Tesi etd-09122011-114717 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
ZECCA, MARIACHIARA
URN
etd-09122011-114717
Titolo
Analisi dell’attività elettromiografica di superficie a supporto e valutazione dell’affaticamento muscolare e metodi di analisi sperimentale della tolleranza all'esercizio fisico in condizioni isometriche e dinamiche
Dipartimento
INGEGNERIA
Corso di studi
INGEGNERIA BIOMEDICA
Relatori
relatore Prof. Pioggia, Giovanni
relatore Prof. Siciliano, Gabriele
relatore Ing. Tartarisco, Gennaro
relatore Prof. Siciliano, Gabriele
relatore Ing. Tartarisco, Gennaro
Parole chiave
- condizioni isometriche
- elettromiografia di superficie
- fatica muscolare
Data inizio appello
27/09/2011
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
27/09/2051
Riassunto
Capitolo 2
Il muscolo scheletrico e la pedalata
2.1 Caratteristiche generali del muscolo scheletrico
Il movimento, generato dall’apparato neuromuscolare è forse la caratteristica che più distingue gli animali dai vegetali. Il muscolo consente all’uomo non solo di camminare e di muoversi, ma anche di parlare e scrivere, le forme più complesse ed evolute di comunicazione. L’uomo prende la decisione volontaria di parlare, camminare, stare in piedi o sedersi; i muscoli che attuano tali decisioni sono i muscoli scheletrici. Una cellula muscolare che agisce sullo scheletro per produrre movimento svolge un ruolo specifico che impone alla cellula gran parte delle sue stesse proprietà (Berne and Levy, Principi di Fisiologia). Inoltre, i muscoli scheletrici rappresentano circa il 40% del peso corporeo: sono quindi l’organo più grande con un significativo impatto su ogni forma di metabolismo.
2.1.1 Struttura della fibra muscolare striata
Ogni muscolo scheletrico è formato da un ventre muscolare, in cui si trovano le fibre, e due tendini connettivali con cui il muscolo si inserisce sulle ossa. Esternamente è avvolto da una guaina di connettivo fibroso, l’epimisio, che si addentra nel ventre muscolare avvolgendo fasci di fibre (perimisio) e singole fibre (endomisio).
Figura 2.1 Sezioni trasversali di piccole porzioni di muscolo che mostrano le relative dimensioni del tessuto connettivo
Ogni fascetto rivestito dal suo perimisio, può contenere fino ad un massimo di 150 fibre. I tre tipi di guaina servono a due funzioni:
• Alla fine del muscolo, la porzione contrattile dà gradualmente campo al tessuto connettivo che va a far parte del tendine che attacca il muscolo all’osso (figura 2.3). Questa connessione permette al muscolo di esercitare forza tensile.
Figura 2.2 Sezione trasversa di un muscolo scheletrico
• Il tessuto connettivo serve a legare le varie unità contrattili e raggrupparle, per integrare la loro azione. Esso, comunque consente una certa libertà di movimento tra le unità contrattili. Anche se ogni fibra e fascetto fanno parte di un sistema più complesso, hanno comunque la capacità di muoversi indipendentemente dalle unità vicine. Una disposizione che permetta un funzionamento indipendente delle fibre è importante per il funzionamento corretto del muscolo. L’attivazione di un’unità motoria, risulta quindi dalla contrazione di singole fibre muscolari appartenenti a differenti fascetti. Inoltre nel connettivo interposto tra le fibre muscolari decorrono vasi sanguigni e fibre nervose motorie e sensitive.
L’unità principale del muscolo scheletrico è la fibra muscolare; ogni fibra è circondata da una fitta rete di capillari che garantisce l’apporto di ossigeno e nutrienti e la rimozione di anidride carbonica e cataboliti. Le esigenze nutrizionali dei muscoli variano in funzione del livello di attività e, di conseguenza, diversi meccanismi a breve termine, come la vasodilatazione nei distretti attivi, o a lungo termine, come l’incremento del numero di capillari nei muscoli allenati, regolano la distribuzione del flusso sanguigno in base alle specifiche necessità metaboliche del tessuto muscolare.
In generale la fibra è lunga da pochi mm a molti cm e ha un diametro variabile (10-100 μm); è circondata da una membrana, il sarcolemma, che racchiude, oltre al sarcoplasma e alle altre componenti sarcoplasmatiche (nuclei, organelli sarcoplasmatici, granuli di glicogeno), le miofibrille, le quali costituiscono la componente contrattile del muscolo. Le miofibrille sono a loro volta costituite da miofilamenti più spessi e miofilamenti più sottili. La presenza dei due tipi di filamenti determina l’alternanza, lungo le miofibrille, di zone a diverso indice di rifrazione; la zona monorifrangente o banda I (isotropa) contiene solo i filamenti sottili, la zona birifrangente o banda A (anisotropa) contiene al contrario entrambi i tipi di filamenti; al centro della banda A è presente una zona otticamente meno densa (detta banda H), che contiene i soli filamenti spessi; al centro della banda H si può osservare una linea trasversale più scura denominata banda M. Al centro della banda I è presente una stria trasversale chiamata linea Z. La porzione di fibra compresa tra due linee Z successive prende i nome di sarcomero e rappresenta l’unità contrattile della fibra muscolare (Fig. 2). Nel sarcomero i filamenti si dispongono in modo regolare così che ogni filamento spesso risulta circondato da sei filamenti sottili. [1]
Fig 2.3: Rappresentazione del sarcomero: A) fotografia al microscopio elettronico (I:rilassato, II:contratto), B) rappresentazione schematica (tratto da Rosati-Colombo, I tessuti)
Fig. 2.4: Rappresentazione dell’organizzazione cellulare di una fibra muscolare scheletrica.
2.1.2 Modello meccanico del muscolo
Per studiare il muscolo e la sua funzione, può essere utile studiare i muscoli da un punto di vista fisico-matematico, utilizzando un modello meccanico che può essere così schematizzato:
Fig.2.5: Modello meccanico del muscolo
- CC = componente contrattile, data dal sarcomero;
- EEP = elementi elastici posti attorno alla componente contrattile e quindi in parallelo, costituiti dalle guaine fibrose dei fascicoli muscolari, dalle guaine delle fibre muscolari (sarcolemma) e dal connettivo tra le fibre (endomisio);
- EES = elementi elastici in serie, costituiti dai tendini, le linee zeta e i ponti di actomiosina.
Il muscolo rilassato, a riposo, è elastico: resiste, cioè, allo stiramento oltre la lunghezza di riposo. L’elasticità del muscolo, che dà luogo alla resistenza allo stiramento, è data dal tessuto connettivo che avvolge la componente contrattile, che, quindi, è in parallelo con essa. Quando il muscolo si contrae, prima che la tensione si possa manifestare nei tendini (EES), deve comparire nel tessuto connettivo (EEP).
Un muscolo di una data lunghezza è formato da numerose fibre muscolari poste in parallelo, cioè una di fianco all'altra, e ciascuna fibra è composta da numerose miofibrille, poste in parallelo e di lunghezza uguale a quella del muscolo. Ciascuna miofibrilla è formata da un certo numero di sarcomeri, di lunghezza uguale tra loro e posti uno di seguito all’altro, cioè in serie.
Quando una singola miofibrilla si contrae sviluppa una tensione uguale a quella unitaria di un singolo sarcomero. Il muscolo, contraendosi in toto, produce una forza complessiva data dalla somma delle forze sviluppate da ogni singolo elemento posto in parallelo. In definitiva, la forza prodotta da un muscolo con la contrazione, è proporzionale al numero di miofibrille poste in parallelo, cioè alla sua sezione trasversa.
L'accorciamento totale è dato dalla somma degli accorciamenti dei singoli sarcomeri, pertanto è proporzionale al numero di sarcomeri posti in serie, cioè alla sua lunghezza. Poiché ciascun sarcomero, contraendosi, si accorcia di 1 nel tempo t, la velocità di accorciamento della miofibrilla, e quindi del muscolo, è uguale alla velocità di accorciamento di un sarcomero, 1/t, moltiplicata per il numero di sarcomeri in serie: la velocità di accorciamento di un muscolo è proporzionale alla sua lunghezza.
Ci sono due componenti base per stabilire la relazione tra tensione e lunghezza:
• La componente attiva è la tensione muscolare prodotta dal processo contrattile.
• La componente passiva è la tensione prodotta dal tessuto connettivo che circonda le fibre muscolari.
La somma delle tensioni attiva e passiva è uguale alla tensione totale generata dalla contrazione del muscolo.
La lunghezza del muscolo ha un effetto su entrambe le tensioni. La figura 2.18 dimostra graficamente gli effetti delativi dei cambiamenti di lunghezza. La lunghezza a riposo di un muscolo è definita come il 100% della lunghezza di tale muscolo. La tensione passiva prodotta (curva 1) si incrementa monotonicamente rispetto alla lunghezza a riposo. La tensione attiva (curva 2) è massima a riposo e decresce sia con l’allungamento sia con l’accorciamento. La curva 3 è la somma di queste due componenti.
Figura 2.18 Relazione tra lunghezza e tensione di un muscolo. La curva 1 è la forza passiva; la curva 2 è la forza attiva; la curva 3 è la forza totale del muscolo (curva 1 + curva 2).
La massima tensione muscolare ottenibile in un range di movimento fisiologico è di circa 125% rispetto alla lunghezza a riposo. Questa lunghezza coincide con la lunghezza del muscolo quando la giuntura è in posizione di rilassamento.
Prima del 1966, gli studiosi non erano capaci di relazionare la tensione attiva alle caratteristiche del processo contrattile. Ora invece si sa che i cambiamenti di lunghezza coinvolgono l’interazione di actina e miosina. Nei muscoli accorciati, i filamenti di actina si sovrappongono in modo da diminuire i siti nei quali la miosina si può combinare con l’actina. Minore è il numero di questi siti e minore sarà la tensione sviluppata. Anche in un muscolo allungato ci sono pochi siti dove la miosina si può combinare con l’actina, quindi viene prodotta meno tensione. [2]
2.1.3 Tipi di fibre e proprietà contrattili
Il muscolo scheletrico si presenta come un tessuto eterogeneo: l’eterogeneità è una proprietà di tutti i muscoli, essenziale per la loro funzione. I muscoli scheletrici sono tenuti a rispondere ad un ampio range di richieste funzionali in ciascuna specie animale, spesso diverse in differenti specie animali. Tale flessibilità funzionale trova le sue basi: (1) in un potente e accurato controllo del sistema nervoso e (2) nella disponibilità in ciascun muscolo di numerosi tipi di fibre con distinti aspetti e compiti funzionali (resistenza alla fatica, velocità di contrazione etc.).
Tra i determinanti dei tipi di fibre il pattern di scarica neuronale ha un ruolo centrale; come conseguenza tutte le fibre di una unità motoria, ovvero tutte le fibre innervate dallo stesso motoneurone e riceventi lo stesso pattern di stimolazione, esibiscono lo stesso fenotipo, sono pertanto fibre dello stesso tipo.
La classificazione funzionale più semplice dei tipi di fibre si basa sui parametri seguenti:
• parametri di risposta contrattile, i quali sono determinati dalla composizione proteica delle miofibrille e del reticolo sarcoplasmatico. Le fibre muscolari si definiscono slow o fast sulla base della loro velocità di contrazione, la velocità cioè a cui sviluppano tensione durante la contrazione e a cui scompare durante il rilasciamento;
• l’abilità di sostenere il consumo energetico dovuto all’attività contrattile con adeguata produzione di ATP. Le fibre possono essere resistenti alla fatica o non resistenti sulla base della loro capacità di mantenere la performance contrattile durante ripetute stimolazioni.
