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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-10022011-163053


Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica LC6
Autore
D'AGLIANO, SARA
URN
etd-10022011-163053
Titolo
Asma bronchiale di origine professionale. inquadramento clinico ed evoluzione nel tempo
Dipartimento
MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di studi
MEDICINA E CHIRURGIA
Relatori
relatore Prof. Paggiaro, Pierluigi
Parole chiave
  • asma professionale
  • esposizione lavorativa
  • sensibilizzazione
Data inizio appello
18/10/2011
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
18/10/2051
Riassunto
RIASSUNTO

PREMESSA
L’asma professionale (AP) può essere definita come una malattia caratterizzata da variabile limitazione al flusso aereo e/o iperreattività delle vie aeree dovuta a cause e condizioni attribuibili ad un particolare ambiente lavorativo e non a stimoli incontrati fuori dal posto di lavoro. Nella definizione sono compresi sia l’asma scatenata da vari fattori professionali (allergeni, irritanti od esercizio fisico) in lavoratori con pregressa diagnosi di asma bronchiale (asma aggravata dal lavoro), sia l’asma insorto “de novo” o la ricorrenza di un asma precedentemente quiescente indotto dalla sensibilizzazione a specifiche sostanze (allergeni, in particolare composti macromolecolari di natura proteica, o agenti chimici semplici a basso peso molecolare: asma professionale “propriamente detta”). Non tutti gli Autori però, concordano sul fatto d’includere, nella definizione di asma professionale anche l’asma aggravata dal lavoro in quanto la gestione e le misure preventive differiscono rispetto all’asma indotta da agenti sensibilizzanti sul luogo di lavoro. Inoltre, i meccanismi patogenetici dell’asma professionale aggravata dal lavoro restano in gran parte sconosciuti.
Esistono poi numerose condizioni che possono manifestarsi con un quadro sintomatologico simile a quello dell’asma professionale e che devono essere differenziate grazie all’utilizzo di mezzi diagnostici adeguati. Queste condizioni comprendono, ad esempio, la bronchite eosinofila e la sindrome della laringe irritabile (“vocal cord disfuction”,VCD). Una sintomatologia simil-asmatica può anche essere indotta da sostanze irritanti o profumi.
In base alla presenza o meno di un periodo di latenza prima dell’insorgenza dell’AP, se ne distinguono due tipi:
1. Immunologica, che compare dopo un periodo di latenza di esposizione necessario perché il lavoratore sviluppi sensibilizzazione immunologica all’agente causale. Questo tipo comprende l’AP indotta da un meccanismo IgE-mediato (la maggior parte degli agenti ad alto peso molecolare e alcuni agenti a basso peso molecolare) e l’AP in cui un meccanismo IgE-mediato non è dimostrato (agenti a basso peso molecolare come diisocianati, cedro rosso e acrilati)
2. Non-immunologica, caratterizzata dall’assenza di un periodo di latenza. Si presenta dopo l’esposizione ad alte concentrazioni di un irritante nel luogo di lavoro. La più importante forma di asma indotta da irritanti è la “sindrome da disfunzione reattiva delle vie aeree” (RADS), che si presenta dopo una singola esposizione ad alte dosi di vapori e fumi irritanti.

