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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-11172009-035248


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
MORELLI, ULISSE MASSIMILIANO
Indirizzo email
ullianov@libero.it
URN
etd-11172009-035248
Titolo
Lotta politica e per il potere nei principati di Domiziano e Nerva. Crisi dinastiche, complotti, strategie occulte: le oscure radici del "saeculum aureum"
Settore scientifico disciplinare
L-ANT/03
Corso di studi
STORIA
Relatori
tutor Prof. Foraboschi, Daniele
Parole chiave
  • lotta politica
  • impero
  • crisi dinastiche
  • congiure
Data inizio appello
18/12/2009
Consultabilità
Completa
Riassunto
Il pesante condizionamento imposto allo studio della storia degli ultimi 20 anni del I secolo dal “revisionismo” d’età traianea ha per molto tempo reso assai difficoltoso comprendere gli equilibri e le dinamiche politiche che caratterizzarono il regno di Domiziano e quello di Nerva. Ancor oggi, molti pregiudizi permangono, e se la figura e l’operato dell’ultimo flavio sono parzialmente stati rivalutati da più di mezzo secolo di storiografia, resiste piuttosto tenacemente la vulgata di una sostanziale discontinuità politica tra il regno del figlio di Vespasiano e il principato di Nerva, spesso ancora interpretato nell’ottica piuttosto ideologica di un progresso verso il raggiungimento del virtuoso equilibrio tra imperatore e Senato, che si realizzerà pienamente sotto l’Optimus Princeps e i suoi successori. Il presente lavoro naturalmente cerca di porsi come ennesimo contributo alla demolizione di un’impostazione ormai clamorosamente sconfessata dai fatti. E’ anzi proprio in ragione della manifesta continuità politica e amministrativa tra le due esperienze che ho voluto allargare il campo d’indagine relativo alla lotta per il potere in età domizianea anche al biennio di Nerva. Se quest’ultimo rappresenta l’occasione di emersione di conflitti e alleanze altrimenti difficilmente individuabili in una fase di cui R. Syme lamentava la pressoché assoluta inintelligibilità, allo stesso tempo tali fenomeni trovano le loro radici proprio in età flavia. Il medesimo processo osmotico si ravvisa nella stretta interrelazione tra gli esordi della dinastia fondata da Vespasiano e l’età neroniana. Dall’analisi di entrambe queste “propaggini” storiche emergono importanti informazioni sulla composizione di gruppi, e sull’estrazione di personaggi che animarono la politica imperiale per circa un trentennio, e che gettarono le basi per l’affermazione della dinastia antonina. A rischio di privilegiare un’ottica teleologica, va sottolineato che i principati di Domiziano e Nerva sono accomunati proprio dal fatto di aver costituito le fasi di incubazione e di emersione del network su cui si sarebbe retto il potere imperiale per più di un secolo. Come abbiamo visto, è probabile che l’evoluzione e l’estensione delle sue ramificazioni e della sua influenza abbiano determinato conseguenze importanti sull’andamento delle vicende politiche di quegli anni, e inciso in maniera spesso decisiva su alcuni passaggi chiave. La crisi dinastica che sembra caratterizzare l’intero corso del principato domizianeo, viene risolta in via definitiva solo con l’adozione di Traiano, a conclusione della reggenza di Nerva. Il personale politico che gestisce il brusco passaggio del settembre 96, è lo stesso che poco più di un anno dopo vedrà nell’adozione del consolare di Italica il coronamento dei propri sforzi. Non è escluso, poi, che dietro ai due rapidi avvicendamenti ai vertici del governo imperiale si possa ravvisare una continuità di strategie, come immaginò, qualche anno fa, R. Syme , attraverso una suggestiva analogia tra l’alacre attività diplomatica degli alleati di Traiano e le trame del prefetto del pretorio Aemilius Laetus, poco meno di un secolo dopo: quest’ultimo, regista della congiura contro Commodo, fu abile a nominare rapidamente un candidato plausibile e popolare, non inviso al Senato, Pertinace (allora Praefectus Urbi), mentre, nello stesso tempo, il suo candidato reale, Settimio Severo, veniva assegnato a un comando chiave, quello della Pannonia; forte del supporto decisivo delle legioni danubiane, il generale africano conquistò poi il potere. E’ forte la tentazione di individuare simili sviluppi per il biennio 96 – 98. Infine, le correnti di opposizione filosofica al dispotismo di Domiziano, che avevano riacquisito vigore negli ultimi anni dell’età flavia, ebbero un ruolo non trascurabile nei conflitti che dilaniarono il Senato nel corso del principato di Nerva, arrivando anche a presentare un proprio candidato alla successione: se il biennio nerviano risulta argomento così articolato e complesso, e apparentemente contraddittorio, ciò si deve in parte anche all’interferenza, nella lotta per l’imperium, di questo “terzo polo”.