Alla luce di questi due criteri si identificano tre tipi di miofibre:
1. S: slow e resistenti a fatica (fibre di tipo 1)
2. FR: fast e resistenti a fatica (fibre di tipo 2A)
3. FF: fast e non resistenti a fatica (fibre di tipo 2X).
Il tipo di fibre I (o SO) è caratterizzato da un colorito rosso per la ricchezza di mioglobina, piccolo diametro e da un’alta resistenza alla fatica. Queste fibre presentano un’alta concentrazione di mitocondri e necessitano di un’eccellente irrorazione sanguigna; inoltre si contraggono lentamente e hanno un metabolismo aerobico quasi esclusivo. Sono queste le fibre adibite alla contrazione muscolare.
Le fibre intermedie del tipo IIA (o FOG), sono caratterizzate da un colore pallido e da una considerevole capacità aerobica. Contengono una ragionevole concentrazione di mitocondri ed una sufficiente capillarità sanguigna, il che permette loro di resistere in attività che richiedono sforzo per un certo periodo di tempo.
Il tipo IIB (o FG) contraddistingue quelle fibre con un’alta capacità nella glicolisi anaerobia ed una bassa proprietà di metabolismo aerobio. Contengono una bassa concentrazione di mitocondri e di capillari, il che non permette una grossa resistenza alla fatica. Il compito di queste fibre, quindi, è probabilmente quello di coadiuvare le fibre del tipo I nel caso di attività che non si protraggono a lungo nel tempo.
I tipi di fibre IIA (FOG) e IIB (FG) vengono innervate da alfa motoneuroni con un’alte velocità di conduzione. Il tipo I (SO) è innervato anch’esso da motoneuroni di tipo alfa, ma con più basse velocità di conduzione. Lo stesso tipo di fibre si riuniscono per formare una U.M. omogenea. [2]
Figura 2.6: Fotomiografia di una sezione trasversa di un muscolo scheletrico colorata per evidenziare l’enzima succinico deidrogenasi, che risiede nei mitocondri. Sono riconoscibili tre categorie di fibre: piccole fibre rosse presenti in gran numero nei mitocondri, specialmente sulla loro periferia; bianche fibre larghe con pochi mitocondri; fibre con caratteristiche intermedie.
2.2 Meccanica muscolare
La meccanica del muscolo dipende dalla tensione generata nella contrazione e dai fattori che possono influire su tale livello di tensione. Di seguito si descriveranno alcuni dei fattori più importanti che possono influire sulla tensione muscolare, sotto gli aspetti meccanico e fisiologico.
La disposizione delle fibre di un muscolo servono per determinare la funzione di tale muscolo. Per capire la relazione tra struttura e funzione, bisogna porre due ipotesi:
1. Una fibra muscolare può accorciarsi fino a circa il 60% della sua lunghezza a riposo.
2. La forza che un muscolo è capace di generare è direttamente proporzionale alla fisiologia della sua sezione trasversale.
Le fibre ed i fascetti muscolari possono essere organizzati in modo parallelo oppure inclinato rispetto all’asse di un muscolo. Se i fascetti sono paralleli all’asse, il muscolo presenta una piena capacità di accorciamento (ripetizione???). Visto che il massimo accorciamento di un muscolo è proporzionale alla lunghezza delle fibre che lo compongono (e cioè dal numero dei sarcomeri messi in serie), i muscoli con questo tipo di struttura si trovano sulle giunture con grandi possibilità di movimento. Esempi di questo tipo di muscoli sono i muscoli fusiformi ed i muscoli sottoiodei (figura 2.?? A e B).
Quando due o tre ventri di altrettanti muscoli si attaccano allo stesso tendine, il muscolo così costituito si chiama bicipite o tricipite (figura 2.?? C e D). Esempi di muscoli di questo tipo sono il bicipite ed il tricipite brachiale. Le caratteristiche dei muscoli bicipiti sono le stesse dei muscoli fusiformi. I muscoli triangolari (esempio il gluteo medio) hanno fascetti che si connettono allo stesso tendine da una parte e che si aprono a ventaglio dall’altra. Le loro caratteristiche sono anch’esse simili a quelle dei muscoli fusiformi.
I muscoli con i fascetti disposti in modo obliquo alla direzione dell’asse, ricordano una penna; per questo motivo vengono chiamati muscoli penniformi. Un muscolo unipennato ricorda una metà di una penna (figura 2.?? E). Esempi di questo tipo di muscolo sono il flessore del pollice ed il semimembranoso. I muscoli bipennati ricordano una singola penna (figura 2.?? F). Il retto femorale ed il dorsale interosseo sono esempi della disposizione delle fibre in un muscolo bipennato. Un muscolo multipennato come il deltoide è un muscolo costituito da vari muscoli bipennati attaccati a molti tendini intermuscolari (figura 2.??G).
Visto che la lunghezza delle fibre muscolari e la direzione di trazione determinano il grado di movimento di un muscolo, il tipo fusiforme produce un movimento più ampio rispetto ad un muscolo pennato. La forza che un muscolo può generare, comunque, è direttamente proporzionale alla sua sezione trasversale. La tipologia di muscoli pennati presenta più fibre per unità di area rispetto ai fusiformi, quindi, i muscoli pennati generano più forza rispetto ai fusiformi. I muscoli fusiformi, quindi hanno un maggior grado di movimento , mentre i muscoli pennati forniscono più forza, ma hanno un minor range di movimento.
Figura 2.7: Illustrazione delle varie forme e delle varie strutture delle fibre muscolari.
Fig. 2.8: Nello schema sono mostrati due tipi di disposizione delle fibre muscolari sia a riposo che in contrazione. (A) Disposizione delle fibre pennate a riposo. I tendini sono rappresentati dalle linee di prolungamento dei due lati del parallelogramma. (B) Lo stesso muscolo al massimo accorciamento. Le fibre muscolari si sono accorciate di un terzo della loro lunghezza di riposo lungo il loro asse come indicato dalla freccia sottile. Il muscolo in toto si accorcia meno (freccia spessa) di quanto si accorciano le singole fibre che lo compongono. tale differenza dipende dall'angolo tra le direzioni di accorciamento delle fibre e quella del muscolo. (C) Fibre di un muscolo fusiforme a riposo. Le linee che si irradiano dalla base del rettangolo e si portano ad un punto rappresentano i tendini. (D) Lo stesso muscolo al massimo accorciamento. Le fibre muscolari e il muscolo in toto si sono accorciati di un terzo in quanto direzione di trazione sui tendini e direzione di accorciamento delle fibre coincidono. Così benché le fibre in A e in C abbiano uguale lunghezza, l'accorciamento in B è minore di quello in D.
2.3 La contrazione muscolare
2.3.1 L’Unità Motoria e il potenziale di membrana a riposo
L'unità funzionale del muscolo è l'unità motoria (UM): è l'insieme del motoneurone e delle fibre muscolari che esso innerva. Le fibre muscolari di una unità motoria hanno nel muscolo una disposizione casuale, non contigua, sono, cioè, frammiste a mosaico con fibre muscolari appartenenti ad altre unità motorie.
Le unità motorie variano molto per quanto riguarda il numero di fibre muscolari: vi sono UM con 10 - 20 fibre muscolari, altre con più di 2000 e ciò influenza la forza generata dall'attività motoria stessa. Generalmente i muscoli preposti al controllo dei movimenti più fini hanno un basso numero di fibre muscolari per unità motoria; invece, i muscoli preposti a movimenti più grossolani sono usualmente caratterizzati da un elevato numero di fibre muscolari per unità motoria.
Fig. 2.9: Singola unità motoria
I motoneuroni hanno dimensioni diverse: quelli che innervano le unità motorie composte da fibre muscolari a contrazione rapida sono più grandi di quelli delle unità motorie composte da fibre muscolari a contrazione lenta. Il potenziale post-sinaptico eccitatorio ha un'intensità inversamente proporzionale alla grandezza del soma del motoneurone.
I motoneuroni delle UM di tipo lento raggiungono prima la soglia di eccitabilità. Dato che la tensione sviluppata da ogni singola fibra muscolare è direttamente proporzionale all'area della sua sezione trasversa, la stimolazione di una unità motoria di tipo veloce, a parità di numero di fibre muscolari, comporta lo sviluppo di una forza maggiore di quella prodotta dalle UM di tipo lento. Il punto di innesto o terminazione della fibra nervosa motrice è detto placca motrice o sinapsi neuromuscolare.
La placca motrice è composta da due componenti: una pertinente alla cellula muscolare, l'altra alla fibra nervosa. La componente muscolare risulta di piccole invaginazioni del sarcolemma, dette fessure sinaptiche secondarie. La componente spettante alla fibra nervosa è costituita dalla porzione terminale dell’assone e ramificata nelle fessure sinaptiche primarie. La giunzione neuromuscolare ha dunque l'architettura generale di una comune sinapsi, con l'assolemma come membrana presinaptica, il sarcolemma come membrana postsinaptica e lo spazio intersinaptico contenente materiale glicoproteico. E’nell’assoplasma presinaptico che sono presenti le vescicole, contenenti nel caso specifico acetilcolina [3].
Fig 2.10: Schema dell’unità motoria innervazione.
Come già accennato precedentemente, ogni fibra muscolare è avvolta dal sarcolemma. Si tratta di una sottile membrana semipermeabile, composta da un doppio strato di lipidi, che presenta canali grazie ai quali alcuni tipi di ioni possono muoversi tra i fluidi intracellulare ed extracellulare. Le composizioni di questi fluidi sono differenti (vedi tabella 2.1); il fluido intracellulare presenta un’alta concentrazione di ioni potassio (K+) ed anioni organici (A-); i primi sono sufficientemente piccoli da passare attraverso i canali di membrana, invece gli anioni organici sono troppo larghi per fluire attraverso la membrana.
Il fluido extracellulare (o interstiziale) ha invece un’alta concentrazione di ioni sodio (Na+) e cloro (Cl-). Gli ioni Cl- sono anch’essi sufficientemente piccoli da passare attraverso la membrana, mentre gli ioni Na+ sono leggermente più larghi e quindi incontrano difficoltà a penetrare.
Tabella 2.1 Concentrazioni ioniche intracellulari ed extracellulari per un muscolo mammifero (mEQ/L)
Per comprendere il potenziale di membrana a riposo, si consideri per un momento che non ci sia differenza di potenziale tra i fluidi intracellulare ed extracellulare (figura 2.11). A causa dell’alta concentrazione di ioni K+ all’interno della cellula rispetto all’esterno, questi ioni diffondono attraverso la membrana cellulare nel fluido extracellulare. Gli ioni organici sono invece troppo larghi per diffondere nell’ambiente esterno direttamente attraverso la membrana. Gli ioni Na+ non si possono portare all’interno della cellula in sufficiente numero per rimpiazzare gli ioni potassio. Quindi si manifesta una differenza di potenziale tra i due lati della membrana. La carica positiva che si sviluppa all’esterno della membrana fa calare la diffusione degli ioni K+ dall’interno all’esterno della cellula. Gli ioni Cl- si comportano in maniera simile e rimangono in equilibrio grazie a questa interazione tra il loro gradiente di concentrazione e la loro carica elettrica.
Gli effetti principali del movimento degli ioni K+ e Cl- è la creazione di una carica positiva all’esterno della membrana e di una carica negativa al suo interno. Visto che cariche di uguale segno si respingono, la carica positiva all’esterno della membrana in combinazione con l’alto gradiente di concentrazione degli ioni Na+ porta questi ioni all’interno della cellula. Se questo flusso dovesse persistere, l’interno della cellula diverrebbe più positivo rispetto all’esterno. Il potenziale di membrana, quindi, è mantenuto costante da un trasporto ionico attivo chiamato pompa sodio-potassio. Questo sistema-pompa usa energia per trasportare attivamente ioni Na+ dall’interno all’esterno della cellula ed in misura minore, per pompare ioni K+ all’interno della stessa.
L’effetto dei gradienti di concentrazione, la differenza di potenziale attraverso la membrana ed il sistema del trasporto attivo, danno come esito il mantenimento di una differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno della membrana quando la fibra muscolare è a riposo. Questa differenza è chiamata potenziale di membrana a riposo e misura circa -80 mV all’interno rispetto all’esterno (figura 2.12). In un sistema neuromuscolare sano, questa cellula muscolare polarizzata rimane in equilibrio finché non viene sconvolta da uno stimolo esterno o interno.