L’iter diagnostico di asma professionale si fonda su diversi principi quali:
la raccolta di un’accurata anamnesi e definizione del rischio professionale, la diagnosi di asma (tramite utilizzo di spirometria, test di iperresponsività delle vie aeree con metacolina e monitoraggio del PEF), la conferma della relazione tra sintomatologia ed esposizione professionale (grazie all’utilizzo di test di provocazione specifici) e la dimostrazione della sensibilizzazione ad un agente professionale e del suo ruolo causale (diagnosi eziologica).
Il trattamento farmacologico dell’asma professionale non è differente dal trattamento di altri tipi di asma e si affida ad un approccio graduale a seconda della gravità della sintomatologia asmatica, come definita dalle Linee Guida GINA (Global Initiative for Asthma guidelines). I farmaci di maggior utilizzo risultano essere i corticosteroidi inalatori. In casi selezionati, in cui sia presente una sensibilizzazione ad un singolo allergene (e comunque ad un numero limitato di allergeni), anche l’immunoterapia può rappresentare un valido aiuto terapeutico.
Nonostante questo, la cessazione o quanto meno la riduzione dell’esposizione all’agente sensibilizzante, risulta, ad oggi, la miglior strategia terapeutica in caso di soggetti affetti da asma bronchiale di origine professionale. Il follow-up dei pazienti con asma professionale dopo la diagnosi ha dimostrato che, i soggetti che continuano ad essere esposti all’agente sensibilizzante, manifestano un deterioramento della funzione polmonare, dell’iperreattività bronchiale e la persistenza dei sintomi e vanno incontro a frequenti ed importanti riacutizzazioni, nonostante la terapia regolare. Nei soggetti che cessano di lavorare, l’evoluzione dell’AP è piuttosto variabile: in circa la metà di questi pazienti,l’asma va incontro ad un progressivo, anche se lento, miglioramento, sia dei sintomi che dei dati funzionali respiratori, e molti di questi soggetti “guariscono” dall’asma. Gli altri invece,rimangono sintomatici ed iperreattivi nonostante la cessazione del lavoro e la terapia regolare. Questo decorso “sfavorevole” dell’AP dopo la diagnosi è favorito dalla lunga durata di esposizione all’agente sensibilizzante e dalla lunga durata dei sintomi prima della cessazione del lavoro,come se la persistenza e durata dell’asma inducessero alterazioni funzionali e biologiche persistenti non più strettamente collegate alla presenza dell’agente sensibilizzante che ha iniziato la malattia.
La cessazione completa dell’attività lavorativa è difficile da farsi, specie in un soggetto giovane, per le ovvie implicazioni in termini di perdita di guadagno e di qualificazione professionale. Pertanto molti soggetti con asma professionale sono costretti a rimanere al lavoro. Si è quindi ipotizzato che allontanare il paziente dalla diretta esposizione allo specifico agente che ha causato l’asma, trasferendolo in una mansione o in zona diversa della stessa fabbrica, possa permettere un miglior controllo dell’asma senza costringere il lavoratore al licenziamento. L’effetto della “riduzione dell’esposizione lavorativa” è stato valutato in alcuni studi, dimostrando in alcuni casi che questa si associava ad un miglioramento dell’asma simile a quello osservabile con la sospensione del lavoro. In altri casi la riduzione sembrava sostanzialmente uguale alla persistenza dell’asma relativamente al follow-up dei sintomi e della funzione respiratoria.
La discrepanza tra questi studi è spiegabile con la difficoltà di definire con esattezza l’entità di questa riduzione, che è probabilmente differente per i diversi agenti sensibilizzanti e che può variare da una quasi completa assenza di esposizione a situazioni sostanzialmente non differenti dalla continuazione della stessa attività lavorativa.
SCOPO DELLA TESI
Lo scopo di questo studio è:
a) descrivere la tipologia dei pazienti diagnosticati come affetti da AP ed osservati in un periodo di oltre 20 anni presso la Sezione di Fisiopatologia Respiratoria del Dipartimento Cardio-Toracico , che da tempo si occupa di diagnosi di AP;
b) valutare in un sottogruppo di soggetti con AP, l’evoluzione clinica della malattia paragonando gli effetti della riduzione con quelli della persistenza o della cessazione dell’esposizione professionale agli specifici agenti sensibilizzanti.


SOGGETTI E METODI
Al momento della diagnosi, tutti i soggetti sono stati sottoposti a valutazione clinica completa, includente la valutazione della gravità e durata dei sintomi, la presenza di comorbilità, la eventuale terapia farmacologica, e specialmente il tipo e l’intensità dell’esposizione lavorativa. Inoltre venivano effettuati i test di funzione respiratoria, il test di iperreattività bronchiale con metacolina, la valutazione dell’atopia con i test allergologici cutanei, e il monitoraggio del Picco di Flusso Espiratorio, PEF, con il diario dei sintomi, per almeno 3 settimane, di cui almeno 2 in lavoro (se possibile). La diagnosi di asma era effettuata secondo le raccomandazioni internazionali, in presenza di sintomi tipici e di ostruzione bronchiale reversibile e/o iperreattività bronchiale alla metacolina. In una parte di questi casi è stata anche effettuata la misura della percentuale di eosinofili nell’espettorato indotto, come marcatore non invasivo del grado di infiammazione bronchiale.
La diagnosi di asma professionale era effettuata in quasi tutti i soggetti tramite risposta positiva al test di provocazione bronchiale specifico, effettuato in laboratorio con lo specifico agente sospettato dell’origine della malattia. Le modalità per l’esecuzione del test di provocazione bronchiale specifico erano quelle suggerite dai vari documenti internazionali, utilizzando una metodologia standardizzata e specifica per i diversi composti, siano questi in forma di polveri (farina, legni esotici, decolorante per capelli), di vapori (isocianati, resine, coloranti) o di soluzioni acquose gestibili come aerosol (lattice di gomma).
In un gruppo di questi pazienti, veniva valutato l’andamento della malattia nel tempo, dalla diagnosi all’ultimo controllo clinico e funzionale, in relazione alla persistenza, cessazione o riduzione dell’esposizione lavorativa allo specifico agente sensibilizzante. All’ultimo controllo disponibile,la presenza di sintomi, l’uso di farmaci antiasmatici,la funzione polmonare e l’iperreattività bronchiale alla metacolina erano nuovamente valutati.





