Tesi etd-12132010-111539 |
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Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
VELLA, SERAFINA
URN
etd-12132010-111539
Titolo
Tra matrircato e differenze di genere. Percorsi dell'uguaglianza femminile nel pernsiero moderno e contemporaneo.
Settore scientifico disciplinare
IUS/20
Corso di studi
GIUSTIZIA COSTITUZIONALE E DIRITTI FONDAMENTALI
Relatori
tutor Prof. Ripepe, Eugenio
Parole chiave
- contrattualismo
- differenza
- diritto
- femminismo
- genere
- uguaglianza
Data inizio appello
17/12/2010
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
17/12/2050
Riassunto
Introduzione
Il motivo ispiratore fondamentale del percorso di ricerca proposto è l’idea per cui la lettura “femminile” del pensiero di Hobbes, ossia un’analisi attenta alle conseguenze che la sua costruzione teorica genera sulla soggettività delle donne e sull’assetto dei rapporti tra i generi nella famiglia e nella società, ci consente di far luce su alcuni aspetti generalmente trascurati o non rilevati dalla sia pur vastissima letteratura hobbesiana tradizionale.
La riflessione proposta sui temi della famiglia, sulle relazioni asimmetriche di potere tra donne e uomini nella genesi del potere politico e sulla diversa soggettività che ne scaturisce nella fondazione della società civile, è svolta quindi attraverso un’integrazione dell’analisi “tradizionale” del pensiero hobbesiano con il contributo degli studi femminili (e, in questo ambito della critica femminista). Di fatto, l’obiettivo del lavoro non è l’elaborazione di una storia del pensiero alternativa a quella “tradizionale”, quanto piuttosto il tentativo di arricchirla con un punto di vista attento anche alla prospettiva del “pensiero femminile”, che trova un ancoraggio teorico saldo in una fondamentale premessa teorica del filosofo quale il principio dell’uguaglianza naturale
Il movente primario degli studi femminili, infatti, è il tentativo di rispondere ad un interrogativo fondamentale, ossia, come la diversità delle donne può divenire una parte integrante del pensiero filosofico politico e come le donne possono diventare “attori” di un regno sociale considerato ancora di prevalente dominio maschile, assumendo una soggettività piena e reale, in una società ispirata ai principi di uguaglianza che però non comporti una assimilazione alla maggioranza o al canone della cultura dominante,
La prima parte del lavoro di ricerca, recupera le matrici originarie della tematica dell’uguaglianza in quella teoria contrattualista che è all’origine dello Stato e del pensiero politico liberali moderni e che proprio dell’uguaglianza e della tolleranza, come rispetto delle individualità e delle loro differenze, ha fatto le sue tematiche portanti. L’indagine, quindi, si è rivolta ad Hobbes, ed in particolare alla sua teoria politica come all’atto di nascita della tradizione politica contrattualista e alla relativa concezione di Stato, pensato non come entità natural-teologica, quanto piuttosto come prodotto della libera volontà di individui per natura uguali tra loro in diritto e forza. Se un tale recupero deve essere efficace, però, questa tradizione deve essere interrogata con un orecchio particolare, un orecchio di “genere”, in grado di percepire echi diversi, capace cioè di cogliere al di là delle formulazioni universali il significato fattuale e concreto della teoria, una volta che la si declini secondo un genere o secondo l’altro. In altri e più espliciti termini, si tratta di chiedersi cosa accada esattamente nello Stato quando i cittadini soggetti al potere assoluto del Sovrano, vengano identificati nel genere. Se cioè il sistema politico pensato da Hobbes sia veramente universalistico – ossia veramente valido per tutti – o se invece, sin dall’origine della politica moderna, l’universalismo nasconda un’implicita, e quasi scontata, esclusione di genere che faccia del potere un tema e un oggetto di gestione strettamente maschile. Ci si chiede, insomma, che tipo di soggettività caratterizzi i due generi di fronte agli occhi del Leviatano e se esso, piuttosto che un’entità onnipotente ma neutra, non mostri piuttosto di essere alquanto “gender bended” sin dalla nascita.
La disamina della posizione teorica di Hobbes avviene sullo sfondo della Storia della famiglia di Bachofen che fornisce, più una cornice di riferimento tematico, piuttosto che non una vera e propria impostazione storica di lettura. Si assume, infatti, la posizione più volte riconfermata dagli studi femminili secondo cui la ricostruzione di Bachofen dell’esclusione delle donne dal potere in una fase preistorica, mediante il passaggio dal matriarcato al patriarcato, appare come un riflesso mitico (e quindi non a caso collocato fuori dalla storia propriamente detta) della cultura corrente che non spiega nulla , mentre lascia aperto il problema della posizione di potere della donna nell’età moderna e contemporanea; problema che appunto deve essere indagato sullo sfondo della nascita teorica della società politica moderna. E, tuttavia, è ben chiaro che l’analisi di Bachofen, se pure non aderente al reale sviluppo storico della vicenda dei rapporti di potere tra i generi, evidenzia l'utilità di un’indagine non solo storica, ma anche genealogica di tali rapporti, che ci porta di necessità sul terreno complesso e per certi aspetti sfuggente del pensiero greco come stadio originario della cultura occidentale e quindi, anche, radice di quella modernità che costituisce l’oggetto specifico della nostra indagine. Ed è proprio in confronto con tale pensiero che la teoria hobbesiana mostra la sua vera natura, così come anche la sua originalità e novità.