Figura 2.11: Gradienti di concentrazione ionica. Gli ioni K+ ed A- sono maggiormente presenti nel liquido intracellulare, quelli Na+ e Cl- all'esterno della cellula, nel liquido interstiziale.
Figura 2.12: Il potenziale intracellulare a riposo può essere misurato inserendo un elettrodo all’interno della cellula ed uno sulla membrana e connettendoli ad un voltmetro. La cellula è immersa in una appropriata soluzione salina. La differenza di potenziale tra interno ed esterno è di -80 mV.
2.3.4 Potenziale d’azione della fibra muscolare
Diversi eventi devono succedere al fine di una contrazione della fibra muscolare. L’attività del sistema nervoso centrale promuove una depolarizzazione nel motoneurone. Questa depolarizzazione viene condotta lungo il motoneurone fino alla placca neuromuscolare ed in questa zona, l’acetilcolina viene rilasciata e lasciata diffondere attraverso la sinapsi, causando una rapida depolarizzazione della fibra muscolare sotto la placca. Questa veloce e conseguenziale depolarizzazione della fibra muscolare non è altro che un potenziale d’azione.
La stimolazione della fibra muscolare causa un incremento nella membrana in tale fibra della permeabilità agli ioni Na+. L’incremento della permeabilità al Na+ ed il gradiente di concentrazione ionico, causano un improvviso flusso del Na+ all’interno della cellula muscolare (figura 2.13). Questa rapida depolarizzazione della fibra muscolare continua finché la fibra non inverte la propria polarità fino a raggiungere circa i +20 mV all’interno rispetto all’esterno. Vicino al picco di polarità inversa, il decremento del flusso del Na+ all’interno della cellula ed il crescente efflusso del K+ causano una rapida ripolarizzazione della fibra.
Figura 2.13: Variazione della permeabilità agli ioni Na+ e K+ nel corso di un potenziale d'azione.
Quando avviene la depolarizzazione della membrana sotto la placca neuromuscolare, si stabilisce una differenza di potenziale tra la regione attiva e le regioni adiacenti inattive della fibra (figura 2.14). Una corrente ionica perciò, inizia a scorrere tra le zone inattive ed attive e questo flusso di corrente decrementa il potenziale di membrana delle regioni inattive al punto che la permeabilità di membrana rispetto al Na+ di queste zone incrementa bruscamente, causando quindi il potenziale d‘azione. In questo modo, il potenziale d’azione si propaga dalla zona attiva iniziale in entrambe le direzioni lungo la fibra muscolare.
Figura 2.14 Propagazione del potenziale d’azione in entrambe le direzioni lungo la fibra conduttiva.
Il potenziale d’azione si propaga lungo il sarcolemma e all’interno della fibra muscolare attraverso i tuboli trasversi. In risposta a questo potenziale, il reticolo sarcoplasmatico rilascia il calcio immagazzinato. Il calcio si lega alla troponina, alterando la posizione della tropomiosina ed in questo modo si liberano i siti attivi dell’actina, permettendo quindi che la contrazione muscolare abbia luogo [2].
o Lo scivolamento dei miofilamenti
La meccanica della contrazione muscolare diviene più chiara se si comprende bene la successione nel tempo delle varie fasi che la caratterizzano.
La stimolazione del nervo motorio, seguita da un periodo latente di circa 2 msec prima che inizi la depolarìzzazione del sarcolemma, viene trasmessa alla fibra muscolare a livello della placca motrice.
Fig. 2.15: schematizzazione dello scivolamento dei miofilamenti
Lo stimolo nervoso, arrivato alla parte terminale presinaptica del nervo, libera quanti di acetilcolina (ACH) che si diffondono attraverso lo spazio sinaptico. Questa fase "chimica" della trasmissione neuromuscolare dura 0.3 - 0.5 msec.; segue la depolarizzazione della zona postsinaptica motoria. Da qui la depolarizzazione si propaga lungo tutta la fibra muscolare e dà origine alla risposta contrattile. Dopo la depolarizzazione il sarcolemma si ripolarizza gradualmente tornando alla situazione di riposo in 5 - 10 msec., molto prima che sia raggiunto il picco di tensione della contrazione muscolare.
Nella figura 2.16 viene rappresentato il muscolo striato in sezioni successive, partendo, cioè, dall’intero muscolo e schematizzando con ingrandimenti graduali le varie componenti fino ai neurofilarnenti di miosina (al centro) e actina (ai lati).
L’accorciamento della fibra muscolare con generazione di forza contrattile è il risultato di uno scivolamento tra loro dei due sets di filamenti di ciascuna metà del sarcomero. Lo scivolamento avviene per un processo ciclico: durante la contrazione ciascun ponte trasversale di miosina si attacca alle molecole di actina del filamento sottile adiacente ed esercita forza fino a quando si distacca, dopo aver tirato un po’il filamento sottile verso il centro del sarcomero; inizia quindi un nuovo ciclo.
Fig. 2.16: schematizzazione della contrazione del sarcomero
L’effetto di questi scivolamenti ripetuti conseguenti al ciclico attaccarsi e distaccarsi dei ponti trasversali di actina e miosina è il completo accorciamento del sarcomero (fig.2.17) [3].
Fig. 2.17: completo accorciamento del sarcomero
o Scarica e reclutamento dei motoneuroni
L’uomo è in grado di performare i lavori motori muscolari in modo da riuscire a compiere una vasta gamma di livelli di forza. Questi livelli di forza spaziano da quelli richiesti per i movimenti precisi e delicati a quelli necessari per attività fisiche pesanti. Il muscolo è capace di aggiustare la sua tensione di uscita in risposta alle richieste dei vari compiti grazie a due meccanismi fisiologici principali:
1. reclutamento di nuove U.M.;
2. velocità di codifica.
Il reclutamento avviene quando le U.M. inattive vengono attivate in base alla richiesta di maggior potenza per il muscolo. La velocità di codifica è definita come un incremento della frequenza di scarica delle U.M. quando è richiesto uno sforzo maggiore.
La stimolazione della fibra muscolare, poco dopo che è stata evocata una precedente contrazione, dà luogo ad una seconda risposta contrattile che si somma alla precedente. Se, infatti, il secondo stimolo arriva alla fibra muscolare prima che la tensione del primo sia decaduta, la seconda contrazione si sommerà alla prima, dando luogo ad un significativo aumento del picco di tensione (per tempo di contrazione si intende l'intervallo di tempo che intercorre tra l’attivazione della fibra muscolare e il raggiungimento durante la contrazione del picco di tensione).
Fig. 2.18: Tempo di contrazione di 3 muscoli : il retto interno dell’occhio a contrazione rapida, il soleo a contrazione lenta e il gastrocnemio che ha un tempo di picco intermedio (le barre nere che precedono il nome del muscolo indicano la durata del tempo di picco)
Se una fibra muscolare viene stimolata ripetutamente a brevi intervalli di tempo ne risulterà una fusione delle singole scosse, fino a formare una contrazione continua detta ”tetano muscolare”, di gran lunga maggiore di quella della singola scossa. La tensione del tetano può essere mantenuta ad un livello costante fino a che continua la stimolazione o il muscolo non si affatica. Le fibre muscolari lente dei muscoli rossi richiedono 20 stimoli al secondo per formare il tetano, mentre quelle rapide dei muscoli bianchi da 60 a 100 stimoli al secondo.
Per comprendere l'adattabilità delle fibre muscolari nelle varie situazioni di esercizio occorre considerare il funzionamento del motoneurone.
Ci sono motoneuroni a bassa e ad alta frequenza di scarica. I primi controllano le LTM formate da fibre muscolari a contrazione lenta, i secondi quelle con fibre a contrazione rapida. La frequenza di scarica ottimale del motoneurone è quella minima utile perché le singole scosse muscolari si fondano a formare una contrazione tetanica. La frequenza tetanizzante è intorno ai 20 Hz per le UM di tipo lento e sopra i 50 Hz per quelle di tipo rapido. L'ordine di reclutamento dei motoneuroni risponde al principio della grandezza: minore è il loro diametro e più facile risulta la loro attivazione (più bassa soglia di attivazione).
Le fibre muscolari di tipo lento sono innervate da motoneuroni più piccoli e sono le prime ad essere attivate nel movimento volontario.
Durante le normali attività i motoneuroni più piccoli, a più bassa soglia, scaricano a bassa frequenza per lunghi periodi di tempo, mentre i motoneuroni a più alta soglia, innervanti le fibre di tipo veloce, vengono attivati solo occasionalmente in brevi scariche ad alta frequenza.
Nel caso di esercizi di lunga durata ad intensità massimale (allenamenti di resistenza) tutti i motoneuroni scaricano a frequenza moderata, ma appena l'impegno cessa di essere massimale, i motoneuroni a soglia più elevata smettono di scaricare. Al contrario, durante l'esercizio ad impegno massimo ma di breve durata (allenamenti di forza) tutti i motoneuroni scaricano per lunghe sequenze ad alta frequenza. La scarica sincrona di diverse UM produce tensione massimale, mentre quella asincrona è associata ad un prolungamento massimo della contrazione (resistenza) [3].
Ci sono molte discussioni riguardo al ruolo che il reclutamento e la velocità di codifica hanno nella determinazione della tensione in uscita di un muscolo. Alcuni studiosi pensano che sia più importante il reclutamento, mentre altri ritengono che la velocità di codifica sia determinante in questi meccanismi [2].
2.4 La pedalata
2.4.1 Catene cinematiche aperte e chiuse
I termini di "catena muscolare" e "catena cinetica" sono comuni tra fisiatri, fisioterapisti e cinesiologi ma sempre più frequentemente si usano anche nel linguaggio dello sport perché meglio di altri aiutano a descrivere i complessi fenomeni biomeccanici che sono alla base dell'esecuzione del gesto atletico.
La fisica enuncia che una catena cinetica è un sistema composto da segmenti rigidi uniti tramite giunzioni mobili definite snodi. Il nostro organismo è composto da tante catene cinetiche, i segmenti sono rappresentati dalle ossa mentre le articolazioni rappresentano i giunti. I muscoli sono il "motore" della catena cinetica.
Questa definizione di tipo ingegneristico, però, non è applicabile completamente nella fisiologia del movimento umano perché l'apparato muscolare non può essere paragonato ad un sistema meccanico rigido, ma è da considerare come flessibile e plastico. Nel sistema cinematico è infatti possibile, ad esempio, ricavare le velocità relative di tutti gli elementi del sistema dopo aver fissato la velocità relativa di un elemento rispetto ad un altro qualsiasi. Ciò non è possibile per i muscoli; e non è possibile neppure ricavare e scomporre con precisione le forze dei vari anelli muscolari (cinetica).
Malgrado queste diversità e con le relative approssimazioni, lo studio delle catene "cinetiche muscolari" risulta molto utile nella interpretazione del movimento sportivo e può avere interessanti ripercussioni anche in ambito clinico.
Per descrivere le catene cinetiche è necessario utilizzare due termini convenzionali:
- prossimale = vicino al centro o alla linea mediana del corpo
- distale = lontano dal centro o dalla linea mediana del corpo (contrario di prossimale)
Per catena cinetica muscolare aperta s'intende il sistema in cui l'estremità distale (quindi più lontana) è libera, priva di alcun vincolo. Esempi sono l'arto inferiore durante la deambulazione nella fase oscillante, l'estensione della gamba in posizione seduta, muovere il braccio nel gesticolare o nel lanciare un oggetto e così via.
In una catena cinematica chiusa invece l'estremità distale è fissa, ossia non libera di muoversi durante l'esecuzione del gesto. Esempi sono l'arto inferiore nella deambulazione nella fase di appoggio del piede, gli arti superiori che spingono contro una parete o gli arti inferiori in un individuo che solleva un peso da terra.