Sulla base di queste premesse, è chiaro che l’interpretazione della storia politica del regno di Domiziano non possa fare a meno di quella che ne è, a tutti gli effetti, un’appendice, ma che, per la sua natura di momento storico non soggetto a una forza egemone, e, di conseguenza, non completamente banalizzato da un “pensiero unico”, offre spiragli e “corsie alternative” all’indagine.
Uno degli effetti più sgradevoli, benché necessari, della vulgata antidomizianea trasmessa dalla tradizione ai moderni consiste proprio nella naturale reazione che questa suscitò nei ricercatori che si dedicarono al principato dell’ultimo flavio. In pratica, ancora in tempi recenti, la finalità principale di molte ricerche è stata quella di rivalutare l’operato di Domiziano, confutando, punto per punto, l’opera consapevole di denigrazione postuma messa in atto da intellettuali e storiografi dell’antichità. Ciò ha prodotto indubitabilmente degli effetti positivi, riequilibrando il giudizio storico su Domiziano, e sottolineando la sostanziale continuità di pratiche e di scelte strategiche, in ambito politico e amministrativo, con i sovrani successivi. Contemporaneamente, nel tentativo di render giustizia a una figura storica oggetto di una secolare campagna di diffamazione, tale impostazione ha, in taluni casi, ecceduto in senso opposto, non riuscendo a riconoscere le ragioni di un fatto che resta comunque incontestabile, ovvero la sua caduta, o addirittura trasformando Domiziano stesso in una vittima del conservatorismo senatoriale . Mi sono dunque chiesto quale (o quali) fattore potesse aver contribuito in maniera sensibile alla rovina dell’ultimo flavio; in età moderna non sono mancate le suggestioni in questo senso: dall’ormai esausto e meccanico schema del conflitto tra tirannide liberticida e senato, all’intervento di una componente di matrice giudaica; dalle reazioni delle classi elevate alla rapacitas di Domiziano, all’opposizione ai tentativi di riforma in senso dirigista ed efficientista dell’amministrazione e del governo dell’Impero. Ciascuna di queste proposte manca però di un adeguato supporto documentario, oppure tende a generalizzare un fenomeno di cui restano scarsi indizi, che non autorizzano l’elaborazione di teorie sistematiche . Piuttosto negletto dalla ricerca moderna, perlomeno in relazione all’ultimo flavio, mi è parso invece un aspetto, che abitualmente riveste una certa importanza nella biografia di ogni imperatore, ovvero quello rappresentato dalla questione dinastica e dalle prospettive di successione. Certo, manca a un’indagine di questo genere l’essenziale supporto di un’opera storica dello spessore e dell’intelligenza politica degli Annales, che ha fornito un contributo essenziale alla comprensione delle altrimenti inesplicabili dinamiche di corte del principato giulio – claudio. Eppure, indizi dell’attenzione e delle aspettative che Domiziano e la sua corte nutrivano verso la nascita di un erede maschio, e di una successione in domo, non mancano: non soltanto nelle evidenze numismatiche ed epigrafiche d’inizio regno, ma anche nelle oscillazioni della relazione con la moglie Domitia Longina, e nei riflessi che tali oscillazioni ebbero sull’armonia e sulla stabilità dei rapporti tra il flavio e la classe dirigente. Non è impossibile che sia stato proprio questo elemento ad avvelenare il clima politico sin dagli esordi. Era d’altronde un fatto assolutamente noto che i Flavi fossero votati al principio ereditario: Vespasiano doveva almeno in parte ai suoi due figli l’opzione in suo favore quale candidato alla porpora espressa da Licinius Mucianus e dagli altri componenti delle Partes Flavianae; egli stesso si trovò poi a fronteggiare, se dobbiamo credere alle fonti, un numero considerevole di congiure proprio a causa della risolutezza con la quale perseguiva la successio in domo. Il padre di Domiziano però, cresciuto e formatosi politicamente negli ambienti della corte giulio – claudia, e in particolare (almeno per qualche tempo) all’interno dell’influente circolo di Antonia Minore, ne ereditava la concezione di principato senza possedere gli stessi requisiti di nobiltà. Questa particolare condizione, oltre alle ben note conseguenze sul piano della condotta istituzionale (che si traduceva