Nella visione politica greca, che considera la donna come minaccia all’ordine razionale della Polis si contrappongono come estremi teorici l’uguaglianza utopica dei sessi tra i guardiani de La Repubblica di Platone, e la “scientifica” diseguaglianza biologica sostenuta da Aristotele (nella generazione, il maschio impone la forma determinante ad un’amorfa materia femminile). La discussione sul potere femminile nella cultura greca trova il suo limite teorico nel caso limite delle Amazzoni illustrato da Erodoto. Ma le amazzoni sono un matriarcato puro e in tal senso sono il rovescio della Polis patriarcale, una riconferma a segno invertito che la società deve essere retta da un sesso solo, il più forte, quale che sia. Il matriarcato dove si dà, e se mai si è dato, è una categoria storica che non mette in tensione la solidità politica del patriarcato che regge la Polis greca, al contrario della “ginocrazia”, di cui Lisistrata è la rappresentazione teatrale, che appare invece come una categoria politica, e che nella sua richiesta di compartecipazione, e quindi di dualizzazione del potere, appare come il rischio permanente e sempre in agguato di una degenerazione della società politica, decisamente da scongiurare.
Insomma è l’idea stessa di una matrice ugualitaria del potere che appare come una “degenerazione” dell’ordine della natura, come un’ibridazione improponibile di due logiche incommensurabili che non può che recare disordine e sventura alla società che vi si disponesse. In questo senso si vede la somiglianza funzionale delle due soluzioni apparentemente opposte tra la teoria platonica e quella aristotelica: la prima rende possibile l’uguaglianza solo a prezzo dell’omologazione comportamentale in una società senza famiglia, la seconda organizza la disuguaglianza con una netta divisione dei ruoli all’interno dell’istituzione familiare. In nessuno dei due casi l’uguaglianza riesce a sposarsi con la differenza, in una gestione paritaria del potere sociale.
Questa tradizione procede indisturbata fino a tutto il XVI secolo e oltre, trovando espressioni eminenti nel «patriarcalismo» di Bodin e di Filmer. Quest’ultimo, in particolare, identificando il potere sovrano con quello paterno fornisce una giustificazione teologico-naturalistica del potere sovrano dei re: il re nello stato, come il padre nella famiglia, esercita quel diritto sovrano che Adamo esercitava su tutte le creature per averlo ricevuto da Dio. Come Adamo era padre e re per volontà divina, così i suoi eredi ricevevano e si tramandavano tale autorità.
In contrapposizione al naturalismo teologico del patriarcalismo si coglie la profonda novità della ricerca e dell’elaborazione di un modello di fondazione razionale del potere. Il modello contrattualista assume, ribaltandone il significato, le parole chiave della tradizione politica classica: natura e ragione. La natura è ancora il fondamento dello Stato, ma si tratta di una Natura non regolata dalle leggi divine, ma dalla meccanica inerziale delle passioni in cui la misura del diritto è data dalla forza, e a partire dalla quale si fonda lo Stato, certo, ma per antitesi, come creazione di una condizione di vita che ha il suo pregio migliore e la sua qualità più rassicurante nell’essere non-naturale o anti-naturale. In questo stato di natura non ci sono disuguaglianze predefinite tra i sessi, visto che l’unica discriminante significativa tra gli individui è la quantità di forza con cui sono in grado di affermare i diritti delle loro passioni e dei loro desideri. Tale uguaglianza «naturale» trapassa, di diritto, attraverso il doppio meccanismo del patto unionis et subjectionis nello statuto della società civile e politica.
Nell’opposizione del modello hobbesiano a quello patriarcalista si legge in filigrana l’innovativo abbandono del paradigma biologico aristotelico, sostituito da quello meccanicista in cui l’autorità paterna non dipende più dalla generazione, ma dalla capacità di sostentamento dei genitori in favore della prole. La posizione hobbesiana apre, quindi, ad una fattuale parità dei genitori ambosessi che godono della potestà naturale sui figli solo in funzione della capacità di sostentarli, e non per la loro propria natura di genere. La patria potestà abitualmente concessa ai padri è quindi non per natura, ma per convenzione negli stati in cui sono gli uomini a fare le leggi. L’analisi a questo punto non può non soffermarsi su un’apparente sfasatura della teoria hobbesiana che concede per convenzione una disuguaglianza che non ammette de jure, ossia che non ha fondamento né naturale né logico, e su tale contraddizione molta critica al femminile si è soffermata stigmatizzandone la contraddittorietà. Tuttavia, sembra chiaro che una lettura radicale delle premesse teoriche hobbesiane lasci aperte le porte alla considerazione che l’affermarsi di una convenzione, oltre a indicare un’indebita precedenza del fatto sulla teoria, può anche tradurre un rapporto di forze fattuale che, affermatosi nello stato di natura, trova conferma e legittimazione convenzionale nello stato di diritto, e rispetto al quale il Leviatano non ha motivo di intervenire nella misura in cui non compromette la vita dei suoi sudditi. Mentre sembra, invece, notevole rimarcare come la natura convenzionale di tale consolidata potestà paterna lasci comunque sempre aperta, almeno sul piano logico, la possibilità della sua dissoluzione.