Inoltre quando la resistenza esterna distale di una catena cinetica è inferiore al 15% della resistenza massimale che essa riesce a spostare, si può ritenere la catena aperta (o poco frenata), se invece tale resistenza supera il 15% la catena è chiusa (o molto frenata). Si crea, in questo caso, una condizione che limita l'apparato locomotore nella sua libertà di movimento.
Il gesto sportivo si articola, generalmente, attraverso l'uso alternato di catene cinetiche aperte e chiuse. L'esempio più classico è la corsa nella quale, come detto in precedenza, l'arto inferiore lavora a catena chiusa nella fase di appoggio e aperta nella fase di slancio, mentre l'arto superiore, oscillando, opera costantemente in catena aperta.
Alcuni sport, tuttavia sono caratterizzati da movimenti che avvengono prevalentemente a catena chiusa. Tra questi possiamo citare il canottaggio ma, in particolare, il ciclismo che vincola l'atleta rigidamente al mezzo meccanico su due punti fissi, sella e manubrio, ed un punto mobile rappresentato dal pedale che presenta una resistenza al movimento generalmente superiore al 15% del massimale (catena frenata).
2.4.1.1 Biomeccanica delle catene cinematiche
Per la realizzazione dei movimenti balistici (come il lancio di una palla) sono necessarie le catene aperte o poco frenate, che si realizzano con il progressivo aumento della velocità man mano che si scende verso l'anello distale (mano).
È necessario, inoltre, il fissaggio del segmento prossimale attraverso il coinvolgimento di muscoli stabilizzanti. Altra caratteristica delle catene aperte è che l'ordine d'attivazione muscolare avviene in senso prossimo distale ossia dal centro alla periferia.
La biomeccanica delle catene cinetiche chiuse va considerata in senso opposto a quelle aperte, dove l'estremità distale è rappresentata dall'articolazione stabilizzante, e la direzione dell'attivazione muscolare avviene in senso caudoprossimale (dalla periferia al centro). Per anello stabilizzante nella catena cinetica chiusa, si intende l'articolazione che, grazie ai suoi muscoli fissatori, solidarizza l'arto alla resistenza esterna. Nel ciclismo i muscoli attivati per stabilizzare il movimento sono quelli che agiscono sui punti di vincolo fisso (impugnatura del manubrio e sella) ossia quelli dell'arto superiore e del tronco.
Una conseguenza biomeccanica rilevante tra i due tipi di catene è che la funzione cinesiologica di uno stesso muscolo può variare, anche diventando opposta, a seconda che questo sia inserito in una catena cinetica aperta o chiusa.
Un fenomeno di questo tipo avviene nel ciclismo come evidenziato nella figura 1. La fase di estensione dell'arto inferiore, che coincide con la fase di spinta sul pedale, è caratterizzata infatti dall'intervento apparentemente paradossale dei muscoli flessori (bicipite femorale, semimembranoso, ecc.) oltre che dall'azione di gluteo, retto femorale, vasti ecc.
Fig. 2.19: range angolare di attivazione dei singoli muscoli dell’arto inferiore nel movimento della pedalata (da Jorge et Hull, 1985); Legenda: 1 = Grande Gluteo 2 = Retto Femorale 3 = Vasto mediale 4= Vasto Laterale 5 = Tibiale Anteriore 6 = Gasrocnemio 7 = Bicipite femorale 8=Semimembranoso
Come in tutte le catene cinetiche chiuse, il sistema muscolo-scheletrico è costretto a lavorare in una posizione rigidamente costretta da precisi punti di vincolo posizionati in maniera simmetrica nello spazio. L'organismo non dispone sempre della necessaria possibilità di modificare la postura per adattarsi al mezzo come avviene facilmente nel movimento a catena aperta.
Gli sport a catena chiusa però non presentano solamente aspetti negativi. L'essere rigidamente vincolati al mezzo meccanico consente, innanzitutto, di poter agire sullo stesso per ottimizzare confort e prestazione [4].
2.4.2 Biomeccanica della pedalata
La corretta posizione sulla bici è un fattore determinante per poter sviluppare il massimo dell’efficienza senza dispersioni di energia e nella posizione più confortevole possibile. La ricerca della posizione ottimale è utile sia per i ciclisti più esperti che per i principianti e deve soddisfare due principi soggettivi che vanno messi in correlazione e mediati: comfort e giusta biomeccanica. Il primo principio serve per riuscire a mantenere la posizione il più a lungo possibile,il secondo è necessario per poter esprimere al meglio le proprie potenzialità.
L’assetto che si assume in bicicletta è vincolato a dei punti particolari:gli appoggi. I punti di contatto fra il corpo e la bicicletta, quali sella-bacino, piedi-pedali, mani-manubrio descrivono un triangolo la cui lunghezza dei lati è caratteristica per ogni individuo; proprio questo aspetto legato agli appoggi fa della pedalata una azione motoria a catena cinetica chiusa.
Gli spetti biomeccanici fondamentali sono caratterizzati da:
- giusto posizionamento delle tacchette;
- giusta distanza tra i pedali;
- altezza della sella;
- arretramento della sella;
- distanza sella-manubrio.
Effettuando una analisi cinematica dell’atleta che va in bici possiamo analizzare diversi elementi biomeccanici su diversi piani:
• Piano sagittale: angoli di flesso-estensione di spalla, busto, anca, ginocchio e caviglia;
• Piano frontale-dorsale: l’adduzione/abduzione del ginocchio e la prono-supinazione del piede;
• Piano trasverso: la rotazione di busto e bacino [5].
2.4.2.1 Le fasi
Come già accennato, la pedalata è un gesto tecnico che necessita di una perfetta coordinazione.
Un ciclo di pedalata corrisponde a una rotazione completa della pedivella (360 gradi), che si compone di quattro fasi:
1. la spinta;
2. il punto morto inferiore;
3. la trazione;
4. il punto morto superiore.
E’ opportuno esercitare una forza in ognuno dei momenti del ciclo di rotazione ed articolare queste fasi tra di loro per effettuare una pedalata armoniosa e senza strappi. Questo movimento è noto come “Pedalata Rotonda”.
Il movimento deve essere circolare, sciolto e continuo, il piede deve esercitare una pressione costante sui pedali e la caviglia deve agire come un’asse di rotazione. Durante la fase di trazione, alzando le ginocchia, bisogna controllare che piede, ginocchio e anca restino perfettamente in linea.
Con una buona tecnica di pedalata, si distribuisce lo sforzo all’interno di tutte le masse muscolari degli arti inferiori. La fase discendente (spinta) sollecita i muscoli estensori (quadricipite femorale), mentre il sollevamento del pedale opposto (trazione) sollecita i muscoli flessori (bicipite femorale). E’ cosi che i muscoli tendono a contrarsi in modo meno intenso nel corso della stessa pedalata, si stancano meno e possono lavorare più a lungo.
Analizzando in dettaglio:
• Fase di spinta o di pressione: la gamba esercita una pressione dall’alto verso il basso grazie all’estensione del quadricipite (vasto laterale e vasto mediale) e dei muscoli del polpaccio (soleo e gastrocnemio); per ottimizzare questa fase, è necessario mantenere il piede più orizzontale possibile.
• Punto morto inferiore: fase di transizione, pedaliera in verticale e piede in basso rendono impossibile ogni movimento di spinta. Si deve tirare all’indietro flettendo il ginocchio.
• Fase di trazione: la gamba viene tirata vero l’alto: la leva del ginocchio spinge il tallone. Si alleggerisce anche il peso della gamba, apportando un sostegno al lavoro dell’altra gamba che si trova in fase di spinta.
• Punto morto superiore: questa fase implica la realizzazione di una “frustata” del piede, che consiste nel proiettare la punta del piede in avanti, abbassando il tallone. Questo movimento richiede una grande elasticità della caviglia.
Più il ritmo della pedalata è lento, più diventa difficile il superamento dei punti morti: la perdita di energia in questi punti non permette di completare il ciclo di pedalata e obbliga a un lavoro di forza nella fase di spinta. Questo porta ad adattare la posizione in piedi a movimento alternato (peso del corpo su un pedale e poi sull’altro).
Un elemento fondamentale da tenere in considerazione ai fini del rendimento è la direzione della forza impressa sul pedale: la forza deve essere applicata perpendicolarmente alla pedivella. Pertanto, all’inizio della fase di spinta, cioè dopo il PMS, il piede deve essere in una posizione di flessione, mentre nel proseguire della spinta, avrà inizio la fase di estensione, con lavoro dei muscoli del polpaccio.
Nella fase di trazione, ovvero dopo il PMI, il piede accentuerà l’estensione fino a presentarsi, in prossimità del PMS, nella massima estensione; ciò per favorire il superamento del PMS. Infatti, con una repentina azione di flessione del piede (abbassamento del tallone) la gamba si troverà nelle migliori condizioni per iniziare una nuova fase di spinta.
L’azione ciclica e perfettamente ripetitiva della pedalata è determinata da un mezzo, perfettamente simmetrico, che costringe ad eseguire movimenti caratterizzati dal ripetersi di medesime traiettorie ed escursioni angolari. Nella dinamica della pedalata, al piede spetta una funzione molto importante: trasmettere la forza esercitata dalle catene muscolari dell’arto inferiore (muscoli della coscia e della gamba) al pedale.
L’azione di trasferimento dell’energia meccanica al pedale avviene attraverso una ristretta area del piede: l’avampiede. La maggior parte della spinta è concentrata in una piccola zona corrispondente alle cinque teste metatarsali (arco anteriore traverso) ed a parte dell’alluce. La linea passante per le teste metatarsali dovrà essere il più possibile allineata all’asse del pedale, perché solo in questa posizione il piede è in equilibrio e non disperde energie per mantenersi in tale condizione. Ogni piccolo errore di posizionamento determina, infatti, perdita di parte dell’energia meccanica che deve essere trasferita alla pedivella e un lavoro supplementare da parte della muscolatura per stabilizzare l’articolazione [6].
2.4.2.2 I muscoli coinvolti nella pedalata
E' inevitabile che la pedalata coinvolga quasi se non tutti i muscoli della gamba, ma la cosa che rende questa analisi veramente complessa è il fatto che bisogna suddividere la pedalata per valutare quali muscoli vengono azionati. Per una corretta valutazione di quanto appena detto è necessario considerare 6 istanti differenti, che approssimativamente possiamo collocare nel modo seguente:
1. Il piede risulta essere leggermente inclinato in avanti per facilitare la successiva spinta. Vengono azionati i muscoli estensori del piede, ovvero soleo e gastrocnemio, coadiuvati dall'azione degli estensori della gamba (vasto laterale e vasto mediale), questi muscoli contraendosi spingono il piede verso il basso.
2. Il piede diventa quasi orizzontale all'asfalto e continua la spinta di quadricipite e tricipite della sura. Si contraggono anche i muscoli estensori della coscia, pilotati dal grande gluteo. Questa è la fase in cui si riesce ad imprimere la massima pressione sulla pedivella (fase di massima propulsione).
3. A questo punto, superati i primi 90° di movimento, intervengono anche i muscoli flessori della gamba, ovvero: bicipite femorale, sartorio e popliteo, inoltre si contraggono i muscoli della coscia (ileopsoas e retto femorale) che consentono un più facile richiamo della gamba verso la coscia, flettendo il femore.
4. In questa fase della pedalata la gamba si trova in una posizione sfavorevole per dare una buona spinta e il piede si trova quasi sul punto di massima flessione. In questa fase è proprio il piede a svolgere una delle fasi più importanti, i muscoli estensori del piede e flessori dell'alluce e della pianta lavorano per abbassare ulteriormente la punta del piede e per tirarlo indietro. Ovviamente vi è il contributo dei flessori della gamba e della coscia.
5. E' stato superato il punto morto inferiore e si inizia a tirare il pedale verso l'alto. Dall'altro lato la pedalata entra nella fase di massima trazione e quindi contribuisce al movimento di tiro controlaterale. In questa fase è rilevante il movimento dei muscoli flessori del piede che tendono ad abbassare il tallone.