nel tentativo di legittimazione attraverso il monopolio delle magistrature più importanti), produsse un effetto secondario, al momento forse inevitabile, visto a posteriori, rovinoso. La necessità di ridurre al minimo i rischi di usurpazione, amplificati dalla relativa modestia sociale dei propri antenati, spinse i Flavi a limitare l’estensione e la ramificazione del proprio network familiare , proprio al fine di evitare che un matrimonio legittimasse le aspirazioni di un capax imperii. La dimensione e la gravità dell’errore emerge dal confronto con la politica dinastica di Augusto, il quale però poteva vantare la discendenza da una delle famiglie più nobili della Roma repubblicana: sin dal principio, il fondatore dell’Impero aveva proceduto alla più ampia cooptazione di gentes patrizie (reintegrando anche i discendenti del suo storico rivale, Marco Antonio), avvicinandole il più possibile, attraverso alleanze matrimoniali, alla Domus Augusta, al duplice scopo di garantire la ricomposizione politica, e di alimentare il ricambio generazionale. La stessa attitudine alla ricomposizione del ceto dirigente caratterizzò gli esordi della dinastia flavia, ma ne influenzò solo in minima parte la politica matrimoniale. Le conseguenze di questa impostazione emersero durante il principato di Domiziano. Questi, non solo dovette affrontare le difficoltà legate all’assenza di discendenti maschi, ma, in un certo senso, contribuì ad accentuarle, facendo giustiziare l’intera linea maschile del ramo familiare discendente dallo zio Flavius Sabinus. E’ intuitivo come ciò, a un certo punto del regno, potesse autorizzare legittime aspirazioni da parte di chi, pur non essendo imparentato coi Flavi, vantava nobili origini. Ad aggravare questa situazione, contribuì un secondo fattore di considerevole rilevanza, ovvero l’imponente dote di relazioni “eccellenti” e influenti (nonché di pericolose prossimità con insigni esponenti dell’opposizione stoica), che Domitia Longina ereditò dal padre Domitius Corbulo, e che non mancò di condizionare sistematicamente gli equilibri interni alla corte e interferire nelle strategie di orientamento dinastico dell’imperatore. Abbiamo visto come il matrimonio tra Domiziano e Domitia Longina avesse suggellato un’alleanza politica, che aveva portato all’affermazione delle Partes Flavianae, alla conquista del potere per Vespasiano e i suoi figli, e garantito considerevoli vantaggi in termini d’immagine, di governabilità, e di durata della nuova compagine. Essa però imponeva probabilmente anche seri condizionamenti all’arbitrio dei regnanti: uno di essi poteva essere proprio il rispetto, a tutti i costi, del vincolo nuziale stesso, e del suo fine precipuo, ovvero la nascita di un erede maschio, nel quale confluissero le linee dinastiche di entrambe le famiglie (Flavi e Domitii), insieme alle rispettive clientele.
Proprio il “fallimento” di tali aspettative, almeno in due casi (il primo, con la morte di Flavius Caesar, all’inizio del regno; il secondo, meno documentato, intorno all’anno 90, in seguito a un aborto di Longina), scatenò altrettante crisi; la prima di esse, che vide probabilmente la contrapposizione a corte di un “partito” di Domitia Longina e di un’opzione interna alla casata flavia (che individuava in Iulia la sposa ideale per l’imperatore e che spingeva per l’unificazione della linea dinastica), e che si risolse con la reintegrazione dell’Augusta, suggerisce una duplice riflessione: innanzitutto essa rappresenta un ottimo esempio di come il processo di revisione storica successivo alla morte del tiranno abbia avuto gioco facile a determinare un appiattimento della dialettica politica interna alla corte domizianea a una dimensione frivola e scandalistica, indispensabile per offrire materia prima alla vituperatio, anche, crediamo, grazie alle peculiari caratteristiche della comunicazione in una corte imperiale, per sua natura indiretta, ambigua e inintelligibile ai più, facilmente equivocabile col banale pettegolezzo; tuttavia, va comunque constatato che le dicerie che fornirono l’alimento all’opera di diffamazione dell’ultimo flavio scaturirono dal contesto della corte domizianea, e colà trovano la loro ragion d’essere e le loro motivazioni occulte. Su di essi si costruì poi il