In tal senso forse, non senza sottigliezza, bisogna leggere il ritorno di Locke al fondamento naturale di matrice aristotelica della potestà paterna, che lascia però intatto il carattere convenzionale e consensuale del potere politico. Per Locke, che si rivela qui assai più conservatore di Hobbes, la mera possibilità logica di una dissoluzione della patria potestà una volta che si siano create le condizioni per impugnarne la validità convenzionale, sembra un rischio eccessivo di sbilanciamento dell’ordine naturale delle cose e dell’ordine sociale che su di esso si poggia.
Unificare il fondamento dell’autorità politica e di quella paterna, sia alla maniera tradizionale di Filmer sia in quella logico-meccanica di Hobbes, sembra a Locke un errore non privo di pericolose conseguenze in entrambi i casi. Piuttosto, sembra più utile distinguere la sfera privata della famiglia da quella pubblica del potere politico, dando vita a quella separazione tra pubblico e privato che caratterizzerà tutto lo sviluppo della società borghese moderna. Separazione con la quale Locke sancisce la natura ambigua della famiglia, poi stigmatizzata da Adorno, come istituzione privata negli affetti, ma pubblica come veicolo della razionalità sociale di cui si fa tramite nel processo educativo: il potere parentale infatti non è più né per natura né per convenzione, ma si giustifica derivativamente sulla base di un mandato che la società civile assegna ai genitori per la socializzazione della prole.
Il modello aristotelico, strumentalmente recuperato, viene così definitivamente ribaltato: non è la famiglia che fonda la società, ma è la società che garantisce l’autorità della famiglia in quanto suo agente nel processo educativo, ossia di adattamento dei nuovi membri della società alle sue regole.
Dal punto di vista della posizione della donna, la prospettiva di Locke, mentre finisce per ribadire l’esclusione di diritto delle donne, per natura deficitarie in forza e capacità intellettive, dai processi decisionali, apre loro alcune possibilità pratiche di non piccolo momento. Se la famiglia non è equiparabile ad una monarchia, e il marito non è un sovrano, la donna acquisisce quantomeno il diritto, impossibile per il membro della società politica, di sciogliersi dall’associazione familiare quando le condizioni di vita al suo interno si rivelino intollerabili, ossia si legittima quantomeno il diritto della donna a chiedere il divorzio a tutela della sua vita e dignità.
Appare comunque chiaro che la teoria politica giusnaturalista, pur creando degli appigli ad una rivendicazione di uguaglianza da parte delle donne, risulta insufficiente a garantirla, soprattutto là dove quello che si cerca è il mantenimento della differenza nell’uguaglianza. In tal senso, la nostra analisi si è voluta allargare a considerare sviluppi più recenti della filosofia (che è giuridica ma anche politica) in grado di mostrare come sempre, a partire da una fondazione razionale del potere, si possa muovere in direzione di una diversa ridistribuzione del potere che consideri le donne come soggetti paritari e equivalenti, pur nell’affermazione di una differenza che non vuole in alcun modo essere rinnegata ma, anzi, che è presentata come un contributo insostituibile alla dinamica sociale.
In tal senso, è sembrato che quello che veniva a costituirsi da parte del soggetto femminile era un’istanza insuperabile di «riconoscimento» della propria soggettività come modalità «altra», ma convergente, di gestione del potere sociale. Anche in questo caso la tematica del riconoscimento, passando dal piano puramente teorico a quello della prassi ha rivelato il problema ormai consueto della difficoltà di comporre il conflitto di atteggiamenti e modalità operative che si verifica ogni volta che si tratta di gestire la diversità, composizione alla quale non basta il semplice ricorso o richiamo alla nozione di tolleranza. In questa prospettiva, la teoria politica classica viene ad un tempo integrata e messa in tensione mediante la teoria del riconoscimento di Honneth che ne può essere considerata al tempo stesso un epigono e un superamento.
La seconda parte del lavoro di ricerca propone una riflessione sull’effettiva natura e sul significato che il tema dell’uguaglianza tra i sessi deve avere e su come esso possa intersecarsi con le questioni sempre più scottanti del differenza e del riconoscimento. Ciò, nel presupposto che la nozione di uguaglianza che si è sviluppata nel pensiero occidentale è il frutto di un lungo processo di sedimentazione concettuale che ha utilizzato tradizioni diverse e spesso in conflitto tra loro (La Torre, Zanetti); e nel presupposto che il nostro tempo è caratterizzato dalla proliferazione di domande di riconoscimento spesso confliggenti tra loro (Belvisi).
In particolare la riflessione filosofica giuridica femminile sui temi del rapporto concettuale tra uguaglianza e differenza, a partire dall’uguaglianza non realizzata – eredità della tradizione contrattualista – ci permette di individuare almeno tre percorsi dell’uguaglianza femminile: un primo femminismo che si muove nell’ambito dell’universalismo del pensiero liberale rivendicando per le donne l’estensione dei diritti riconosciuti solo agli uomini; un secondo femminismo che propone una severa critica all’universalismo perché modellato sul paradigma maschile posto a fondamento dello Stato moderno; un terzo femminismo che pone l’attenzione sulla necessità di intersecare le differenze di genere con le altre differenze tra donne, quelle di cultura, di orientamento sessuale, di religione etc…per evitare di ricreare un ulteriore paradigma assimilazionista.