6. Siamo quasi arrivata a compiere una pedalata completa e il piede sta tornando al punto morto superiore. In questa fase il recupero del pedale è consentito dall'azione simultanea dei flessori della coscia (ileopsoas e retto femorale) e dei muscoli flessori del piede (tibiale anteriore e flessore dell'alluce) [7].
Il muscolo scheletrico e la pedalata
2.1 Caratteristiche generali del muscolo scheletrico
Il movimento, generato dall’apparato neuromuscolare è forse la caratteristica che più distingue gli animali dai vegetali. Il muscolo consente all’uomo non solo di camminare e di muoversi, ma anche di parlare e scrivere, le forme più complesse ed evolute di comunicazione. L’uomo prende la decisione volontaria di parlare, camminare, stare in piedi o sedersi; i muscoli che attuano tali decisioni sono i muscoli scheletrici. Una cellula muscolare che agisce sullo scheletro per produrre movimento svolge un ruolo specifico che impone alla cellula gran parte delle sue stesse proprietà (Berne and Levy, Principi di Fisiologia). Inoltre, i muscoli scheletrici rappresentano circa il 40% del peso corporeo: sono quindi l’organo più grande con un significativo impatto su ogni forma di metabolismo.
2.1.1 Struttura della fibra muscolare striata
Ogni muscolo scheletrico è formato da un ventre muscolare, in cui si trovano le fibre, e due tendini connettivali con cui il muscolo si inserisce sulle ossa. Esternamente è avvolto da una guaina di connettivo fibroso, l’epimisio, che si addentra nel ventre muscolare avvolgendo fasci di fibre (perimisio) e singole fibre (endomisio).
Figura 2.1 Sezioni trasversali di piccole porzioni di muscolo che mostrano le relative dimensioni del tessuto connettivo
Ogni fascetto rivestito dal suo perimisio, può contenere fino ad un massimo di 150 fibre. I tre tipi di guaina servono a due funzioni:
• Alla fine del muscolo, la porzione contrattile dà gradualmente campo al tessuto connettivo che va a far parte del tendine che attacca il muscolo all’osso (figura 2.3). Questa connessione permette al muscolo di esercitare forza tensile.
Figura 2.2 Sezione trasversa di un muscolo scheletrico
• Il tessuto connettivo serve a legare le varie unità contrattili e raggrupparle, per integrare la loro azione. Esso, comunque consente una certa libertà di movimento tra le unità contrattili. Anche se ogni fibra e fascetto fanno parte di un sistema più complesso, hanno comunque la capacità di muoversi indipendentemente dalle unità vicine. Una disposizione che permetta un funzionamento indipendente delle fibre è importante per il funzionamento corretto del muscolo. L’attivazione di un’unità motoria, risulta quindi dalla contrazione di singole fibre muscolari appartenenti a differenti fascetti. Inoltre nel connettivo interposto tra le fibre muscolari decorrono vasi sanguigni e fibre nervose motorie e sensitive.
L’unità principale del muscolo scheletrico è la fibra muscolare; ogni fibra è circondata da una fitta rete di capillari che garantisce l’apporto di ossigeno e nutrienti e la rimozione di anidride carbonica e cataboliti. Le esigenze nutrizionali dei muscoli variano in funzione del livello di attività e, di conseguenza, diversi meccanismi a breve termine, come la vasodilatazione nei distretti attivi, o a lungo termine, come l’incremento del numero di capillari nei muscoli allenati, regolano la distribuzione del flusso sanguigno in base alle specifiche necessità metaboliche del tessuto muscolare.
In generale la fibra è lunga da pochi mm a molti cm e ha un diametro variabile (10-100 μm); è circondata da una membrana, il sarcolemma, che racchiude, oltre al sarcoplasma e alle altre componenti sarcoplasmatiche (nuclei, organelli sarcoplasmatici, granuli di glicogeno), le miofibrille, le quali costituiscono la componente contrattile del muscolo. Le miofibrille sono a loro volta costituite da miofilamenti più spessi e miofilamenti più sottili. La presenza dei due tipi di filamenti determina l’alternanza, lungo le miofibrille, di zone a diverso indice di rifrazione; la zona monorifrangente o banda I (isotropa) contiene solo i filamenti sottili, la zona birifrangente o banda A (anisotropa) contiene al contrario entrambi i tipi di filamenti; al centro della banda A è presente una zona otticamente meno densa (detta banda H), che contiene i soli filamenti spessi; al centro della banda H si può osservare una linea trasversale più scura denominata banda M. Al centro della banda I è presente una stria trasversale chiamata linea Z. La porzione di fibra compresa tra due linee Z successive prende i nome di sarcomero e rappresenta l’unità contrattile della fibra muscolare (Fig. 2). Nel sarcomero i filamenti si dispongono in modo regolare così che ogni filamento spesso risulta circondato da sei filamenti sottili. [1]
Fig 2.3: Rappresentazione del sarcomero: A) fotografia al microscopio elettronico (I:rilassato, II:contratto), B) rappresentazione schematica (tratto da Rosati-Colombo, I tessuti)
Fig. 2.4: Rappresentazione dell’organizzazione cellulare di una fibra muscolare scheletrica.
2.1.2 Modello meccanico del muscolo
Per studiare il muscolo e la sua funzione, può essere utile studiare i muscoli da un punto di vista fisico-matematico, utilizzando un modello meccanico che può essere così schematizzato:
Fig.2.5: Modello meccanico del muscolo
- CC = componente contrattile, data dal sarcomero;
- EEP = elementi elastici posti attorno alla componente contrattile e quindi in parallelo, costituiti dalle guaine fibrose dei fascicoli muscolari, dalle guaine delle fibre muscolari (sarcolemma) e dal connettivo tra le fibre (endomisio);
- EES = elementi elastici in serie, costituiti dai tendini, le linee zeta e i ponti di actomiosina.
Il muscolo rilassato, a riposo, è elastico: resiste, cioè, allo stiramento oltre la lunghezza di riposo. L’elasticità del muscolo, che dà luogo alla resistenza allo stiramento, è data dal tessuto connettivo che avvolge la componente contrattile, che, quindi, è in parallelo con essa. Quando il muscolo si contrae, prima che la tensione si possa manifestare nei tendini (EES), deve comparire nel tessuto connettivo (EEP).
Un muscolo di una data lunghezza è formato da numerose fibre muscolari poste in parallelo, cioè una di fianco all'altra, e ciascuna fibra è composta da numerose miofibrille, poste in parallelo e di lunghezza uguale a quella del muscolo. Ciascuna miofibrilla è formata da un certo numero di sarcomeri, di lunghezza uguale tra loro e posti uno di seguito all’altro, cioè in serie.
Quando una singola miofibrilla si contrae sviluppa una tensione uguale a quella unitaria di un singolo sarcomero. Il muscolo, contraendosi in toto, produce una forza complessiva data dalla somma delle forze sviluppate da ogni singolo elemento posto in parallelo. In definitiva, la forza prodotta da un muscolo con la contrazione, è proporzionale al numero di miofibrille poste in parallelo, cioè alla sua sezione trasversa.
L'accorciamento totale è dato dalla somma degli accorciamenti dei singoli sarcomeri, pertanto è proporzionale al numero di sarcomeri posti in serie, cioè alla sua lunghezza. Poiché ciascun sarcomero, contraendosi, si accorcia di 1 nel tempo t, la velocità di accorciamento della miofibrilla, e quindi del muscolo, è uguale alla velocità di accorciamento di un sarcomero, 1/t, moltiplicata per il numero di sarcomeri in serie: la velocità di accorciamento di un muscolo è proporzionale alla sua lunghezza.
Ci sono due componenti base per stabilire la relazione tra tensione e lunghezza:
• La componente attiva è la tensione muscolare prodotta dal processo contrattile.
• La componente passiva è la tensione prodotta dal tessuto connettivo che circonda le fibre muscolari.
La somma delle tensioni attiva e passiva è uguale alla tensione totale generata dalla contrazione del muscolo.
La lunghezza del muscolo ha un effetto su entrambe le tensioni. La figura 2.18 dimostra graficamente gli effetti delativi dei cambiamenti di lunghezza. La lunghezza a riposo di un muscolo è definita come il 100% della lunghezza di tale muscolo. La tensione passiva prodotta (curva 1) si incrementa monotonicamente rispetto alla lunghezza a riposo. La tensione attiva (curva 2) è massima a riposo e decresce sia con l’allungamento sia con l’accorciamento. La curva 3 è la somma di queste due componenti.
Figura 2.18 Relazione tra lunghezza e tensione di un muscolo. La curva 1 è la forza passiva; la curva 2 è la forza attiva; la curva 3 è la forza totale del muscolo (curva 1 + curva 2).
La massima tensione muscolare ottenibile in un range di movimento fisiologico è di circa 125% rispetto alla lunghezza a riposo. Questa lunghezza coincide con la lunghezza del muscolo quando la giuntura è in posizione di rilassamento.
Prima del 1966, gli studiosi non erano capaci di relazionare la tensione attiva alle caratteristiche del processo contrattile. Ora invece si sa che i cambiamenti di lunghezza coinvolgono l’interazione di actina e miosina. Nei muscoli accorciati, i filamenti di actina si sovrappongono in modo da diminuire i siti nei quali la miosina si può combinare con l’actina. Minore è il numero di questi siti e minore sarà la tensione sviluppata. Anche in un muscolo allungato ci sono pochi siti dove la miosina si può combinare con l’actina, quindi viene prodotta meno tensione. [2]
2.1.3 Tipi di fibre e proprietà contrattili
Il muscolo scheletrico si presenta come un tessuto eterogeneo: l’eterogeneità è una proprietà di tutti i muscoli, essenziale per la loro funzione. I muscoli scheletrici sono tenuti a rispondere ad un ampio range di richieste funzionali in ciascuna specie animale, spesso diverse in differenti specie animali. Tale flessibilità funzionale trova le sue basi: (1) in un potente e accurato controllo del sistema nervoso e (2) nella disponibilità in ciascun muscolo di numerosi tipi di fibre con distinti aspetti e compiti funzionali (resistenza alla fatica, velocità di contrazione etc.).
Tra i determinanti dei tipi di fibre il pattern di scarica neuronale ha un ruolo centrale; come conseguenza tutte le fibre di una unità motoria, ovvero tutte le fibre innervate dallo stesso motoneurone e riceventi lo stesso pattern di stimolazione, esibiscono lo stesso fenotipo, sono pertanto fibre dello stesso tipo.
La classificazione funzionale più semplice dei tipi di fibre si basa sui parametri seguenti:
• parametri di risposta contrattile, i quali sono determinati dalla composizione proteica delle miofibrille e del reticolo sarcoplasmatico. Le fibre muscolari si definiscono slow o fast sulla base della loro velocità di contrazione, la velocità cioè a cui sviluppano tensione durante la contrazione e a cui scompare durante il rilasciamento;
• l’abilità di sostenere il consumo energetico dovuto all’attività contrattile con adeguata produzione di ATP. Le fibre possono essere resistenti alla fatica o non resistenti sulla base della loro capacità di mantenere la performance contrattile durante ripetute stimolazioni.
Alla luce di questi due criteri si identificano tre tipi di miofibre:
1. S: slow e resistenti a fatica (fibre di tipo 1)
2. FR: fast e resistenti a fatica (fibre di tipo 2A)
3. FF: fast e non resistenti a fatica (fibre di tipo 2X).
Il tipo di fibre I (o SO) è caratterizzato da un colorito rosso per la ricchezza di mioglobina, piccolo diametro e da un’alta resistenza alla fatica. Queste fibre presentano un’alta concentrazione di mitocondri e necessitano di un’eccellente irrorazione sanguigna; inoltre si contraggono lentamente e hanno un metabolismo aerobico quasi esclusivo. Sono queste le fibre adibite alla contrazione muscolare.
