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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-10152012-211111


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
SILVI, MARTA
URN
etd-10152012-211111
Titolo
Tra Cinema e Arti Visive. Il Found Footage dagli anni Sessanta a oggi. Between Cinema and Visual Art. Found Footage from 60’ up to present.
Settore scientifico disciplinare
L-ART/06
Corso di studi
STORIA DELLE ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO
Relatori
tutor Prof.ssa Lischi, Alessandra
Parole chiave
  • riappropriazione
  • reimpiego
  • recupero
  • era dell’accesso
  • dominio pubblico
  • diritto d’autore
  • copyright
  • cinema underground
  • citazione
  • cinema sperimentale
  • arti visive
  • riqualificazione delle immagini in movimento
Data inizio appello
17/10/2012
Consultabilità
Completa
Riassunto
Quella del recupero è una pratica che si afferma con decisione nel XX secolo. Epoca dell’archivio prima e, con l’avvento del computer, del database poi, il Novecento impiega la catalogazione e la raccolta di dati come una modalità di pensiero e un’economia che si incentra sulla frammentarietà e sulla ricostituzione.
L’immagine in movimento si sostituisce al testo ed è utilizzata, smembrata, e ricomposta come materiale scultoreo. La pellicola, di qualunque natura essa sia, perde il suo significato originario, la sua trama, la sua narratività per lasciarsi fruire in qualità di oggetto, alienato da sé e dal contesto.
L’attenzione al supporto materiale mette in discussione l’intenzione prima con la quale il cinema era nato, ovvero la volontà di duplicare il reale nelle sue coordinate spazio temporali e mnemoniche.
Kulešov (da cui l’effetto prende nome) dimostra nel 1920 che un’inquadratura isolata non ha nessun senso in sé, ma lo prende invece da ciò che la segue o la precede. Lo spettatore non può trattenersi, infatti, dallo stabilire un legame logico tra due riprese che si succedono e che non hanno necessariamente un rapporto diretto. E’ perciò possibile rovesciare il senso di un testo filmico decostruendo la trama narrativa iniziale e guidare lo spettatore nella lettura del nuovo messaggio prodotto. Il montaggio si rivela la chiave di volta dell’intero processo generando possibilità di riflessione differenti sul medesimo materiale.
La presente ricerca, nutrita di apporti teorici imprescindibili e inquadrata in un periodo storico di forti cambiamenti (dagli anni Sessanta ai nostri giorni), mira a costruire una panoramica il più possibile ampia sul recupero, il reimpiego, la riappropriazione, la citazione e la riqualificazione delle immagini in movimento, in particolare nell’uso del found footage, al confine tra arti visive, cinema commerciale e cinema sperimentale. Per la storicità delle sue radici e, allo stesso tempo, per l’attualità delle sue implicazioni, l’argomento merita un’attenzione e un approfondimento particolari – motivo essenziale della genesi di questo lavoro - al fine di accrescere la portata degli studi che, a partire dagli anni Novanta, in maniera sistematica a livello internazionale e in maniera più discontinua e frammentata a livello italiano, sta costituendo terreno fertile di riflessione sulla materia, non ancora analizzata in tutte le sue sfaccettature e problematiche. L’apporto originale di questa indagine risiede nell’identificazione di tematiche, impiegate come paradigmi di lettura, in grado di riunire, non solo lavori singoli, ma anche atteggiamenti, interessi, modalità operative e scelte artistiche, nonché di individuare differenze strutturali, tecniche, epocali e di intenti che corrono tra le opere, grazie a una ricognizione trasversale che attinge a diversi periodi storici e che osserva con sguardo attento l’impiego di diverse tecnologie.
Nella prima parte del primo capitolo (TEORIA-Elementi di teoria) si è scelto di approfondire un discorso teorico legato alla storia altalenante e disomogenea del found footage (Contaminazioni), alle analogie con le caratteristiche dell’Unheimlich freudiano, alle teorie (Che cosa è il found footage? Excursus sulle teorie) elaborate finora in ambito internazionale (Jay Leyda, William C. Wees, Eugeni Bonet, Nicole Brenez, Yann Beauvais, Jean-Michel Bouhours, Michael Zryd, Christa Blümlinger, André Habib, Stefano Basilico) e italiano (Rinaldo Censi, Dunja Dogo, Davide Gherardi, Marco Grosoli, Giulio Bursi, Marco Senaldi, Cosetta G. Saba, Maria Rosa Sossai, Monica Dall’Asta, Andrea Bellavita, Federico Rossin) – e ai Concetti del Postmoderno applicabili al found footage.