L’analisi proposta si sviluppa, a questo punto, sul terreno del dibattito teorico femminile in tema di giustizia ed uguaglianza il cui importante contributo può essere apprezzato soprattutto in quegli orientamenti che, superando l’idea di una necessaria antitesi tra “difesa dell’uguaglianza” e “valorizzazione della differenza”, propongono una modalità di costruzione del rapporto tra i due termini in una prospettiva costruens, sulla base di un criterio di formulazione del giudizio di uguaglianza che la intende come uguaglianza sostanziale, ossia come principio della dignità e della solidarietà.
L’uguaglianza cui si fa riferimento non richiede il superamento ma la valorizzazione delle differenze perché va intesa come universalità nella titolarità dei diritti fondamentali e rispetto del valore intrinseco delle persone e delle identità di ciascuno. Superando l’ideale assimiliazionista che sulla base di una considerazione valutativa della differenza - ovvero differenza intesa come esclusione - assume a paradigma tratti ritenuti propri solo di alcuni membri della comunità giuridica, essa comporta, invece, l’attribuzione a tutti gli individui degli stessi diritti fondamentali e l’acquisizione di pari opportunità di elaborare e perseguire il proprio progetto di vita.
A questo punto della ricerca, il percorso di analisi si sviluppa lungo due direttrici di riferimento.
La prima sviluppa il tema della giustizia distributiva nel contesto della critica femminile alla teoria rawlsiana, e alla concezione di giustizia che essa esprime al fine di poter giustificare una redistribuzione socio-economica. La seconda direttrice sviluppa uno spazio di riflessione dedicato alla disamina di quelle teorie che offrono un’analisi critica del diritto muovendo da un’ottica di genere.
Seguendo un filo conduttore comune a tutto il percorso di ricerca, anche in questa fase dell’analisi si mette in evidenza come, aldilà delle posizioni più radicali nel panorama femminista che hanno negato qualsiasi utilità del discorso giuridico quale spazio di affermazione dell’identità femminile, sono gli approcci epistemologici più complessi elaborati dalla nuova scienza giuridica femminile a fornire gli spunti di riflessione più interessanti. Tali approcci riconoscono un ruolo positivo dello Stato sociale e del diritto come strumento di trasformazione, supporto e promozione di interessi di gruppi deboli.
Il punto di convergenza tra le due direttrici trova sintesi, nella parte finale del lavoro di ricerca, nella riflessione proposta sulla cittadinanza.
La “riforma” del discorso giuridico nella direzione di un diritto che assuma come riferimento anche l’universo femminile, contestualmente alla costruzione di una relazione uguaglianza/differenza funzionale ad una valorizzazione delle differenze che non superi ma rafforzi il significato dell’eguaglianza, sembrano potersi individuare come elementi indispensabili per un effettivo esercizio della cittadinanza da parte delle donne. Cittadinanza intesa come partecipazione ovvero, per dirla con Gianformaggio, l’agire politico della donna come agente/soggetto/attore che si presenta sulla scena pubblica per esprimere direttamente i propri fini ed i propri valori, per contrattare in condizione di parità con gli altri soggetti, la protezione dei propri interessi e l’attuazione dei propri valori, senza doverne delegare ad altri la rappresentanza.
Tale partecipazione comporta l’ingresso della donna nello spazio pubblico, lo spazio dove i diversi sono uguali, e l’assunzione di una visibilità che presuppone la fine della soggezione e delle diseguaglianze in quello spazio domestico-privato che le ha viste storicamente confinate.
In questa direzione è sembrato che la comparsa del soggetto “femminile” sulla scena pubblica necessiti, intanto, di una ristrutturazione della sfera familiare attraverso una più equa redistribuzione del lavoro di cura tra i due generi, valutando inoltre, dal punto di vista della rappresentanza politica, la possibilità di costruire strumenti giuridici funzionali al superamento del gap di genere nell’accesso alle cariche pubbliche.
Ciò che può essere assunto come orizzonte di riferimento del nostro lavoro è l’idea che considera l’idea di uguaglianza irrinunciabile nella rivendicazione di giustizia sociale da parte delle donne.
A tal proposito non sembra superfluo sottolineare come, nella convinzione dell’importanza di indagare i temi del presente con un riferimento costante alle fonti del passato che consentono di comprenderne a fondo il significato, proprio il principio hobbesiano di uguaglianza naturale ha creato quella profonda rottura con il patriarcalismo che ha aperto, sia pur con i limiti prima evidenziati e senza alcun intento hobbesiano di sostegno teorico alla causa femminile, gli spazi per una riflessione sulla condizione delle donne come persone libere ed eguali nella società civile nata in contrapposizione allo stato di natura.
L’analisi femminile delle discrepanze del contratto sociale di Hobbes in merito alla condizione delle donne ha consentito di interrogarsi sulle ragioni che rendono le donne, libere ed eguali nello stato di natura, costrette in una condizione di subordinazione nella società, e sulle strade da percorrere per l’affermazione di una effettiva giustizia sociale.