Le fibre intermedie del tipo IIA (o FOG), sono caratterizzate da un colore pallido e da una considerevole capacità aerobica. Contengono una ragionevole concentrazione di mitocondri ed una sufficiente capillarità sanguigna, il che permette loro di resistere in attività che richiedono sforzo per un certo periodo di tempo.
Il tipo IIB (o FG) contraddistingue quelle fibre con un’alta capacità nella glicolisi anaerobia ed una bassa proprietà di metabolismo aerobio. Contengono una bassa concentrazione di mitocondri e di capillari, il che non permette una grossa resistenza alla fatica. Il compito di queste fibre, quindi, è probabilmente quello di coadiuvare le fibre del tipo I nel caso di attività che non si protraggono a lungo nel tempo.
I tipi di fibre IIA (FOG) e IIB (FG) vengono innervate da alfa motoneuroni con un’alte velocità di conduzione. Il tipo I (SO) è innervato anch’esso da motoneuroni di tipo alfa, ma con più basse velocità di conduzione. Lo stesso tipo di fibre si riuniscono per formare una U.M. omogenea. [2]
Figura 2.6: Fotomiografia di una sezione trasversa di un muscolo scheletrico colorata per evidenziare l’enzima succinico deidrogenasi, che risiede nei mitocondri. Sono riconoscibili tre categorie di fibre: piccole fibre rosse presenti in gran numero nei mitocondri, specialmente sulla loro periferia; bianche fibre larghe con pochi mitocondri; fibre con caratteristiche intermedie.
2.2 Meccanica muscolare
La meccanica del muscolo dipende dalla tensione generata nella contrazione e dai fattori che possono influire su tale livello di tensione. Di seguito si descriveranno alcuni dei fattori più importanti che possono influire sulla tensione muscolare, sotto gli aspetti meccanico e fisiologico.
La disposizione delle fibre di un muscolo servono per determinare la funzione di tale muscolo. Per capire la relazione tra struttura e funzione, bisogna porre due ipotesi:
1. Una fibra muscolare può accorciarsi fino a circa il 60% della sua lunghezza a riposo.
2. La forza che un muscolo è capace di generare è direttamente proporzionale alla fisiologia della sua sezione trasversale.
Le fibre ed i fascetti muscolari possono essere organizzati in modo parallelo oppure inclinato rispetto all’asse di un muscolo. Se i fascetti sono paralleli all’asse, il muscolo presenta una piena capacità di accorciamento (ripetizione???). Visto che il massimo accorciamento di un muscolo è proporzionale alla lunghezza delle fibre che lo compongono (e cioè dal numero dei sarcomeri messi in serie), i muscoli con questo tipo di struttura si trovano sulle giunture con grandi possibilità di movimento. Esempi di questo tipo di muscoli sono i muscoli fusiformi ed i muscoli sottoiodei (figura 2.?? A e B).
Quando due o tre ventri di altrettanti muscoli si attaccano allo stesso tendine, il muscolo così costituito si chiama bicipite o tricipite (figura 2.?? C e D). Esempi di muscoli di questo tipo sono il bicipite ed il tricipite brachiale. Le caratteristiche dei muscoli bicipiti sono le stesse dei muscoli fusiformi. I muscoli triangolari (esempio il gluteo medio) hanno fascetti che si connettono allo stesso tendine da una parte e che si aprono a ventaglio dall’altra. Le loro caratteristiche sono anch’esse simili a quelle dei muscoli fusiformi.
I muscoli con i fascetti disposti in modo obliquo alla direzione dell’asse, ricordano una penna; per questo motivo vengono chiamati muscoli penniformi. Un muscolo unipennato ricorda una metà di una penna (figura 2.?? E). Esempi di questo tipo di muscolo sono il flessore del pollice ed il semimembranoso. I muscoli bipennati ricordano una singola penna (figura 2.?? F). Il retto femorale ed il dorsale interosseo sono esempi della disposizione delle fibre in un muscolo bipennato. Un muscolo multipennato come il deltoide è un muscolo costituito da vari muscoli bipennati attaccati a molti tendini intermuscolari (figura 2.??G).
Visto che la lunghezza delle fibre muscolari e la direzione di trazione determinano il grado di movimento di un muscolo, il tipo fusiforme produce un movimento più ampio rispetto ad un muscolo pennato. La forza che un muscolo può generare, comunque, è direttamente proporzionale alla sua sezione trasversale. La tipologia di muscoli pennati presenta più fibre per unità di area rispetto ai fusiformi, quindi, i muscoli pennati generano più forza rispetto ai fusiformi. I muscoli fusiformi, quindi hanno un maggior grado di movimento , mentre i muscoli pennati forniscono più forza, ma hanno un minor range di movimento.
Figura 2.7: Illustrazione delle varie forme e delle varie strutture delle fibre muscolari.
Fig. 2.8: Nello schema sono mostrati due tipi di disposizione delle fibre muscolari sia a riposo che in contrazione. (A) Disposizione delle fibre pennate a riposo. I tendini sono rappresentati dalle linee di prolungamento dei due lati del parallelogramma. (B) Lo stesso muscolo al massimo accorciamento. Le fibre muscolari si sono accorciate di un terzo della loro lunghezza di riposo lungo il loro asse come indicato dalla freccia sottile. Il muscolo in toto si accorcia meno (freccia spessa) di quanto si accorciano le singole fibre che lo compongono. tale differenza dipende dall'angolo tra le direzioni di accorciamento delle fibre e quella del muscolo. (C) Fibre di un muscolo fusiforme a riposo. Le linee che si irradiano dalla base del rettangolo e si portano ad un punto rappresentano i tendini. (D) Lo stesso muscolo al massimo accorciamento. Le fibre muscolari e il muscolo in toto si sono accorciati di un terzo in quanto direzione di trazione sui tendini e direzione di accorciamento delle fibre coincidono. Così benché le fibre in A e in C abbiano uguale lunghezza, l'accorciamento in B è minore di quello in D.
2.3 La contrazione muscolare
2.3.1 L’Unità Motoria e il potenziale di membrana a riposo
L'unità funzionale del muscolo è l'unità motoria (UM): è l'insieme del motoneurone e delle fibre muscolari che esso innerva. Le fibre muscolari di una unità motoria hanno nel muscolo una disposizione casuale, non contigua, sono, cioè, frammiste a mosaico con fibre muscolari appartenenti ad altre unità motorie.
Le unità motorie variano molto per quanto riguarda il numero di fibre muscolari: vi sono UM con 10 - 20 fibre muscolari, altre con più di 2000 e ciò influenza la forza generata dall'attività motoria stessa. Generalmente i muscoli preposti al controllo dei movimenti più fini hanno un basso numero di fibre muscolari per unità motoria; invece, i muscoli preposti a movimenti più grossolani sono usualmente caratterizzati da un elevato numero di fibre muscolari per unità motoria.
Fig. 2.9: Singola unità motoria
I motoneuroni hanno dimensioni diverse: quelli che innervano le unità motorie composte da fibre muscolari a contrazione rapida sono più grandi di quelli delle unità motorie composte da fibre muscolari a contrazione lenta. Il potenziale post-sinaptico eccitatorio ha un'intensità inversamente proporzionale alla grandezza del soma del motoneurone.
I motoneuroni delle UM di tipo lento raggiungono prima la soglia di eccitabilità. Dato che la tensione sviluppata da ogni singola fibra muscolare è direttamente proporzionale all'area della sua sezione trasversa, la stimolazione di una unità motoria di tipo veloce, a parità di numero di fibre muscolari, comporta lo sviluppo di una forza maggiore di quella prodotta dalle UM di tipo lento. Il punto di innesto o terminazione della fibra nervosa motrice è detto placca motrice o sinapsi neuromuscolare.
La placca motrice è composta da due componenti: una pertinente alla cellula muscolare, l'altra alla fibra nervosa. La componente muscolare risulta di piccole invaginazioni del sarcolemma, dette fessure sinaptiche secondarie. La componente spettante alla fibra nervosa è costituita dalla porzione terminale dell’assone e ramificata nelle fessure sinaptiche primarie. La giunzione neuromuscolare ha dunque l'architettura generale di una comune sinapsi, con l'assolemma come membrana presinaptica, il sarcolemma come membrana postsinaptica e lo spazio intersinaptico contenente materiale glicoproteico. E’nell’assoplasma presinaptico che sono presenti le vescicole, contenenti nel caso specifico acetilcolina [3].
Fig 2.10: Schema dell’unità motoria innervazione.
Come già accennato precedentemente, ogni fibra muscolare è avvolta dal sarcolemma. Si tratta di una sottile membrana semipermeabile, composta da un doppio strato di lipidi, che presenta canali grazie ai quali alcuni tipi di ioni possono muoversi tra i fluidi intracellulare ed extracellulare. Le composizioni di questi fluidi sono differenti (vedi tabella 2.1); il fluido intracellulare presenta un’alta concentrazione di ioni potassio (K+) ed anioni organici (A-); i primi sono sufficientemente piccoli da passare attraverso i canali di membrana, invece gli anioni organici sono troppo larghi per fluire attraverso la membrana.
Il fluido extracellulare (o interstiziale) ha invece un’alta concentrazione di ioni sodio (Na+) e cloro (Cl-). Gli ioni Cl- sono anch’essi sufficientemente piccoli da passare attraverso la membrana, mentre gli ioni Na+ sono leggermente più larghi e quindi incontrano difficoltà a penetrare.
Tabella 2.1 Concentrazioni ioniche intracellulari ed extracellulari per un muscolo mammifero (mEQ/L)
Per comprendere il potenziale di membrana a riposo, si consideri per un momento che non ci sia differenza di potenziale tra i fluidi intracellulare ed extracellulare (figura 2.11). A causa dell’alta concentrazione di ioni K+ all’interno della cellula rispetto all’esterno, questi ioni diffondono attraverso la membrana cellulare nel fluido extracellulare. Gli ioni organici sono invece troppo larghi per diffondere nell’ambiente esterno direttamente attraverso la membrana. Gli ioni Na+ non si possono portare all’interno della cellula in sufficiente numero per rimpiazzare gli ioni potassio. Quindi si manifesta una differenza di potenziale tra i due lati della membrana. La carica positiva che si sviluppa all’esterno della membrana fa calare la diffusione degli ioni K+ dall’interno all’esterno della cellula. Gli ioni Cl- si comportano in maniera simile e rimangono in equilibrio grazie a questa interazione tra il loro gradiente di concentrazione e la loro carica elettrica.
Gli effetti principali del movimento degli ioni K+ e Cl- è la creazione di una carica positiva all’esterno della membrana e di una carica negativa al suo interno. Visto che cariche di uguale segno si respingono, la carica positiva all’esterno della membrana in combinazione con l’alto gradiente di concentrazione degli ioni Na+ porta questi ioni all’interno della cellula. Se questo flusso dovesse persistere, l’interno della cellula diverrebbe più positivo rispetto all’esterno. Il potenziale di membrana, quindi, è mantenuto costante da un trasporto ionico attivo chiamato pompa sodio-potassio. Questo sistema-pompa usa energia per trasportare attivamente ioni Na+ dall’interno all’esterno della cellula ed in misura minore, per pompare ioni K+ all’interno della stessa.
L’effetto dei gradienti di concentrazione, la differenza di potenziale attraverso la membrana ed il sistema del trasporto attivo, danno come esito il mantenimento di una differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno della membrana quando la fibra muscolare è a riposo. Questa differenza è chiamata potenziale di membrana a riposo e misura circa -80 mV all’interno rispetto all’esterno (figura 2.12). In un sistema neuromuscolare sano, questa cellula muscolare polarizzata rimane in equilibrio finché non viene sconvolta da uno stimolo esterno o interno.
Figura 2.11: Gradienti di concentrazione ionica. Gli ioni K+ ed A- sono maggiormente presenti nel liquido intracellulare, quelli Na+ e Cl- all'esterno della cellula, nel liquido interstiziale.