Le riflessioni attorno al Postmoderno, alle nuove teorie sullo spettatore e l’autorialità sono stimolo a una ricognizione che abbraccia autori, testi e opere di differenti generazioni e provenienti da diversi background. Queste teorie sono lette in filigrana all’interno dell’intera ricerca dando alle volte per scontati alcuni suoi elementi noti, e facendo invece riemergerne in maniera più esplicita altri imprescindibili alla comprensione di determinate dinamiche. La credibilità teorica e artistica dell’esperienza postmoderna è considerata una componente implicita, superando i dibattiti interni e gli attacchi esterni che questo movimento ha subito negli anni, per impiegarne soltanto le reali potenzialità ermeneutiche.
Nella seconda parte del primo capitolo (La cultura del frammento e della rovina) si affrontano questioni legate alla qualità del materiale riutilizzato (Frammento/Rovina/Memoria), le afferenze teoriche con le tecniche impiegate negli altri campi artistici e delle immagini in movimento (Collage/Montage/Interruzione), l’atteggiamento attraverso cui si guarda al materiale stesso (Archeologia, Archiviologia, Nostalgia).
Nella terza parte del primo capitolo (L’eredità del ready-made) si tratta il soggetto dal punto di vista della storia dell’arte, in particolare, in relazione al concetto di objet trouvé e alla pratica duchampiana del ready-made, di cui il found footage sembra essere una rivisitazione. Si rintracciano le motivazioni estetiche e pratiche, spesso legate a fattori contingenti, della scelta del materiale di found footage (Perché scegliere il found footage), l’evoluzione tecnologica e le sue incidenze nella pratica del found footage, il contesto storico e culturale delle prime sperimentazioni. Si analizzano, dunque, le influenze del concetto di ready-made ereditato dall’arte (L’eredità del ready-made), i punti di contatto che il found footage mantiene con le pratiche artistiche del collage e della cover (Ready-made, collage e cover: interferenze col found footage) e lo slittamento epocale di ruolo dalla figura dell’autore a quella moderna dell’editor, nel significato inglese di “montatore” come intende Lev Manovich (Autore o editore?), che genera nuovi pensieri su questo tema. Conclude questa sezione un paragrafo dedicato alle interferenze tra le modalità e le figure impiegate nella letteratura e quelle assimilate e traslate da essa nel cinema e, nello specifico, nel found footage (Cinema versus Letteratura).
Visto il continuo scambio di informazioni e di linguaggi tra le Arti (visive e cinematografiche nel nostro caso) avvenuto a partire dalla metà del XIX secolo, si è scelto di non operare distinzioni tra gli autori in base alla loro provenienza e formazione. Lavori di artisti visivi, filmmaker, cineasti e registi, vengono analizzati sotto un’unica lente che inquadri di volta in volta le tendenze rintracciabili nei diversi ambiti delle immagini in movimento. L’attenzione sul percorso degli autori lascia dunque posto a quella sulle problematiche e sulle tematiche affrontate dalle opere stesse, spostando così i riflettori dal soggetto all’oggetto.
Nella parte centrale del lavoro (IPOTESI DI CATEGORIE E STUDI DI CASO) si esplorano alcuni casi scelti, non secondo il grado di riconoscibilità, ma secondo l’attinenza con le suddivisioni per argomento individuate, in modo da creare un paradigma adattabile a più situazioni di studio. Si tralasciano spesso le opere e gli autori più noti nell’ambito del found footage non per noncuranza, ma per dare invece possibilità di lettura anche a lavori meno frequentati. Mentre si sceglie di inserire tra gli altri anche alcuni capisaldi della pratica essendo funzionali alle questioni trattate di volta in volta, cercando comunque di evitare la ripetizione delle interpretazioni già ampiamente divulgate su taluni argomenti.