Ed in questa riflessione, la centralità del tema dell’uguaglianza è ampiamente evidenziata nel lavoro di ricerca, nel presupposto di una alternativa non utile e non necessaria in nome della tutela e della valorizzazione della differenza.
Il motivo ispiratore fondamentale del percorso di ricerca proposto è l’idea per cui la lettura “femminile” del pensiero di Hobbes, ossia un’analisi attenta alle conseguenze che la sua costruzione teorica genera sulla soggettività delle donne e sull’assetto dei rapporti tra i generi nella famiglia e nella società, ci consente di far luce su alcuni aspetti generalmente trascurati o non rilevati dalla sia pur vastissima letteratura hobbesiana tradizionale.
La riflessione proposta sui temi della famiglia, sulle relazioni asimmetriche di potere tra donne e uomini nella genesi del potere politico e sulla diversa soggettività che ne scaturisce nella fondazione della società civile, è svolta quindi attraverso un’integrazione dell’analisi “tradizionale” del pensiero hobbesiano con il contributo degli studi femminili (e, in questo ambito della critica femminista). Di fatto, l’obiettivo del lavoro non è l’elaborazione di una storia del pensiero alternativa a quella “tradizionale”, quanto piuttosto il tentativo di arricchirla con un punto di vista attento anche alla prospettiva del “pensiero femminile”, che trova un ancoraggio teorico saldo in una fondamentale premessa teorica del filosofo quale il principio dell’uguaglianza naturale
Il movente primario degli studi femminili, infatti, è il tentativo di rispondere ad un interrogativo fondamentale, ossia, come la diversità delle donne può divenire una parte integrante del pensiero filosofico politico e come le donne possono diventare “attori” di un regno sociale considerato ancora di prevalente dominio maschile, assumendo una soggettività piena e reale, in una società ispirata ai principi di uguaglianza che però non comporti una assimilazione alla maggioranza o al canone della cultura dominante,
La prima parte del lavoro di ricerca, recupera le matrici originarie della tematica dell’uguaglianza in quella teoria contrattualista che è all’origine dello Stato e del pensiero politico liberali moderni e che proprio dell’uguaglianza e della tolleranza, come rispetto delle individualità e delle loro differenze, ha fatto le sue tematiche portanti. L’indagine, quindi, si è rivolta ad Hobbes, ed in particolare alla sua teoria politica come all’atto di nascita della tradizione politica contrattualista e alla relativa concezione di Stato, pensato non come entità natural-teologica, quanto piuttosto come prodotto della libera volontà di individui per natura uguali tra loro in diritto e forza. Se un tale recupero deve essere efficace, però, questa tradizione deve essere interrogata con un orecchio particolare, un orecchio di “genere”, in grado di percepire echi diversi, capace cioè di cogliere al di là delle formulazioni universali il significato fattuale e concreto della teoria, una volta che la si declini secondo un genere o secondo l’altro. In altri e più espliciti termini, si tratta di chiedersi cosa accada esattamente nello Stato quando i cittadini soggetti al potere assoluto del Sovrano, vengano identificati nel genere. Se cioè il sistema politico pensato da Hobbes sia veramente universalistico – ossia veramente valido per tutti – o se invece, sin dall’origine della politica moderna, l’universalismo nasconda un’implicita, e quasi scontata, esclusione di genere che faccia del potere un tema e un oggetto di gestione strettamente maschile. Ci si chiede, insomma, che tipo di soggettività caratterizzi i due generi di fronte agli occhi del Leviatano e se esso, piuttosto che un’entità onnipotente ma neutra, non mostri piuttosto di essere alquanto “gender bended” sin dalla nascita.
La disamina della posizione teorica di Hobbes avviene sullo sfondo della Storia della famiglia di Bachofen che fornisce, più una cornice di riferimento tematico, piuttosto che non una vera e propria impostazione storica di lettura. Si assume, infatti, la posizione più volte riconfermata dagli studi femminili secondo cui la ricostruzione di Bachofen dell’esclusione delle donne dal potere in una fase preistorica, mediante il passaggio dal matriarcato al patriarcato, appare come un riflesso mitico (e quindi non a caso collocato fuori dalla storia propriamente detta) della cultura corrente che non spiega nulla , mentre lascia aperto il problema della posizione di potere della donna nell’età moderna e contemporanea; problema che appunto deve essere indagato sullo sfondo della nascita teorica della società politica moderna. E, tuttavia, è ben chiaro che l’analisi di Bachofen, se pure non aderente al reale sviluppo storico della vicenda dei rapporti di potere tra i generi, evidenzia l'utilità di un’indagine non solo storica, ma anche genealogica di tali rapporti, che ci porta di necessità sul terreno complesso e per certi aspetti sfuggente del pensiero greco come stadio originario della cultura occidentale e quindi, anche, radice di quella modernità che costituisce l’oggetto specifico della nostra indagine. Ed è proprio in confronto con tale pensiero che la teoria hobbesiana mostra la sua vera natura, così come anche la sua originalità e novità.