RISULTATI
a) Descrizione della casistica
La casistica raccolta comprende 98 soggetti (72 uomini e 26 donne) affetti da asma professionale dovuta a differenti agenti sensibilizzanti, con una età media di circa 40 anni. I soggetti erano esposti all’agente causale per 18,7 ± 12,3 anni con una durata media di malattia pari a 6,3 ± 6,5 anni. La presenza di una sintomatologia asmatica era riscontrata nel 76,8% dei casi, in associazione o meno ai sintomi di rinite che erano presenti nel 35,8% dei soggetti. Inoltre, nel 30% dei casi, i soggetti mostravano atopia ed il 54,7% era sottoposto a terapia con corticosteroidi inalatori (ICS). I pazienti erano anche valutati in relazione all’abitudine tabagica al momento della diagnosi, suggerendo l’assenza di una stretta associazione causale tra fumo ed insorgenza di AP.
Gli agenti sensibilizzanti implicati nella patogenesi dell’AP erano soprattutto diisocianati (agente LMW) e farina (agente HMW). La persistenza, riduzione o cessazione dell’attività lavorativa era dimostrabile solo per 95 soggetti di cui 69 continuavano a svolgere le precedenti mansioni lavorative, 17 avevano ridotto l’esposizione e 9 si erano definitivamente allontanati dal posto di lavoro al momento della diagnosi.
Per la diagnosi di AP, tali soggetti erano valutati con test spirometrici, grado di iperresponsività bronchiale alla metacolina e test specifico. La spirometria risultava nel range di normalità per la maggior parte dei soggetti, mentre la quasi totalità dei soggetti mostrava iperresponsività bronchiale dimostrata dal test alla metacolina. Il test specifico, effettuato solo in 94 soggetti, ha dimostrato la presenza di una risposta di tipo immediato nella gran parte dei soggetti.
Inoltre in 62 soggetti è stata possibile l’analisi della cellularità presente nell’espettorato indotto, e questa era caratterizzata da un aumento della percentuale di eosinofili nel 33,7% dei casi.
b) Studio longitudinale
Di questi 98 soggetti solo un numero limitato (41 soggetti) si è sottoposto ad uno stretto follow-up nel quale erano rivalutati nel tempo relativamente alla sintomatologia clinica, al livello di funzione polmonare, al grado di iperresponsività bronchiale alla metacolina, e talora anche alla misura del grado di infiammazione bronchiale tramite il test dell’espettorato indotto. Nel corso del follow-up, che aveva una durata media di 2 anni circa, i soggetti venivano distinti in:
- quelli che continuavano a fare lo stesso lavoro, con persistente esposizione lavorativa (N=10);
- quelli che cessavano il lavoro, o per pensionamento o per trasferimento in altro settore lavorativo (N=9);
- quelli che rimanevano nella stessa fabbrica ma erano adibiti a mansioni differenti, con esposizione solo indiretta o saltuaria all’agente responsabile dell’asma (N=22).
I soggetti con ridotta esposizione hanno mostrato, alla fine del follow-up, un significativo miglioramento nella iperresponsività delle vie aeree e un non significativo miglioramento della percentuale di eosinofili nello sputo, mentre i soggetti con persistente esposizione hanno mostrato un significativo decremento del FEV1, indice di progressione di malattia. I soggetti con cessata esposizione lavorativa avevano una tendenza al miglioramento dell’iperresponsività delle vie aeree e della percentuale di eosinofili nello sputo. L’analisi logistica, prendendo in considerazione diversi possibili determinanti dell’evoluzione della malattia (tra cui anche la cessazione o riduzione dell’esposizione lavorativa), dimostrava che il maggior determinante del miglioramento dell’iperresponsività delle vie aeree durante il follow-up era la gravità dell’iperresponsività delle vie aeree stesse alla diagnosi, con minimo contributo da parte della durata dell’esposizione lavorativa e del trattamento con corticosteroidi inalatori; la riduzione dell’esposizione lavorativa non rientrava in questi modelli.

CONCLUSIONI
Le considerazioni che possono essere effettuate, sulla base di questi risultati, sono:
a) la maggior parte dei soggetti con asma professionale diagnosticati nella nostra zona sono lavoratori esposti ai diisocianati (agenti LMW) o alle polveri di farina (agente HMW) in età altamente variabile con una media di circa 40 anni e nei quali il quadro sintomatologico si associa ad una normale funzione polmonare in presenza di una iperresponsività bronchiale. Nella quasi totalità dei casi i soggetti, al momento della diagnosi, continuavano ad essere esposti all’agente professionale;
b) la riduzione dell’esposizione professionale non può essere comparata alla cessazione effettiva dell’esposizione, la quale rimane il miglior trattamento dell’asma occupazionale. Tuttavia, la riduzione all’esposizione non risulta essere associata ad un deterioramento del FEV1 come invece accade nei soggetti con persistente esposizione. Quindi, la riduzione dell’esposizione lavorativa senza perdita del lavoro può essere considerata, in alcuni casi, una buona alternativa alla completa cessazione del lavoro.
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