergere pratiche discorsive in cui le narrazioni hanno evidenziato lo squilibrio delle condizioni di vita e le rappresentazioni hanno assunto una natura performativa che ha generato modi diversi di immaginare i fenomeni e i problemi, aprendo così la strada a rappresentazioni che si sono insinuate nelle rugosità di territori sempre più difficili da accettare e abitare nel quotidiano. Le possibilità di chi abitava in montagna dovevano fare i conti con le rappresentazioni di una esperienza urbana i cui discorsi facevano riferimento ad un’immaginario vincente ed accattivante in cui molti erano i vantaggi e le risorse narrate per una reale promozione sociale. I simboli incarnati dalla città diventavano elementi territoriali quali strade, monumenti, servizi, palazzi governativi rappresentativi d’istituzioni, quartieri alberati, tutti beni comuni che nella scala urbana si traducevano in elementi culturali egemoni e stereotipati: lavoro, consumi, accesso alla modernità, routine proposte dall’élites urbane sempre più desiderate. Il branding urbano ha intessuto immagini seducenti per attrarre su di sé i flussi globali di mercato, di turismo, di consumo. Le creazioni dei quartieri dormitori, alle porte delle città, sono diventate parte di elementi costitutivi dei distretti industriali e risultavano appetibili per chi viveva fino a poco tempo prima di agricoltura e coltivazione con una economia di sussistenza in abitazioni prive di qualsiasi comfort: scarsità di acqua potabile, corrente elettrica, fornitura di gas, poca possibilità di assistenza sanitaria, assenza delle maggiori istituzioni scolastiche di ordine superiore, mobilità ridotta.
La narrazione selettiva di queste immagini è diventata parte di una geografia urbana che per certi versi ha promosso sentimenti di desiderio e gradimento di mobilità da parte delle persone e per altri ha allontanato il ricordo delle loro origini rurali, relegando quei luoghi in un immaginario che ne ha quasi negato l’esistenza al punto da dimenticarli: una ultra-periferia talmente lontana da diventare fragile, marginale e morente e a sua volta aggredibile. Da una parte la tendenza all’agglomerazione delle attività produttive legate alla grande industria ha prodotto forme standardizzate dell’ambiente costruito giustificando l’aggressione vorace dei fondovalle e approfittando dello spopolamento delle aree rurali interne con una sub-urbanizzazione e urbanizzazione degli spazi agricoli residui, dall’altra si è modificato il rapporto tra città e campagna: tanto più la città ha assunto su di sé un’immagine di benessere, di sicurezza sociale e di emancipazione tanto più si è gerarchizzata ed è diventata luogo di conflitti sociali e rischi ambientali.
La crisi profonda segnata dal post-fordismo ha modificato definitivamente i simboli e i luoghi dell’industrializzazione lasciando dietro di sé un’immagine di crisi e declino strutturale, in cui anche il paesaggio si è risvegliato con profonde ferite. I luoghi che sono stati barbaramente invasi dall’industria e trasformati in città-fabbrica sono diventati il simbolo di una cultura di massa effimera in cui la produzione ha trasformato definitivamente il paesaggio in una serie di cattedrali nel deserto, capannoni abbandonati e luoghi non più recuperati mentre le aree interne, già lasciate ai pochi superstiti rimasti tempo prima, hanno presentato il conto della trascuratezza a cui sono state lasciate per decenni.
L’avvento dei processi di globalizzazione ha imposto un nuovo modello di sviluppo urbano, conferendo alle città un ruolo di connettori sempre più gerarchizzati su scala mondiale, al cui vertice si ritrovano le città globali. La ristrutturazione produttiva ha nuovamente interessato la componente sociale del lavoro, della forza lavoro e del salario, passando dalla grande fabbrica in cui le persone erano tra loro aggregate ad uno sfarinamento delle attività lavorative caratterizzate dall’espansione del lavoro autonomo e precario, dalla disoccupazione strutturale e povertà. L’aumento della consapevolezza di assenza di servizi e di mancata redistribuzione del reddito prodotto dallo smembramento della grande fabbrica si è riverberato anche sul territorio. Il cittadino si è così trovato sottoposto a due processi contrapposti: l’uno relativo alla parcellizzazione delle attività che ha avuto il merito di far recuperare il contatto con lo spazio e il territorio, costituendo luoghi, contesti, comunità e ricomposizione sociale, narrazioni che erano scomparse nella città-fabbrica e nei distretti lavorativi, l’altro riguardante la globalizzazione che aumentando l’espansione di processi di finanziarizzazione dell’economia, informatizzazione e centralizzazione telematica del comando sul lavoro e sui cicli produttivi ha portato la società da “società delle macchine” a “società digitale” immergendo l’uomo in un vuoto pneumatico, in una desertificazione delle relazioni e in una crescente insicurezza e crisi urbana, in cui prevaleva la povertà e lo sfarinamento sociale. Questi due processi hanno portato a nuovi pensieri rigenerativi in cui ripararsi e difendersi dal domino dei flussi globali, sperimentando un nuovo insediamento umano e ambientale in cui rievocare il ritorno ad una origine che potesse essere un ritorno ripartivo. In questo senso allora viene riscoperto il territorio, il paesaggio rurale, con la sua fragilità e resilienza mostrando le potenzialità di ricrescita. L’ambiente organizzato attraversa due processi: il primo della distruzione segnato dal processo di “de-territorializzazione” in cui si rompe definitivamente il rapporto coevolutivo tra l’uomo e la terra e i nessi che li collegavano in quanto non vi era più un vivere la ruralità e nemmeno l’urbanizzazione diffusa del sistema città-fabbrica in cui quantomeno riconoscere una subordinazione funzionale del territorio al sistema produttivo fordista, il processo di inverso di “ri-territorializzazione” in cui la società riscopre un territorio come patrimonio comune di beni materiali e immateriali, di servizi che devono essere riportati vicino alle persone e ripensate le forme di autonomie e governo.