Nella visione politica greca, che considera la donna come minaccia all’ordine razionale della Polis si contrappongono come estremi teorici l’uguaglianza utopica dei sessi tra i guardiani de La Repubblica di Platone, e la “scientifica” diseguaglianza biologica sostenuta da Aristotele (nella generazione, il maschio impone la forma determinante ad un’amorfa materia femminile). La discussione sul potere femminile nella cultura greca trova il suo limite teorico nel caso limite delle Amazzoni illustrato da Erodoto. Ma le amazzoni sono un matriarcato puro e in tal senso sono il rovescio della Polis patriarcale, una riconferma a segno invertito che la società deve essere retta da un sesso solo, il più forte, quale che sia. Il matriarcato dove si dà, e se mai si è dato, è una categoria storica che non mette in tensione la solidità politica del patriarcato che regge la Polis greca, al contrario della “ginocrazia”, di cui Lisistrata è la rappresentazione teatrale, che appare invece come una categoria politica, e che nella sua richiesta di compartecipazione, e quindi di dualizzazione del potere, appare come il rischio permanente e sempre in agguato di una degenerazione della società politica, decisamente da scongiurare.
Insomma è l’idea stessa di una matrice ugualitaria del potere che appare come una “degenerazione” dell’ordine della natura, come un’ibridazione improponibile di due logiche incommensurabili che non può che recare disordine e sventura alla società che vi si disponesse. In questo senso si vede la somiglianza funzionale delle due soluzioni apparentemente opposte tra la teoria platonica e quella aristotelica: la prima rende possibile l’uguaglianza solo a prezzo dell’omologazione comportamentale in una società senza famiglia, la seconda organizza la disuguaglianza con una netta divisione dei ruoli all’interno dell’istituzione familiare. In nessuno dei due casi l’uguaglianza riesce a sposarsi con la differenza, in una gestione paritaria del potere sociale.
Questa tradizione procede indisturbata fino a tutto il XVI secolo e oltre, trovando espressioni eminenti nel «patriarcalismo» di Bodin e di Filmer. Quest’ultimo, in particolare, identificando il potere sovrano con quello paterno fornisce una giustificazione teologico-naturalistica del potere sovrano dei re: il re nello stato, come il padre nella famiglia, esercita quel diritto sovrano che Adamo esercitava su tutte le creature per averlo ricevuto da Dio. Come Adamo era padre e re per volontà divina, così i suoi eredi ricevevano e si tramandavano tale autorità.
In contrapposizione al naturalismo teologico del patriarcalismo si coglie la profonda novità della ricerca e dell’elaborazione di un modello di fondazione razionale del potere. Il modello contrattualista assume, ribaltandone il significato, le parole chiave della tradizione politica classica: natura e ragione. La natura è ancora il fondamento dello Stato, ma si tratta di una Natura non regolata dalle leggi divine, ma dalla meccanica inerziale delle passioni in cui la misura del diritto è data dalla forza, e a partire dalla quale si fonda lo Stato, certo, ma per antitesi, come creazione di una condizione di vita che ha il suo pregio migliore e la sua qualità più rassicurante nell’essere non-naturale o anti-naturale. In questo stato di natura non ci sono disuguaglianze predefinite tra i sessi, visto che l’unica discriminante significativa tra gli individui è la quantità di forza con cui sono in grado di affermare i diritti delle loro passioni e dei loro desideri. Tale uguaglianza «naturale» trapassa, di diritto, attraverso il doppio meccanismo del patto unionis et subjectionis nello statuto della società civile e politica.
Nell’opposizione del modello hobbesiano a quello patriarcalista si legge in filigrana l’innovativo abbandono del paradigma biologico aristotelico, sostituito da quello meccanicista in cui l’autorità paterna non dipende più dalla generazione, ma dalla capacità di sostentamento dei genitori in favore della prole. La posizione hobbesiana apre, quindi, ad una fattuale parità dei genitori ambosessi che godono della potestà naturale sui figli solo in funzione della capacità di sostentarli, e non per la loro propria natura di genere. La patria potestà abitualmente concessa ai padri è quindi non per natura, ma per convenzione negli stati in cui sono gli uomini a fare le leggi. L’analisi a questo punto non può non soffermarsi su un’apparente sfasatura della teoria hobbesiana che concede per convenzione una disuguaglianza che non ammette de jure, ossia che non ha fondamento né naturale né logico, e su tale contraddizione molta critica al femminile si è soffermata stigmatizzandone la contraddittorietà. Tuttavia, sembra chiaro che una lettura radicale delle premesse teoriche hobbesiane lasci aperte le porte alla considerazione che l’affermarsi di una convenzione, oltre a indicare un’indebita precedenza del fatto sulla teoria, può anche tradurre un rapporto di forze fattuale che, affermatosi nello stato di natura, trova conferma e legittimazione convenzionale nello stato di diritto, e rispetto al quale il Leviatano non ha motivo di intervenire nella misura in cui non compromette la vita dei suoi sudditi. Mentre sembra, invece, notevole rimarcare come la natura convenzionale di tale consolidata potestà paterna lasci comunque sempre aperta, almeno sul piano logico, la possibilità della sua dissoluzione.