Essendo impossibile stabilire la quantità di found footage che un film deve contenere per essere chiamato tale, non esiste una metodologia scientifica di classificazione dei lavori. Per questo motivo è fondamentale, una volta chiarite le coordinate teoriche che inquadrano il fenomeno, fissare poi alcune possibili linee guida tematiche sostenute da esempi concreti.
Prendendo spunto dalla suddivisione applicata dal “Lux, Artists’ Moving Image” di Londra alla propria collezione di film e video, una delle più ricche d’Europa, si delineano quattro aree specifiche: nella prima si trattano i lavori che costruiscono degli inediti Ritratti di città, attraverso una rappresentazione spesso visionaria e poetica (Hart of London di Jack Chambers, The Last of England di Derek Jarman) che rifugge le descrizioni didascaliche, oppure, che si compiace della raccolta certosina di materiale a soggetto (Los Angeles plays itself di Thom Anderson); nella seconda si affrontano i film che rintracciano nell’Uso delle Macchine e delle Tecnologie, alcuni temi di indagine tra i più diffusi ed esplorati nella pratica del reimpiego, secondo un punto di vista ironico (Rythm di Len Lye), critico e riflessivo (21–87 di Arthur Lipsett, Mercy di Abigail Child, The Rumour of True Things di Paul Bush) e metaforico-nostalgico (Manual di Christoph Girardet e Matthias Müller); nel terzo, Looking for Alfred , si prendono in esame i film che ammiccano e rielaborano alcune famose sequenze hitchcockiane (Phoenix Tapes di Christoph Girardet e Matthias Müller), oppure che impiegano lavori interi del regista inglese scardinandone e ricomponendone il significato originario (24 Hour Psycho di Douglas Gordon, vertigo di Martin Zet e (Schizo) Redux di Cristoph Draeger); per ultimo si analizzano alcuni film che, attraverso sequenze a soggetto, rintracciano nelle storie epocali e mediatiche de Il Presidente (John Fitzgerald Kennedy in REPORT di Bruce Conner), il Senatore (Robert Kennedy in Black TV di Aldo Tambellini), il Leader (Malcolm X in Perfect Film di Ken Jacobs) e la Celebrità (Marilyn Monroe in Marilyn Time Five di Bruce Conner e Filmarilyn di Paolo Gioli) materiale di interesse sociologico, politico e artistico.
Questa distinzione di soggetti rende l’indagine più fluida e permette contestualmente di individuare dinamiche comuni ad artisti e filmmaker di paesi e generazioni differenti. Il modo di trattare ciascun argomento supera, infatti, le barriere temporali per snodarsi in una ricerca verticale che accolga rappresentanti di diversi periodi storici alle prese con metodologie di lavoro simili per scelta dei soggetti rappresentati ma spesso molto distanti per procedimento tecnico o per linguaggio artistico.
In ciascun sottogruppo si trovano a convivere indistintamente film che reimpiegano materiale cinematografico, materiale televisivo, materiale d’archivio, materiale home movies e materiale girato e rielaborato dall’autore stesso. Tecniche di montaggio differenti sono inoltre ravvisabili in ciascun lavoro, da quelli realizzati in scratch video e cut up, a quelli in cui il found footage appare nel testo del film solo come una presenza discontinua, dai film in cui il montaggio shot-for-shot e il sonoro costruiscono l’azione, ai film che si presentano come cinema installato.
Attraverso l’analisi di una rosa ristretta di lavori (mai più di cinque per ogni categoria e voce individuata), scelti come modelli di riferimento o come campioni estratti arbitrariamente all’interno di una produzione vastissima, è, dunque, possibile eseguire un’ampia ricognizione nelle pratiche di “riuso”. Le profonde differenze tecniche, di intenti e di formulazione che contraddistinguono le opere permettono, infatti, di evidenziare importanti soglie epocali generate da fattori contingenti: il progresso tecnologico e l’avvento di apparati di riproduzione sempre più sofisticati, la trasformazione dell’accessibilità delle fonti e della cultura in genere (destinata ad essere sempre più raggiungibile e libera), il diverso atteggiamento che le leggi per il copyright hanno imposto all’uso dei materiali.