Il Paese ha sperimentato nuove forme di governement, vicino alla montagna, in una dimensione rurale fondate sempre sul primato del settore pubblico-statale con la dimensione dell’Ente locale della Comunità Montane che ha posto al centro il carattere di “montanità” per una classificazione giuridica dei territori svantaggiati legati all’economia agricola e meritevoli dell’intervento pubblico, alternando poi forme di governance in cui emergono modalità decentrate di governo con la realizzazione di politiche in cui calare progetti di rinnovamento rurale tramite l’adozione di strategie orientate alla negoziazione del processo decisionale e combattere la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne. La Strategia nazionale abbandona il carattere montano e prende atto di una forte disuguaglianza all’accesso ai servizi dovuto al distanziamento spaziale e tenta di mettere a valore una nuova forma di coscienza per la costruzione di una comunità socio-produttiva, sostenibile e connessa in reti solidali.
Nei fatti il rapporto tra le città e le montagne non si è mai estinto, ma si è trasformato in un susseguirsi di processi di de-territorializzazione e ri-territorializzazione. Le più importanti città metropolitane distano appena 15 km dalle montagne, la Liguria è solo un esempio e la Val di Vara costituisce un caso paradigmatico di un territorio connotato da una forte dimensione verticale dei suoi spazi di vita che li differenzia non solo da quelli delle pianure e delle città, ma anche da altri territori rugosi di altre regioni d’Italia. Nonostante l’esodo rurale abbia segnato gravemente i territori, le persone non hanno mai completamente abbandonato le aree interne, forme di resilienze sono sopravvissute anche se non hanno consentito di mantenere l’ingente e diffuso patrimonio paesaggistico, storio-edilizio e culturale. Le aree interne presentano un vasto repertorio di beni territoriali: boschi, terreni coltivabili, Saperi contestuali preziosi per la tutela ambientale e paesaggistica e per la prevenzione dei rischi idrogeologici. L’esodo rurale ha fatto sì che questi territori marginali venissero percepiti, sia da chi vive in città, sia dai nuovi residenti “pionieri”, come un vuoto da riempire idoneo a chi intenda abbracciare valori ambientali e paesaggistici e voglia viverli anche in forme definitive di insediamento residenziale e produttivo basato sulla coscienza di luogo.
La presente Tesi intende quindi ripercorrere la creazione di questi “vuoti” in Val di Vara a partire dallo spopolamento per comprendere il carattere di bene comune nella dimensione del Paesaggio trasformato, rielaborato, aggredito e protetto, ma che ha saputo mantenere e diventare attrattore di forme esperienziali con varie architetture di governo del territorio e politiche interne. Il Parco Naturale Regionale Montemarcello-Magra, quasi coincidente con la Val di Vara, ha evidenziato laboratori concreti e offerto strumenti con cui guardare all’ambiente naturale e socio-culturale montano. Il presente elaborato tenta di porsi l’obiettivo di ricercare timide forme di contro-esodi da parte di pionieri per comprendere se si stia assistendo ad un principio di ritorno alla ruralità, nella consapevolezza che il fenomeno sarà sempre limitato, ma caratterizzato da un cambiamento culturale scaturito dal deterioramento delle condizioni di lavoro, dell’abbassamento della qualità di vita, dal sfilacciamento dei legami con l’identità locale e da una urbanizzazione globale che non rappresenta per molti un ambiente favorevole. Il contro-esodo segna la ricerca da parte di una società di un nuovo rapporto con il mondo, attualmente inscritto in un clima di disastro ambientale, di crisi degli ecosistemi a seguito di un modello di crescita e di sviluppo evidentemente poco gestibile che atomizza le persone in relazioni molecolari. Obiettivo della presente Tesi è pertanto quello di comprendere se esista una traccia di un contro-esodo e vagliarne le ragioni, alla luce degli elementi esposti verificare se vi siano soggetti assuntori di nuovi comportamenti responsabili, tra cui quello di tornare a vivere stabilmente in montagna, assumere una presa di coscienza di luogo all’interno di un rapporto dialettico tra l’ambiente e le persone in una relazione coevolutiva che punti verso un urbano di qualità, di ripopolamento dei luoghi periferici e marginali per la creazione di un nuova civilizzazione rurale. Ciò implica la comparsa di nuovi cittadini consapevoli e capaci di voler ritornare al territorio per un ritorno alla terra, all’urbanità, alla montagna e a rinnovati sistemi socioeconomici locali in cui poter rifondare un abitare “dal basso”, a misura d’uomo, dove recuperare un sapere, ricostruire relazioni e alleanze con l’ambiente e individuare forme di gestione dei beni comuni.


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