In tal senso forse, non senza sottigliezza, bisogna leggere il ritorno di Locke al fondamento naturale di matrice aristotelica della potestà paterna, che lascia però intatto il carattere convenzionale e consensuale del potere politico. Per Locke, che si rivela qui assai più conservatore di Hobbes, la mera possibilità logica di una dissoluzione della patria potestà una volta che si siano create le condizioni per impugnarne la validità convenzionale, sembra un rischio eccessivo di sbilanciamento dell’ordine naturale delle cose e dell’ordine sociale che su di esso si poggia.
Unificare il fondamento dell’autorità politica e di quella paterna, sia alla maniera tradizionale di Filmer sia in quella logico-meccanica di Hobbes, sembra a Locke un errore non privo di pericolose conseguenze in entrambi i casi. Piuttosto, sembra più utile distinguere la sfera privata della famiglia da quella pubblica del potere politico, dando vita a quella separazione tra pubblico e privato che caratterizzerà tutto lo sviluppo della società borghese moderna. Separazione con la quale Locke sancisce la natura ambigua della famiglia, poi stigmatizzata da Adorno, come istituzione privata negli affetti, ma pubblica come veicolo della razionalità sociale di cui si fa tramite nel processo educativo: il potere parentale infatti non è più né per natura né per convenzione, ma si giustifica derivativamente sulla base di un mandato che la società civile assegna ai genitori per la socializzazione della prole.
Il modello aristotelico, strumentalmente recuperato, viene così definitivamente ribaltato: non è la famiglia che fonda la società, ma è la società che garantisce l’autorità della famiglia in quanto suo agente nel processo educativo, ossia di adattamento dei nuovi membri della società alle sue regole.
Dal punto di vista della posizione della donna, la prospettiva di Locke, mentre finisce per ribadire l’esclusione di diritto delle donne, per natura deficitarie in forza e capacità intellettive, dai processi decisionali, apre loro alcune possibilità pratiche di non piccolo momento. Se la famiglia non è equiparabile ad una monarchia, e il marito non è un sovrano, la donna acquisisce quantomeno il diritto, impossibile per il membro della società politica, di sciogliersi dall’associazione familiare quando le condizioni di vita al suo interno si rivelino intollerabili, ossia si legittima quantomeno il diritto della donna a chiedere il divorzio a tutela della sua vita e dignità.
Appare comunque chiaro che la teoria politica giusnaturalista, pur creando degli appigli ad una rivendicazione di uguaglianza da parte delle donne, risulta insufficiente a garantirla, soprattutto là dove quello che si cerca è il mantenimento della differenza nell’uguaglianza. In tal senso, la nostra analisi si è voluta allargare a considerare sviluppi più recenti della filosofia (che è giuridica ma anche politica) in grado di mostrare come sempre, a partire da una fondazione razionale del potere, si possa muovere in direzione di una diversa ridistribuzione del potere che consideri le donne come soggetti paritari e equivalenti, pur nell’affermazione di una differenza che non vuole in alcun modo essere rinnegata ma, anzi, che è presentata come un contributo insostituibile alla dinamica sociale.
In tal senso, è sembrato che quello che veniva a costituirsi da parte del soggetto femminile era un’istanza insuperabile di «riconoscimento» della propria soggettività come modalità «altra», ma convergente, di gestione del potere sociale. Anche in questo caso la tematica del riconoscimento, passando dal piano puramente teorico a quello della prassi ha rivelato il problema ormai consueto della difficoltà di comporre il conflitto di atteggiamenti e modalità operative che si verifica ogni volta che si tratta di gestire la diversità, composizione alla quale non basta il semplice ricorso o richiamo alla nozione di tolleranza. In questa prospettiva, la teoria politica classica viene ad un tempo integrata e messa in tensione mediante la teoria del riconoscimento di Honneth che ne può essere considerata al tempo stesso un epigono e un superamento.
La seconda parte del lavoro di ricerca propone una riflessione sull’effettiva natura e sul significato che il tema dell’uguaglianza tra i sessi deve avere e su come esso possa intersecarsi con le questioni sempre più scottanti del differenza e del riconoscimento. Ciò, nel presupposto che la nozione di uguaglianza che si è sviluppata nel pensiero occidentale è il frutto di un lungo processo di sedimentazione concettuale che ha utilizzato tradizioni diverse e spesso in conflitto tra loro (La Torre, Zanetti); e nel presupposto che il nostro tempo è caratterizzato dalla proliferazione di domande di riconoscimento spesso confliggenti tra loro (Belvisi).
In particolare la riflessione filosofica giuridica femminile sui temi del rapporto concettuale tra uguaglianza e differenza, a partire dall’uguaglianza non realizzata – eredità della tradizione contrattualista – ci permette di individuare almeno tre percorsi dell’uguaglianza femminile: un primo femminismo che si muove nell’ambito dell’universalismo del pensiero liberale rivendicando per le donne l’estensione dei diritti riconosciuti solo agli uomini; un secondo femminismo che propone una severa critica all’universalismo perché modellato sul paradigma maschile posto a fondamento dello Stato moderno; un terzo femminismo che pone l’attenzione sulla necessità di intersecare le differenze di genere con le altre differenze tra donne, quelle di cultura, di orientamento sessuale, di religione etc…per evitare di ricreare un ulteriore paradigma assimilazionista.