I punti di questa riflessione costituiscono un paradigma applicabile e interscambiabile tra ciascun gruppo e ciascuna area individuata. L’obiettivo di questa ricerca è, dunque, l’abbozzo di una impalcatura cognitiva, non definitiva, non vincolante, non unica, quanto indispensabile, per la costruzione di una metodologia di lettura dei film appartenenti alla pratica del found footage. La scelta dei raggruppamenti tematici, utili a semplificare la vastità e la frammentarietà dei lavori rintracciabili in questo settore, non comporta volutamente valutazioni semiotiche approfondite ma punta a fornire uno strumento agile e a tutti comprensibile di riflessione e catalogazione.
Come si avrà modo di vedere più avanti, il termine “found footage” non si dimostra mai completamente esaustivo della pratica che descrive, ed è anzi molto spesso contestato e ripudiato dagli autori stessi che lo applicano: esso, infatti, identifica più propriamente un certo tipo di materiale (il metraggio trovato) che non il procedimento tecnico a cui fa riferimento, escludendo, almeno a livello letterale, tutte le altre fonti e metodologie di reperimento. Se ne fa qui uso per ragioni di comodità e uniformità lessicale, ma si tiene comunque a precisare che esso è spesso sostituito da termini equivalenti, o ancor più pertinenti, quali “reimpiego”, “riuso”, “riappropriazione”, “citazione”, “riqualificazione delle immagini”.
Difficile, inoltre, è stabilire la tipologia dei supporti su cui questi lavori compaiono per la prima volta: un conto è parlare di supporto originario (super8 o 16mm per la maggior parte dei film elaborati fino agli anni Ottanta), un conto parlare delle copie in distribuzione e del formato su cui spesso sono stati riversati i film (VHS, DVD, file digitale).
Per scelta si è deciso di trattare quasi esclusivamente film composti interamente di found footage, o comunque film in cui la parte di reimpiego di immagini è preponderante sul girato originale (spesso considerato dallo stesso autore materiale di riuso alla stregua di quello trovato o cercato, poiché realizzato in tempi differenti e investito perciò di una certa distanza critica e concettuale).
Non si affrontano in questa sede film realizzati da utenti anonimi senza particolari velleità artistiche con materiale recuperato in internet, perché ciò richiederebbe uno studio a parte. E, pur consapevoli dell’esistenza di film che non usano ma imitano il found footage, si è preferito non trattare l’argomento dal momento che anch’esso potrebbe esigere un approfondimento a sé, evitando così il rischio di espandere esponenzialmente una ricerca già tentacolare per sua natura. Il primo minuto che apre il film A sense of the End di Mark Lewis (1996) è un ottimo esempio di questo genere.
Un capitolo a parte, il terzo, è dedicato, infine, alla questione legale dei diritti d’autore e dell’impiego di immagini già esistenti protette dal copyright o esenti da questo (UN ACCENNO AL DIRITTO D’AUTORE E AL COPYRIGHT). L’evoluzione della legislazione legata a questo tema (Una legislazione poco definita, Breve storia del diritto d’autore, Il fair use americano e la sua applicazione nella legge italiana) permette di seguire di pari passo l’evoluzione dell’accessibilità della cultura e delle attività di riappropriazione delle immagini (Il dominio pubblico e La smaterializzazione dei prodotti e l’era dell’accesso), mettendo in luce le carenze legislative delle norme e gli escamotages che permettono l’aggiramento delle stesse. Chiude l’intera ricerca il caso esemplare di Un Navet di Maurice Lemaître in cui la richiesta di riconoscimento dei diritti da parte di Madame Malthête-Méliès pone l’artista in discussione conducendolo a scavare nella legislazione (francese), coadiuvato da un avvocato preparato, e a reperire quelle eccezioni alla legge grazie alle quali gran parte dei cineasti di found footage possono smettere di considerarsi fuorilegge.
La tesi è corredata, inoltre, da una video-filmografia che riporta le schede dettagliate delle opere prese in esame nonché il luogo di reperimento e consultazione delle stesse.
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