processo di revisione storica successivo, ma ciò non toglie nulla al fatto che esistessero già (in forma diversa probabilmente) durante il principato di Domiziano. Non è dunque, a mio giudizio, un esercizio completamente inutile lo sforzo esegetico compiuto su certo genere di fonti: i rumores riportati, in sostanza, testimoniano l’esistenza di un piano occulto, probabile scenario di un conflitto tra forze contrastanti, miranti ciascuna a esercitare pressione sul princeps e a condizionarne le scelte. Questo ci conduce al secondo punto: la vittoria diplomatica conseguita da Domitia Longina con la sua reintegrazione, e i fatti che l’accompagnarono, rivelano il peso e l’influenza degli alleati dell’Augusta; tra essi, emergono T. Aurelius Fulvus e Q. Iulius Cordinus Rutilius Gallicus, luogotenenti del padre di Longina in Oriente, componenti, assieme a Sex. Iulius Frontinus, di quel “gruppo corbuloniano”, che si fece garante dell’alleanza che generò le Partes Flavianae; e L. Iulius Ursus, all’epoca ancora prefetto del pretorio e probabile adfinis della dinastia regnante. Questo sodalizio, formato da uomini di provata esperienza, appartenenti alla generazione precedente a quella di Domiziano, e che quindi non dovevano la loro ascesa sociale al princeps, rappresenterà (con la sola eccezione di Rutilius Gallicus, morto probabilmente nel 91) il nerbo della diplomazia politica che gestirà il duplice avvicendamento ai vertici del governo imperiale tra il 96 e il 97. E’ significativo notare, a questo proposito, che l’imponente network di amicitiae e di relazioni familiari al vertice del quale questi personaggi si trovavano e che, come abbiamo visto, gravitava attorno ad alcune familiae novae emergenti di origine per lo più provinciale (ispano – narbonense, dovremmo dire), ovvero gli Aelii, gli Ulpii, gli Annii, i Calvisii Rusones, e i ricchissimi Curvii fratres, aveva visto rinsaldare i suoi nodi, per il tramite di eclatanti alleanze matrimoniali, ben prima della caduta di Domiziano. Ciò implica che, al momento della seconda fase di crisi dinastica del principato, successiva al 90, questa rete di relazioni doveva già essere attiva, e poteva dunque aver influito sul processo di deterioramento dei rapporti tra il princeps e la classe dirigente. La probabile emarginazione di Domitia Longina infatti, all’indomani del fallimentare esito della maternità cui fa cenno Marziale , alienò definitivamente a Domiziano l’appoggio del cospicuo blocco di potere che spalleggiava l’Augusta; l’isolamento dinastico dell’imperatore è peraltro confermato indirettamente dall’analisi della lista dei consolari che congiurarono contro di lui e che furono quindi giustiziati : dei 14 condannati a morte, di cui 13 consolari, 8 erano sicuramente patrizi. Quindi capaces imperii, secondo l’abituale metro di valutazione degli antichi. Lo erano in misura maggiore dal momento che, all’interno di questo gruppo, almeno 6 personaggi potevano vantare relazioni di parentela o di stretta amicizia con i Flavi (Flavius Sabinus, Arrecinus Clemens, M’. Acilius Glabrio, Aelius Lamia, Flavius Clemens, C. Vettulenus Civica Cerialis), uno, ovvero Salvius Otho, era nipote di un ex imperatore, e l’ultimo, Salvidienus Orfitus, era imparentato con l’imperatrice. E’ ragionevole supporre che la maggior parte di costoro sia stata coinvolta all’interno di piani cospiratori allo scopo di garantire una credibile candidatura alla porpora. Inoltre, fatta eccezione per Arrecinus Clemens e Flavius Sabinus, ed escludendo i due eversori militari, tutte le altre vittime delle rappresaglie domizianee si concentrano dopo il 90/91 d.C. A mio avviso, ancora una volta il comune denominatore della maggior parte di queste calamitates potrebbe farsi risalire al problema della successione. La presenza di tanti capaces imperii non si spiega in altro modo se non alla luce della ridotta disponibilità di plausibili successori all’interno della casata flavia; e un sovrano senza successori era esposto a un costante rischio di cospirazioni. Alla luce di questi elementi è assai agevole comprendere la chiosa di Svetonio alla notizia della esecuzione dell’ultimo adfinis, e potenziale erede, di Domiziano, ovvero Flavius Clemens, giustiziato nel 95 dopo aver appena deposto i fasces : quo maxime