Figura 2.12: Il potenziale intracellulare a riposo può essere misurato inserendo un elettrodo all’interno della cellula ed uno sulla membrana e connettendoli ad un voltmetro. La cellula è immersa in una appropriata soluzione salina. La differenza di potenziale tra interno ed esterno è di -80 mV.
2.3.4 Potenziale d’azione della fibra muscolare
Diversi eventi devono succedere al fine di una contrazione della fibra muscolare. L’attività del sistema nervoso centrale promuove una depolarizzazione nel motoneurone. Questa depolarizzazione viene condotta lungo il motoneurone fino alla placca neuromuscolare ed in questa zona, l’acetilcolina viene rilasciata e lasciata diffondere attraverso la sinapsi, causando una rapida depolarizzazione della fibra muscolare sotto la placca. Questa veloce e conseguenziale depolarizzazione della fibra muscolare non è altro che un potenziale d’azione.
La stimolazione della fibra muscolare causa un incremento nella membrana in tale fibra della permeabilità agli ioni Na+. L’incremento della permeabilità al Na+ ed il gradiente di concentrazione ionico, causano un improvviso flusso del Na+ all’interno della cellula muscolare (figura 2.13). Questa rapida depolarizzazione della fibra muscolare continua finché la fibra non inverte la propria polarità fino a raggiungere circa i +20 mV all’interno rispetto all’esterno. Vicino al picco di polarità inversa, il decremento del flusso del Na+ all’interno della cellula ed il crescente efflusso del K+ causano una rapida ripolarizzazione della fibra.
Figura 2.13: Variazione della permeabilità agli ioni Na+ e K+ nel corso di un potenziale d'azione.
Quando avviene la depolarizzazione della membrana sotto la placca neuromuscolare, si stabilisce una differenza di potenziale tra la regione attiva e le regioni adiacenti inattive della fibra (figura 2.14). Una corrente ionica perciò, inizia a scorrere tra le zone inattive ed attive e questo flusso di corrente decrementa il potenziale di membrana delle regioni inattive al punto che la permeabilità di membrana rispetto al Na+ di queste zone incrementa bruscamente, causando quindi il potenziale d‘azione. In questo modo, il potenziale d’azione si propaga dalla zona attiva iniziale in entrambe le direzioni lungo la fibra muscolare.
Figura 2.14 Propagazione del potenziale d’azione in entrambe le direzioni lungo la fibra conduttiva.
Il potenziale d’azione si propaga lungo il sarcolemma e all’interno della fibra muscolare attraverso i tuboli trasversi. In risposta a questo potenziale, il reticolo sarcoplasmatico rilascia il calcio immagazzinato. Il calcio si lega alla troponina, alterando la posizione della tropomiosina ed in questo modo si liberano i siti attivi dell’actina, permettendo quindi che la contrazione muscolare abbia luogo [2].
o Lo scivolamento dei miofilamenti
La meccanica della contrazione muscolare diviene più chiara se si comprende bene la successione nel tempo delle varie fasi che la caratterizzano.
La stimolazione del nervo motorio, seguita da un periodo latente di circa 2 msec prima che inizi la depolarìzzazione del sarcolemma, viene trasmessa alla fibra muscolare a livello della placca motrice.
Fig. 2.15: schematizzazione dello scivolamento dei miofilamenti
Lo stimolo nervoso, arrivato alla parte terminale presinaptica del nervo, libera quanti di acetilcolina (ACH) che si diffondono attraverso lo spazio sinaptico. Questa fase "chimica" della trasmissione neuromuscolare dura 0.3 - 0.5 msec.; segue la depolarizzazione della zona postsinaptica motoria. Da qui la depolarizzazione si propaga lungo tutta la fibra muscolare e dà origine alla risposta contrattile. Dopo la depolarizzazione il sarcolemma si ripolarizza gradualmente tornando alla situazione di riposo in 5 - 10 msec., molto prima che sia raggiunto il picco di tensione della contrazione muscolare.
Nella figura 2.16 viene rappresentato il muscolo striato in sezioni successive, partendo, cioè, dall’intero muscolo e schematizzando con ingrandimenti graduali le varie componenti fino ai neurofilarnenti di miosina (al centro) e actina (ai lati).
L’accorciamento della fibra muscolare con generazione di forza contrattile è il risultato di uno scivolamento tra loro dei due sets di filamenti di ciascuna metà del sarcomero. Lo scivolamento avviene per un processo ciclico: durante la contrazione ciascun ponte trasversale di miosina si attacca alle molecole di actina del filamento sottile adiacente ed esercita forza fino a quando si distacca, dopo aver tirato un po’il filamento sottile verso il centro del sarcomero; inizia quindi un nuovo ciclo.
Fig. 2.16: schematizzazione della contrazione del sarcomero
L’effetto di questi scivolamenti ripetuti conseguenti al ciclico attaccarsi e distaccarsi dei ponti trasversali di actina e miosina è il completo accorciamento del sarcomero (fig.2.17) [3].
Fig. 2.17: completo accorciamento del sarcomero
o Scarica e reclutamento dei motoneuroni
L’uomo è in grado di performare i lavori motori muscolari in modo da riuscire a compiere una vasta gamma di livelli di forza. Questi livelli di forza spaziano da quelli richiesti per i movimenti precisi e delicati a quelli necessari per attività fisiche pesanti. Il muscolo è capace di aggiustare la sua tensione di uscita in risposta alle richieste dei vari compiti grazie a due meccanismi fisiologici principali:
1. reclutamento di nuove U.M.;
2. velocità di codifica.
Il reclutamento avviene quando le U.M. inattive vengono attivate in base alla richiesta di maggior potenza per il muscolo. La velocità di codifica è definita come un incremento della frequenza di scarica delle U.M. quando è richiesto uno sforzo maggiore.
La stimolazione della fibra muscolare, poco dopo che è stata evocata una precedente contrazione, dà luogo ad una seconda risposta contrattile che si somma alla precedente. Se, infatti, il secondo stimolo arriva alla fibra muscolare prima che la tensione del primo sia decaduta, la seconda contrazione si sommerà alla prima, dando luogo ad un significativo aumento del picco di tensione (per tempo di contrazione si intende l'intervallo di tempo che intercorre tra l’attivazione della fibra muscolare e il raggiungimento durante la contrazione del picco di tensione).
Fig. 2.18: Tempo di contrazione di 3 muscoli : il retto interno dell’occhio a contrazione rapida, il soleo a contrazione lenta e il gastrocnemio che ha un tempo di picco intermedio (le barre nere che precedono il nome del muscolo indicano la durata del tempo di picco)
Se una fibra muscolare viene stimolata ripetutamente a brevi intervalli di tempo ne risulterà una fusione delle singole scosse, fino a formare una contrazione continua detta ”tetano muscolare”, di gran lunga maggiore di quella della singola scossa. La tensione del tetano può essere mantenuta ad un livello costante fino a che continua la stimolazione o il muscolo non si affatica. Le fibre muscolari lente dei muscoli rossi richiedono 20 stimoli al secondo per formare il tetano, mentre quelle rapide dei muscoli bianchi da 60 a 100 stimoli al secondo.
Per comprendere l'adattabilità delle fibre muscolari nelle varie situazioni di esercizio occorre considerare il funzionamento del motoneurone.
Ci sono motoneuroni a bassa e ad alta frequenza di scarica. I primi controllano le LTM formate da fibre muscolari a contrazione lenta, i secondi quelle con fibre a contrazione rapida. La frequenza di scarica ottimale del motoneurone è quella minima utile perché le singole scosse muscolari si fondano a formare una contrazione tetanica. La frequenza tetanizzante è intorno ai 20 Hz per le UM di tipo lento e sopra i 50 Hz per quelle di tipo rapido. L'ordine di reclutamento dei motoneuroni risponde al principio della grandezza: minore è il loro diametro e più facile risulta la loro attivazione (più bassa soglia di attivazione).
Le fibre muscolari di tipo lento sono innervate da motoneuroni più piccoli e sono le prime ad essere attivate nel movimento volontario.
Durante le normali attività i motoneuroni più piccoli, a più bassa soglia, scaricano a bassa frequenza per lunghi periodi di tempo, mentre i motoneuroni a più alta soglia, innervanti le fibre di tipo veloce, vengono attivati solo occasionalmente in brevi scariche ad alta frequenza.
Nel caso di esercizi di lunga durata ad intensità massimale (allenamenti di resistenza) tutti i motoneuroni scaricano a frequenza moderata, ma appena l'impegno cessa di essere massimale, i motoneuroni a soglia più elevata smettono di scaricare. Al contrario, durante l'esercizio ad impegno massimo ma di breve durata (allenamenti di forza) tutti i motoneuroni scaricano per lunghe sequenze ad alta frequenza. La scarica sincrona di diverse UM produce tensione massimale, mentre quella asincrona è associata ad un prolungamento massimo della contrazione (resistenza) [3].
Ci sono molte discussioni riguardo al ruolo che il reclutamento e la velocità di codifica hanno nella determinazione della tensione in uscita di un muscolo. Alcuni studiosi pensano che sia più importante il reclutamento, mentre altri ritengono che la velocità di codifica sia determinante in questi meccanismi [2].
2.4 La pedalata
2.4.1 Catene cinematiche aperte e chiuse
I termini di "catena muscolare" e "catena cinetica" sono comuni tra fisiatri, fisioterapisti e cinesiologi ma sempre più frequentemente si usano anche nel linguaggio dello sport perché meglio di altri aiutano a descrivere i complessi fenomeni biomeccanici che sono alla base dell'esecuzione del gesto atletico.
La fisica enuncia che una catena cinetica è un sistema composto da segmenti rigidi uniti tramite giunzioni mobili definite snodi. Il nostro organismo è composto da tante catene cinetiche, i segmenti sono rappresentati dalle ossa mentre le articolazioni rappresentano i giunti. I muscoli sono il "motore" della catena cinetica.
Questa definizione di tipo ingegneristico, però, non è applicabile completamente nella fisiologia del movimento umano perché l'apparato muscolare non può essere paragonato ad un sistema meccanico rigido, ma è da considerare come flessibile e plastico. Nel sistema cinematico è infatti possibile, ad esempio, ricavare le velocità relative di tutti gli elementi del sistema dopo aver fissato la velocità relativa di un elemento rispetto ad un altro qualsiasi. Ciò non è possibile per i muscoli; e non è possibile neppure ricavare e scomporre con precisione le forze dei vari anelli muscolari (cinetica).
Malgrado queste diversità e con le relative approssimazioni, lo studio delle catene "cinetiche muscolari" risulta molto utile nella interpretazione del movimento sportivo e può avere interessanti ripercussioni anche in ambito clinico.
Per descrivere le catene cinetiche è necessario utilizzare due termini convenzionali:
- prossimale = vicino al centro o alla linea mediana del corpo
- distale = lontano dal centro o dalla linea mediana del corpo (contrario di prossimale)
Per catena cinetica muscolare aperta s'intende il sistema in cui l'estremità distale (quindi più lontana) è libera, priva di alcun vincolo. Esempi sono l'arto inferiore durante la deambulazione nella fase oscillante, l'estensione della gamba in posizione seduta, muovere il braccio nel gesticolare o nel lanciare un oggetto e così via.
In una catena cinematica chiusa invece l'estremità distale è fissa, ossia non libera di muoversi durante l'esecuzione del gesto. Esempi sono l'arto inferiore nella deambulazione nella fase di appoggio del piede, gli arti superiori che spingono contro una parete o gli arti inferiori in un individuo che solleva un peso da terra.
Inoltre quando la resistenza esterna distale di una catena cinetica è inferiore al 15% della resistenza massimale che essa riesce a spostare, si può ritenere la catena aperta (o poco frenata), se invece tale resistenza supera il 15% la catena è chiusa (o molto frenata). Si crea, in questo caso, una condizione che limita l'apparato locomotore nella sua libertà di movimento.