L’analisi proposta si sviluppa, a questo punto, sul terreno del dibattito teorico femminile in tema di giustizia ed uguaglianza il cui importante contributo può essere apprezzato soprattutto in quegli orientamenti che, superando l’idea di una necessaria antitesi tra “difesa dell’uguaglianza” e “valorizzazione della differenza”, propongono una modalità di costruzione del rapporto tra i due termini in una prospettiva costruens, sulla base di un criterio di formulazione del giudizio di uguaglianza che la intende come uguaglianza sostanziale, ossia come principio della dignità e della solidarietà.
L’uguaglianza cui si fa riferimento non richiede il superamento ma la valorizzazione delle differenze perché va intesa come universalità nella titolarità dei diritti fondamentali e rispetto del valore intrinseco delle persone e delle identità di ciascuno. Superando l’ideale assimiliazionista che sulla base di una considerazione valutativa della differenza - ovvero differenza intesa come esclusione - assume a paradigma tratti ritenuti propri solo di alcuni membri della comunità giuridica, essa comporta, invece, l’attribuzione a tutti gli individui degli stessi diritti fondamentali e l’acquisizione di pari opportunità di elaborare e perseguire il proprio progetto di vita.
A questo punto della ricerca, il percorso di analisi si sviluppa lungo due direttrici di riferimento.
La prima sviluppa il tema della giustizia distributiva nel contesto della critica femminile alla teoria rawlsiana, e alla concezione di giustizia che essa esprime al fine di poter giustificare una redistribuzione socio-economica. La seconda direttrice sviluppa uno spazio di riflessione dedicato alla disamina di quelle teorie che offrono un’analisi critica del diritto muovendo da un’ottica di genere.
Seguendo un filo conduttore comune a tutto il percorso di ricerca, anche in questa fase dell’analisi si mette in evidenza come, aldilà delle posizioni più radicali nel panorama femminista che hanno negato qualsiasi utilità del discorso giuridico quale spazio di affermazione dell’identità femminile, sono gli approcci epistemologici più complessi elaborati dalla nuova scienza giuridica femminile a fornire gli spunti di riflessione più interessanti. Tali approcci riconoscono un ruolo positivo dello Stato sociale e del diritto come strumento di trasformazione, supporto e promozione di interessi di gruppi deboli.
Il punto di convergenza tra le due direttrici trova sintesi, nella parte finale del lavoro di ricerca, nella riflessione proposta sulla cittadinanza.
La “riforma” del discorso giuridico nella direzione di un diritto che assuma come riferimento anche l’universo femminile, contestualmente alla costruzione di una relazione uguaglianza/differenza funzionale ad una valorizzazione delle differenze che non superi ma rafforzi il significato dell’eguaglianza, sembrano potersi individuare come elementi indispensabili per un effettivo esercizio della cittadinanza da parte delle donne. Cittadinanza intesa come partecipazione ovvero, per dirla con Gianformaggio, l’agire politico della donna come agente/soggetto/attore che si presenta sulla scena pubblica per esprimere direttamente i propri fini ed i propri valori, per contrattare in condizione di parità con gli altri soggetti, la protezione dei propri interessi e l’attuazione dei propri valori, senza doverne delegare ad altri la rappresentanza.
Tale partecipazione comporta l’ingresso della donna nello spazio pubblico, lo spazio dove i diversi sono uguali, e l’assunzione di una visibilità che presuppone la fine della soggezione e delle diseguaglianze in quello spazio domestico-privato che le ha viste storicamente confinate.
In questa direzione è sembrato che la comparsa del soggetto “femminile” sulla scena pubblica necessiti, intanto, di una ristrutturazione della sfera familiare attraverso una più equa redistribuzione del lavoro di cura tra i due generi, valutando inoltre, dal punto di vista della rappresentanza politica, la possibilità di costruire strumenti giuridici funzionali al superamento del gap di genere nell’accesso alle cariche pubbliche.
Ciò che può essere assunto come orizzonte di riferimento del nostro lavoro è l’idea che considera l’idea di uguaglianza irrinunciabile nella rivendicazione di giustizia sociale da parte delle donne.
A tal proposito non sembra superfluo sottolineare come, nella convinzione dell’importanza di indagare i temi del presente con un riferimento costante alle fonti del passato che consentono di comprenderne a fondo il significato, proprio il principio hobbesiano di uguaglianza naturale ha creato quella profonda rottura con il patriarcalismo che ha aperto, sia pur con i limiti prima evidenziati e senza alcun intento hobbesiano di sostegno teorico alla causa femminile, gli spazi per una riflessione sulla condizione delle donne come persone libere ed eguali nella società civile nata in contrapposizione allo stato di natura.
L’analisi femminile delle discrepanze del contratto sociale di Hobbes in merito alla condizione delle donne ha consentito di interrogarsi sulle ragioni che rendono le donne, libere ed eguali nello stato di natura, costrette in una condizione di subordinazione nella società, e sulle strade da percorrere per l’affermazione di una effettiva giustizia sociale.
Ed in questa riflessione, la centralità del tema dell’uguaglianza è ampiamente evidenziata nel lavoro di ricerca, nel presupposto di una alternativa non utile e non necessaria in nome della tutela e della valorizzazione della differenza.
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