facto (scil. Domitianus) maturavit sibi exitium. A questo punto è forte la tentazione di individuare una stretta relazione tra il progressivo estinguersi delle opzioni dinastiche di Domiziano e la ricomparsa sulla ribalta dell’alta politica, all’indomani della morte del despota, e dopo qualche anno di salutare ritiro, di Sex. Iulius Frontinus, Iulius Ursus, Domitius Tullus, T. Aurelius Fulvus. Questi politici navigati, esperti diplomatici, influenti uomini di potere, erano attratti dalla prospettiva di inserire il network di interessi che rappresentavano nel vuoto lasciato dai Flavi. Non è anzi escluso che essi abbiano cercato di accelerare la caduta di Domiziano , o comunque che non abbiano ostacolato la creazione di una fronda antitirannica, di una coalizione di forze attorno ai circoli di opposizione e, soprattutto, attorno a Domitia Longina, l’imperatrice ripudiata, erede della dote morale del padre, Domitius Corbulo, martire egli stesso del dispotismo. Emerge ancora una volta la centralità dell’Augusta, come soggetto politico di considerevole influenza, e, almeno nella fase finale del principato domizianeo, come punto di riferimento dell’opposizione al marito. Una certa tradizione letteraria, da Dione a Procopio, e una considerevole serie di documenti epigrafici e archeologici, conferma l’ottima reputazione, se non addirittura la venerazione di cui godette la donna dopo la morte di Domiziano, sorprendenti ove si pensi che quest’ultimo fu oggetto della più implacabile abolitio memoriae che la storia imperiale ricordi .
La fine di Domiziano, al pari di quella di Nerone, fu dunque il risultato di una convergenza di interessi e soggetti molto differenti tra loro, temporaneamente coalizzati dall’obiettivo della rimozione di un nemico comune. Non casualmente, H. Castritius ha associato il ruolo di Domitia Longina, quale catalizzatore del dissenso, a quello della figura e poi della memoria di Ottavia .
La composita alleanza tra epigoni dei martiri stoici, elementi del patriziato, componenti del gruppo corbuloniano, ebbe breve durata: sin dal principio, la reggenza di Nerva è caratterizzata da una estesa conflittualità all’interno del Senato e della classe dirigente. Il princeps è peraltro in una posizione di estrema debolezza: il suo ruolo di garante istituzionale, frutto di un faticoso compromesso, lo condanna ad un’equidistanza molto facilmente assimilabile all’isolamento; d’altronde la precarietà del suo mandato, la sua condizione di reggitore dell’Impero ad interim, era talmente palese da indurlo addirittura a pronunciarsi su di essa . In verità Nerva era un uomo piuttosto compromesso con Domiziano, e questo non mancò di essergli rinfacciato . Un sovrano tanto delegittimato non può che far presupporre che alle sue spalle infuri la battaglia per la successione.
In tal senso, uno degli scopi di questo lavoro è consistito nell’individuare tracce o indizi di una continuità di strategie da parte del medesimo gruppo di potere in occasione dei due avvicendamenti ai vertici del governo imperiale tra il settembre 96 e l’ottobre 97. Ben poco è possibile dedurre dagli scarni resoconti delle fonti circa l’assassinio di Domiziano (né avremmo mai sperato di ricavare da essi molto più che banali aneddoti); assai più significativa l’invadente presenza dei futuri artefici dell’adozione di Traiano in ogni iniziativa del neoinsediato governo di Nerva: Sex. Iulius Frontinus divenne curator aquarum nel 97, e contemporaneamente, insieme a L. Iulius Ursus, presiedette la commissione finanziaria istituita dall’anziano princeps. La notizia è tanto più sorprendente ove si consideri che tale attivismo faceva da contraltare alla totale inerzia politica durante gli ultimi anni di regno di Domiziano. T. Aurelius Fulvus, se ancora vivo, doveva avere sovrinteso alla Praefectura Urbi nei giorni del complotto contro l’ultimo flavio, e molto probabilmente deteneva ancora la carica. Ritengo poi che i consolati iterum del 98 siano in buona parte stati decisi da Nerva: se così fosse, il grande onore tributato a Frontinus, Ursus, e Domitius Tullus, si spiegherebbe a fatica se non in relazione a meriti particolari nell’insediamento al potere del senatore di Narni, e in tutto ciò che lo precedette. Infine, nell’eventualità, molto