Il gesto sportivo si articola, generalmente, attraverso l'uso alternato di catene cinetiche aperte e chiuse. L'esempio più classico è la corsa nella quale, come detto in precedenza, l'arto inferiore lavora a catena chiusa nella fase di appoggio e aperta nella fase di slancio, mentre l'arto superiore, oscillando, opera costantemente in catena aperta.
Alcuni sport, tuttavia sono caratterizzati da movimenti che avvengono prevalentemente a catena chiusa. Tra questi possiamo citare il canottaggio ma, in particolare, il ciclismo che vincola l'atleta rigidamente al mezzo meccanico su due punti fissi, sella e manubrio, ed un punto mobile rappresentato dal pedale che presenta una resistenza al movimento generalmente superiore al 15% del massimale (catena frenata).
2.4.1.1 Biomeccanica delle catene cinematiche
Per la realizzazione dei movimenti balistici (come il lancio di una palla) sono necessarie le catene aperte o poco frenate, che si realizzano con il progressivo aumento della velocità man mano che si scende verso l'anello distale (mano).
È necessario, inoltre, il fissaggio del segmento prossimale attraverso il coinvolgimento di muscoli stabilizzanti. Altra caratteristica delle catene aperte è che l'ordine d'attivazione muscolare avviene in senso prossimo distale ossia dal centro alla periferia.
La biomeccanica delle catene cinetiche chiuse va considerata in senso opposto a quelle aperte, dove l'estremità distale è rappresentata dall'articolazione stabilizzante, e la direzione dell'attivazione muscolare avviene in senso caudoprossimale (dalla periferia al centro). Per anello stabilizzante nella catena cinetica chiusa, si intende l'articolazione che, grazie ai suoi muscoli fissatori, solidarizza l'arto alla resistenza esterna. Nel ciclismo i muscoli attivati per stabilizzare il movimento sono quelli che agiscono sui punti di vincolo fisso (impugnatura del manubrio e sella) ossia quelli dell'arto superiore e del tronco.
Una conseguenza biomeccanica rilevante tra i due tipi di catene è che la funzione cinesiologica di uno stesso muscolo può variare, anche diventando opposta, a seconda che questo sia inserito in una catena cinetica aperta o chiusa.
Un fenomeno di questo tipo avviene nel ciclismo come evidenziato nella figura 1. La fase di estensione dell'arto inferiore, che coincide con la fase di spinta sul pedale, è caratterizzata infatti dall'intervento apparentemente paradossale dei muscoli flessori (bicipite femorale, semimembranoso, ecc.) oltre che dall'azione di gluteo, retto femorale, vasti ecc.
Fig. 2.19: range angolare di attivazione dei singoli muscoli dell’arto inferiore nel movimento della pedalata (da Jorge et Hull, 1985); Legenda: 1 = Grande Gluteo 2 = Retto Femorale 3 = Vasto mediale 4= Vasto Laterale 5 = Tibiale Anteriore 6 = Gasrocnemio 7 = Bicipite femorale 8=Semimembranoso
Come in tutte le catene cinetiche chiuse, il sistema muscolo-scheletrico è costretto a lavorare in una posizione rigidamente costretta da precisi punti di vincolo posizionati in maniera simmetrica nello spazio. L'organismo non dispone sempre della necessaria possibilità di modificare la postura per adattarsi al mezzo come avviene facilmente nel movimento a catena aperta.
Gli sport a catena chiusa però non presentano solamente aspetti negativi. L'essere rigidamente vincolati al mezzo meccanico consente, innanzitutto, di poter agire sullo stesso per ottimizzare confort e prestazione [4].
2.4.2 Biomeccanica della pedalata
La corretta posizione sulla bici è un fattore determinante per poter sviluppare il massimo dell’efficienza senza dispersioni di energia e nella posizione più confortevole possibile. La ricerca della posizione ottimale è utile sia per i ciclisti più esperti che per i principianti e deve soddisfare due principi soggettivi che vanno messi in correlazione e mediati: comfort e giusta biomeccanica. Il primo principio serve per riuscire a mantenere la posizione il più a lungo possibile,il secondo è necessario per poter esprimere al meglio le proprie potenzialità.
L’assetto che si assume in bicicletta è vincolato a dei punti particolari:gli appoggi. I punti di contatto fra il corpo e la bicicletta, quali sella-bacino, piedi-pedali, mani-manubrio descrivono un triangolo la cui lunghezza dei lati è caratteristica per ogni individuo; proprio questo aspetto legato agli appoggi fa della pedalata una azione motoria a catena cinetica chiusa.
Gli spetti biomeccanici fondamentali sono caratterizzati da:
- giusto posizionamento delle tacchette;
- giusta distanza tra i pedali;
- altezza della sella;
- arretramento della sella;
- distanza sella-manubrio.
Effettuando una analisi cinematica dell’atleta che va in bici possiamo analizzare diversi elementi biomeccanici su diversi piani:
• Piano sagittale: angoli di flesso-estensione di spalla, busto, anca, ginocchio e caviglia;
• Piano frontale-dorsale: l’adduzione/abduzione del ginocchio e la prono-supinazione del piede;
• Piano trasverso: la rotazione di busto e bacino [5].
2.4.2.1 Le fasi
Come già accennato, la pedalata è un gesto tecnico che necessita di una perfetta coordinazione.
Un ciclo di pedalata corrisponde a una rotazione completa della pedivella (360 gradi), che si compone di quattro fasi:
1. la spinta;
2. il punto morto inferiore;
3. la trazione;
4. il punto morto superiore.
E’ opportuno esercitare una forza in ognuno dei momenti del ciclo di rotazione ed articolare queste fasi tra di loro per effettuare una pedalata armoniosa e senza strappi. Questo movimento è noto come “Pedalata Rotonda”.
Il movimento deve essere circolare, sciolto e continuo, il piede deve esercitare una pressione costante sui pedali e la caviglia deve agire come un’asse di rotazione. Durante la fase di trazione, alzando le ginocchia, bisogna controllare che piede, ginocchio e anca restino perfettamente in linea.
Con una buona tecnica di pedalata, si distribuisce lo sforzo all’interno di tutte le masse muscolari degli arti inferiori. La fase discendente (spinta) sollecita i muscoli estensori (quadricipite femorale), mentre il sollevamento del pedale opposto (trazione) sollecita i muscoli flessori (bicipite femorale). E’ cosi che i muscoli tendono a contrarsi in modo meno intenso nel corso della stessa pedalata, si stancano meno e possono lavorare più a lungo.
Analizzando in dettaglio:
• Fase di spinta o di pressione: la gamba esercita una pressione dall’alto verso il basso grazie all’estensione del quadricipite (vasto laterale e vasto mediale) e dei muscoli del polpaccio (soleo e gastrocnemio); per ottimizzare questa fase, è necessario mantenere il piede più orizzontale possibile.
• Punto morto inferiore: fase di transizione, pedaliera in verticale e piede in basso rendono impossibile ogni movimento di spinta. Si deve tirare all’indietro flettendo il ginocchio.
• Fase di trazione: la gamba viene tirata vero l’alto: la leva del ginocchio spinge il tallone. Si alleggerisce anche il peso della gamba, apportando un sostegno al lavoro dell’altra gamba che si trova in fase di spinta.
• Punto morto superiore: questa fase implica la realizzazione di una “frustata” del piede, che consiste nel proiettare la punta del piede in avanti, abbassando il tallone. Questo movimento richiede una grande elasticità della caviglia.
Più il ritmo della pedalata è lento, più diventa difficile il superamento dei punti morti: la perdita di energia in questi punti non permette di completare il ciclo di pedalata e obbliga a un lavoro di forza nella fase di spinta. Questo porta ad adattare la posizione in piedi a movimento alternato (peso del corpo su un pedale e poi sull’altro).
Un elemento fondamentale da tenere in considerazione ai fini del rendimento è la direzione della forza impressa sul pedale: la forza deve essere applicata perpendicolarmente alla pedivella. Pertanto, all’inizio della fase di spinta, cioè dopo il PMS, il piede deve essere in una posizione di flessione, mentre nel proseguire della spinta, avrà inizio la fase di estensione, con lavoro dei muscoli del polpaccio.
Nella fase di trazione, ovvero dopo il PMI, il piede accentuerà l’estensione fino a presentarsi, in prossimità del PMS, nella massima estensione; ciò per favorire il superamento del PMS. Infatti, con una repentina azione di flessione del piede (abbassamento del tallone) la gamba si troverà nelle migliori condizioni per iniziare una nuova fase di spinta.
L’azione ciclica e perfettamente ripetitiva della pedalata è determinata da un mezzo, perfettamente simmetrico, che costringe ad eseguire movimenti caratterizzati dal ripetersi di medesime traiettorie ed escursioni angolari. Nella dinamica della pedalata, al piede spetta una funzione molto importante: trasmettere la forza esercitata dalle catene muscolari dell’arto inferiore (muscoli della coscia e della gamba) al pedale.
L’azione di trasferimento dell’energia meccanica al pedale avviene attraverso una ristretta area del piede: l’avampiede. La maggior parte della spinta è concentrata in una piccola zona corrispondente alle cinque teste metatarsali (arco anteriore traverso) ed a parte dell’alluce. La linea passante per le teste metatarsali dovrà essere il più possibile allineata all’asse del pedale, perché solo in questa posizione il piede è in equilibrio e non disperde energie per mantenersi in tale condizione. Ogni piccolo errore di posizionamento determina, infatti, perdita di parte dell’energia meccanica che deve essere trasferita alla pedivella e un lavoro supplementare da parte della muscolatura per stabilizzare l’articolazione [6].
2.4.2.2 I muscoli coinvolti nella pedalata
E' inevitabile che la pedalata coinvolga quasi se non tutti i muscoli della gamba, ma la cosa che rende questa analisi veramente complessa è il fatto che bisogna suddividere la pedalata per valutare quali muscoli vengono azionati. Per una corretta valutazione di quanto appena detto è necessario considerare 6 istanti differenti, che approssimativamente possiamo collocare nel modo seguente:
1. Il piede risulta essere leggermente inclinato in avanti per facilitare la successiva spinta. Vengono azionati i muscoli estensori del piede, ovvero soleo e gastrocnemio, coadiuvati dall'azione degli estensori della gamba (vasto laterale e vasto mediale), questi muscoli contraendosi spingono il piede verso il basso.
2. Il piede diventa quasi orizzontale all'asfalto e continua la spinta di quadricipite e tricipite della sura. Si contraggono anche i muscoli estensori della coscia, pilotati dal grande gluteo. Questa è la fase in cui si riesce ad imprimere la massima pressione sulla pedivella (fase di massima propulsione).
3. A questo punto, superati i primi 90° di movimento, intervengono anche i muscoli flessori della gamba, ovvero: bicipite femorale, sartorio e popliteo, inoltre si contraggono i muscoli della coscia (ileopsoas e retto femorale) che consentono un più facile richiamo della gamba verso la coscia, flettendo il femore.
4. In questa fase della pedalata la gamba si trova in una posizione sfavorevole per dare una buona spinta e il piede si trova quasi sul punto di massima flessione. In questa fase è proprio il piede a svolgere una delle fasi più importanti, i muscoli estensori del piede e flessori dell'alluce e della pianta lavorano per abbassare ulteriormente la punta del piede e per tirarlo indietro. Ovviamente vi è il contributo dei flessori della gamba e della coscia.
5. E' stato superato il punto morto inferiore e si inizia a tirare il pedale verso l'alto. Dall'altro lato la pedalata entra nella fase di massima trazione e quindi contribuisce al movimento di tiro controlaterale. In questa fase è rilevante il movimento dei muscoli flessori del piede che tendono ad abbassare il tallone.
6. Siamo quasi arrivata a compiere una pedalata completa e il piede sta tornando al punto morto superiore. In questa fase il recupero del pedale è consentito dall'azione simultanea dei flessori della coscia (ileopsoas e retto femorale) e dei muscoli flessori del piede (tibiale anteriore e flessore dell'alluce) [7].
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