probabile, a giudizio di molti, che Traiano fosse stato assegnato alla Germania Superiore nell’autunno del 96, si avrebbe un’importante conferma del fatto che i suoi alleati, sin dall’inizio del principato di Nerva si avvantaggiassero di una considerevole supremazia strategica sui possibili concorrenti. Questo naturalmente non poteva spiegarsi che con un primato in termini di potere, influenza, ricchezza. Il cosiddetto “circolo di Traiano” rappresentava, come abbiamo visto, il vertice di una rete di relazioni e interessi imponente; essa sarà la base della futura dinastia antonina. Artefici o meno della caduta di Domiziano, saranno i componenti più anziani di questo network, ben insediati a capo delle catene di comando del principato di Nerva, a sovrintendere al passaggio di consegne tra l’anziano princeps e il legato della Germania Superiore, operando i necessari avvicendamenti in alcuni officia strategici del Reno, e, per un altro verso, vigilando nella capitale , affinché tutto procedesse secondo i piani. Componeva questa task force diplomatica, oltre ai già citati Frontinus, Ursus, T. Aurelius Fulvus, Cn. Domitius Tullus, anche, con tutta probabilità, L. Licinius Sura, del quale si sono cercate di mettere in luce in particolare le virtù “civili”: amante della mondanità, infaticabile tessitore di relazioni, fine politico, il braccio destro di Traiano sembra assai più facilmente assimilabile a un Mecenate che a un Agrippa. Per questa ragione, ritengo che il suo decisivo contributo al senatore di Italica debba essere collocato nel contesto di febbrile attivismo diplomatico che ebbe come scenario Roma, e non la provincia . A trarre profitto da questa operazione sarebbero poi stati i membri più giovani di questo blocco di potere, appartenenti alla generazione di Traiano (e di Domiziano), o di poco più anziani: Q. Glitius Atilius Agricola, Q. Sosius Senecio, L. Iulius Ursus Servianus, Sex. Attius Suburanus, A. Cornelius Palma Frontonianus, per citare i più importanti.
Naturalmente, questa operazione di “insediamento” al potere non avvenne senza contrasti. Il principale ostacolo all’affermazione di Traiano e dei suoi alleati, era costituito dai politici più legati al passato regime, la cui influenza si era conservata pressoché intatta: lo dimostra ad esempio il fatto che la scelta del successore di Domiziano fosse ricaduta su Nerva, uomo dalle evidenti inclinazioni filodomizianee. Il presidio dei vertici del governo imperiale rappresentava un presupposto fondamentale per esercitare il patronato e attivare canali di promozione e di cooptazione clientelare: era evidente che tale posizione di privilegio non poteva essere amichevolmente condivisa. Inoltre, la factio filodomizianea poteva contare sulla rivalutazione della memoria dell’imperatore ucciso, aspetto che sin dall’inizio incontrò il favore dei soldati, legionari e pretoriani. Coerente con tali premesse, la candidatura di un vir militaris, di un uomo che aveva condiviso, sul campo, trionfi e rovesci di Domiziano, conosciuto e rispettato dalle truppe, ovvero M. Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus. Come ha ben evidenziato K.H. Schwarte , è in questo “bipolarismo” di fondo che trova la sua ragion d’essere l’offensiva, politica e giudiziaria, contro delatori veri o presunti di Domiziano e uomini compromessi con il passato regime; tra i protagonisti di questa campagna lo stesso Plinio, e, ovviamente, i componenti delle correnti di opposizione alla tirannia di ritorno dall’esilio (Iunius Mauricus in primis). Risulta chiaro, dunque, come i processi politici e gli attacchi agli uomini compromessi con il regime domizianeo durante il regno di Nerva avessero una mera utilità politica: quella cioè di legittimare un “passaggio di consegne”, una “successione” altrimenti priva di fondamento giuridico o dinastico; questo è tanto più vero ove si consideri che tale istanza veniva avanzata in diretta e contemporanea concorrenza con un’altra rivendicazione, a suo modo uguale e contraria: quella cui si accennava in precedenza, assai ben descritta dallo Schwarte, fatta propria dai politici e dai viri militares più legati e più compromessi con il passato domizianeo. Ambedue gli schieramenti, in breve, sostenevano una propria “candidatura” al sommo potere.
In tale prospettiva, sia detto per inciso, va dunque forse interpretata la successiva campagna “revisionista”, che ebbe in Plinio il suo primo interprete e che determinò una consistente mistificazione della realtà storica di quel biennio: essa ebbe origine proprio dalla necessità politica contingente alla lotta per la successione, nacque nella sua forma proprio come rivendicazione politica della legittimità di una candidatura su un’altra, non fu il risultato meccanico di una rilettura inventata di sana pianta post eventum; e peraltro l’elaborazione di una versione addomesticata degli avvenimenti rappresentava una necessità avvertita anche da quanti avevano sostenuto il candidato sbagliato, o si erano mantenuti neutrali; tutti accomunati dall’unica esigenza di dimenticare in fretta e rimanere comunque sul carro dei vincitori.
Tali considerazioni mi consentono una breve, ma essenziale, divagazione: è in questo contesto di conflitto politico che va collocata l’emarginazione, o la rimozione, di alcuni personaggi, sin troppo compromessi con il passato regime. L’analisi prosopografica di politici e viri militares vicini a Domiziano ha messo in evidenza, per alcuni di essi, questa circostanza . Ciò naturalmente non presuppone in alcun modo una generale strategia di ricambio nel governo dell’Impero; il principio di continuità amministrativa e di personale tra i regni di Domiziano e Traiano proposto da Waters rimane ancora validissimo. Ciò premesso, affermare che l’avvicendamento ai vertici dell’establishment, avvenuto a cavallo del regno di Nerva, non abbia prodotto delle vittime (in senso metaforico, s’intende), significa misconoscere le più basilari regole del realismo politico. K. Ströbel ha opportunamente parlato, a questo proposito, di “Entdomitianisierung”, con esplicito riferimento a ben noti, e analoghi, fenomeni moderni: porre il problema della maggiore o minore compromissione con il tiranno in termini prosopografici non ha alcun senso, dal momento che risulterà evidente che, in tale prospettiva, tutti risultano compromessi, in quanto tutti debitori all’imperatore della propria ascesa sociale. Secondo le “regole d’avanzamento” universalmente accettate, ciascun senatore era in grado di comprendere, in linea di massima, fino a dove avrebbe potuto arrivare; e in generale l’intervento del princeps era rivolto a promuovere degli avanzamenti, assai di rado ad ostacolarli. In questo senso, molti dei componenti della classe politica che si affermerà con Traiano, a partire dall’imperatore, potevano tranquillamente dire di non aver goduto del particolare favore di Domiziano; medesime rivendicazioni potevano venire dai diplomatici di lungo corso, rimasti ai margini dell’alta politica negli ultimi anni di regno del figlio di Vespasiano. Peraltro, il confronto tra la composizione del consilium principis d’età domizianea con quello di Traiano, dimostra che una certa discontinuità (dipendente, va riconosciuto, anche da cause naturali) in effetti vi fu.
Tornando all’analisi delle vicende dell’anno 97, si è poi evidenziata l’esistenza di un “terzo polo”, oltre a quelli testé descritti. Esso prende le mosse dai circoli d’opposizione filosofica, che, negli anni della svolta autoritaria di Domiziano, avevano riacquisito vigore, e che, dopo l’assassinio del despota, vivevano in senato un’ultima stagione di grande attivismo politico e di accresciuta popolarità; l’offensiva politica e giudiziaria contro gli uomini più compromessi con il passato regime, non fece che amplificarne ulteriormente le ambizioni. L’esito piuttosto insoddisfacente dei processi, e, allo stesso tempo, la percezione della finalità strategica di quest’operazione (la candidatura di un uomo meno compromesso con Domiziano), determinarono probabilmente la deriva “estremistica” di questo soggetto, che provò ad approfittare della debolezza di Nerva: questa, a mio giudizio, la sostanza politica della congiura di Calpurnius Crassus Frugi. E’ questo un episodio abitualmente trascurato dagli studiosi, in quanto considerato marginale; recenti studi hanno però dimostrato che esso fu tutt’altro che sottovalutato da Traiano: la durezza delle sanzioni a carico del ribelle, stabilite a correzione della precedente, lieve pena, imposta da Nerva, è rivelatrice dell’entità della minaccia percepita dai nuovi signori di Roma.
Prima di concludere, va infine chiarito un ultimo punto. La confutazione della tradizionale immagine dell’Optimus Princeps come vir militaris determina importanti conseguenze anche nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla sua adozione. Egli non può più essere considerato, con buona pace di R. Syme , come il naturale candidato dei comandi provinciali, l’espressione di un pacifico compromesso fra capi militari, l’adozione del quale placò di conseguenza ogni tumulto e sventò qualsiasi rischio di sollevazione. L’ascesa alla statio principis di Traiano dovette dunque essere assai più complicata e irta di ostacoli di quanto le fonti contemporanee ce la presentino; soprattutto, la storia di quei mesi deve essere interpretata rivalutando la dialettica dei rapporti di forza tra le aspirazioni dei legati provinciali, le istanze dei legionari, e la regia occulta delle diplomazie senatoriali attive nell’Urbe .
In definitiva, il blocco di potere a sostegno di Traiano si avvaleva di una certa supremazia, in termini politici e strategici. Eppure non era egemone. La scarsa reputazione di Traiano presso le legioni; i malumori dei soldati, piuttosto facilmente riscontrabili in Mesia e sul Reno, probabili in Pannonia; i rumores provenienti da Oriente; le pericolose oscillazioni di Nerva verso la factio filodomizianea; la presenza di preoccupanti fattori di interferenza nella lotta per la successione, come la congiura di Calpurnius Crassus Frugi, che aveva anche pericolosamente evidenziato la debolezza di Nerva; tutti questi elementi convinsero gli alleati di Traiano che la posizione strategicamente favorevole di quest’ultimo poteva non essere più sufficiente. In questa logica, una forzatura, che mettesse una volta per tutte fine ad ogni dubbio, poteva essere una soluzione contemplabile. Ma un azzardo del genere poteva essere prerogativa solo di chi conservava il controllo del “gioco”, e poteva permettersi di correre un rischio “calcolato”. La sollevazione dei Pretoriani, sobillati da Casperius Aelianus, va letta, a mio giudizio, in quest’ottica: ovvero come una provocazione diretta a forzare Nerva all’adozione di Traiano. Un’interpretazione del genere, peraltro, delinea un quadro politico più coerente delle ipotesi finora proposte; chiarisce i dubbi circa la condotta successiva di Casperius Aelianus, di Nerva e di Traiano; motiva la freddezza dell’adottato verso l’adottante.
In conclusione, quindi, la cosiddetta adozione, secondo questa del tutto ipotetica ricostruzione, sarebbe una vera e propria usurpazione “mascherata”, messa in atto da un gruppo di potere ramificato e forte (i cui elementi più in vista si trovavano tutti a Roma in quel periodo), contrapposto a interessi non convergenti coi propri, ma non abbastanza importanti da scatenare una guerra civile, una volta vistisi minacciati: si potrebbe dire che la strategia dei diplomatici alleati di Traiano avesse messo in scacco tutti gli altri possibili concorrenti; ma una volta constatato poi il rischio che la situazione sfuggisse di mano, essi avevano finito con l’optare per una forzatura, che poteva avere senso solo a condizione di un controllo quasi totale della situazione.
L’atto iniziale della dinastia antonina, che ha suggerito ad alcuni moderni l’enfatica definizione di “Adoptivkaiser”, fu dunque, nella migliore delle ipotesi, una forma subdola di coercizione. Se tale ipotesi fosse attendibile, cadrebbe anche l’ultimo pilastro di una costruzione che ha ben poco di storico e molto di ideologico. Nella lunga storia dell’Impero romano, l’unico criterio di successione dotato di una qualche legittimità, e rispettato dalle forze che via via si contendevano il potere, fu quello dinastico. Domiziano pagò, a dispetto di ogni infingimento retorico o ideologico sul dispotismo, una fallimentare politica dinastica; i successori di Nerva, pur privi di eredi diretti, si trasmisero tutti il potere in ossequio alla consanguineità ; Marco Aurelio, unico ad avere figli, nominò disinvoltamente, seppur in condizioni di emergenza, il proprio figlio Commodo quale successore.
Il nuovo gruppo dirigente che si raccolse attorno ai principes antonini, si dimostrò ben consapevole di questa imprescindibile condizione, e formò una rete compatta e estesa di relazioni e alleanze familiari, tale da garantire la successione all’interno di essa, fenomeno che è in parte fattore fisiologico di condotta delle famiglie romane, ma che poi diverrà anche una strategia consapevole da parte del potere (si pensi al complicato sistema di adozioni incrociate imposto da Adriano ad Antonino Pio), così come a suo tempo aveva cercato di fare Augusto, e che invece mancò completamente nei piani di successione dei Flavi. Ad essi d’altronde era ben nota l’unica, possibile alternativa, ovvero la conquista violenta del potere. Questa, sin dall’inizio, era stata la reale natura del principato: come ebbe a scrivere R. Syme , in fondo, “il principato nacque dall’usurpazione”.
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