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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-09052016-135840


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MANNELLI, LAVINIA
Indirizzo email
mannellilavinia@gmail.com
URN
etd-09052016-135840
Titolo
"Due esseri astratti su un aerostato". Pasolini e Dostoevskij
Dipartimento
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Corso di studi
LINGUA E LETTERATURA ITALIANA
Relatori
relatore Prof. Donnarumma, Raffaele
correlatore Prof. Carpi, Guido
Parole chiave
  • Petrolio
  • Pasolini
  • Dostoevskij
  • Demoni
Data inizio appello
26/09/2016
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
26/09/2086
Riassunto
La poetica di Pasolini è spesso motivata da riferimenti alla letteratura e critica russe, ma senz'alcun dubbio Dostoevskij è l'autore cui è riservata una maggiore ammirazione: con il poeta di Casarsa, infatti, questi condivide tanto l'interesse per la religiosità delle società contadine paleoindustriali, quanto quello per quegli umiliati e offesi che popolano i grandi conglomerati urbani. Sullo sfondo, le riflessioni politiche singolarmente vicine sulle due società, la russa del 1860-70 circa e l'italiana di cento anni dopo.
I due scrittori attraversano poi, a un certo punto del loro percorso, una crisi per alcuni aspetti ben simile: a quella «personale» dell'italiano, che verso la metà degli anni Sessanta del Novecento «non colpisce una poetica in particolare; ma la poetica in generale» (così Benedetti), si affianca quella che Dostoevskij chiama «mutamento delle convinzioni» e che per Šestov stabilisce l'inizio della cosiddetta «epoca del sottosuolo».
Leggendo l'opera di Pasolini si nota un dialogo addirittura continuo con il russo: un personaggio di "Amado mio" suggerisce, gridando, che una frase dell'Idiota venga usata come epigrafe dell'intero libro («Avete detto soltanto la verità: perciò avete mentito»). Romàns è «ingenuamente ispirato proprio a L'idiota», come si evince tra l'altro da una lettera privata dello stesso autore. Nel 1958 quest'ultimo dedica gli epigrammi di una sezione della "Religione del mio tempo" a "Umiliati e offesi", e in un'altra sezione della "Nuova gioventù", "Tetro entusiasmo", utilizza ancora una volta un'espressione dostoevskiana. Il carattere del protagonista del primo film di Pasolini, "Accattone", rievoca l'ingenuità e la purezza di Myškin, e stupisce la coincidenza col titolo e l'argomento del bozzetto dostoevskiano del 1873, "Un accattone" (così tradotto da Pacini); del 1968 è un poemetto autobiografico pasoliniano, intitolato "Coccodrillo" (certo anche in allusione al genere giornalistico) proprio come il racconto comico incompiuto di Dostoevskij, "Il coccodrillo" (1865), storia di un piccolo impiegato che preferisce la pancia di un rettile alla propria vita. Persino nei «brutti versi» del friulano e nella poesia come «balbettio» si può intravedere l'eco dello "scrivere male" imputato al romanziere russo in Italia.
Ma soprattutto nelle pagine di "Petrolio" l'autore confessa più volte di intrattenere un atteggiamento «parassitario» [P 500] nei confronti dei "Demoni" e dei "Fratelli Karamazov". Su questo aspetto si concentra principalmente la mia tesi. Carlo è infatti dichiaratamente modellato sul demone Stavrògin [P 494, 500-501]; sua madre Barbara è la Varvàra Petròvna [P 502] di Torino tanto quanto Giulia Miceli, la sua amica-rivale, è «sfacciatamente» [P 494] la Jùljia Michàjlovna della piccola città di provincia dei Besy. Sono inoltre numerosi gli appunti che, sparsi tra la prima e la seconda parte del poema (così l'autore chiama spesso il romanzo), denunciano un costante parallelismo tra le trame delle due opere: da quella che sembra l'idea abbozzata di un capitolo da svolgere «(Storia di Pasquale – Picaro – Smerdjàkov)» [P 50], al progetto di un incontro tra Carlo e Teodoro «ricalcato sull'incontro tra Stavrogin e Fjedka» [P 499]; dal colore della tappezzeria della Sala in cui i nuovi Argonauti, nell'Appunto 36b, vengono ricevuti dallo Scià [P 50] allo «scarlatto della tappezzeria» [P 434] in cui si imbatte Carlo durante la celebrazione della Festa della Repubblica e che è simile in tutto e per tutto alla Sala bianca della festa di Jùlija Michàjlovna. L'attenzione per Dostoevskij si palesa anche nei procedimenti stilistici: Pasolini si appunta infatti dai Karamazov la tecnica attraverso cui aprire nuovi livelli diegetici [P 170].
Le opere di Dostoevskij non sono certo le uniche a comparire in maniera programmatica all'interno del romanzo (e così nell'organico dei materiali che ne costituiscono l'avantesto): sono molti altri i testi cui viene fatta allusione o che vengono persino pedissequamente citati e discussi. Nel controcchiello dell'edizione Mondadori, si legge in riproduzione fotografica la lista di autori e opere che Pasolini si era appuntato nel foglio che apriva il fascicolo del manoscritto di "Petrolio"; ma anche nella trama del poema si incontra una lista: nella valigia di un personaggio secondario, un intellettuale borghese di sinistra, rubata e poi ritrovata in seguito al mercato di Porta Portese, si trovano gli stessi autori e le stesse opere che aprono le carte autografe di Pasolini. Si tratta di una vera e propria bibliotechina molto coerente» [P 95] che non tarda a svelare quanto questo intellettuale sia figura autofinzionale dell'autore del poema: studiarla, allora, aiuta a ricostruire sia il personaggio che la possiede (quello secondario e quello poietico) sia, soprattutto, il rapporto che questi intrattiene con il proprio canone letterario e dunque il ruolo di ciascuno di quei testi all'interno dell'opera.
Occorre precisare, infatti, che l'elenco testimonia che l'atteggiamento di Pasolini nei confronti della tradizione è quello di una serena (ri-)appropriazione dei modelli letterari prescelti. L'autore, come Jan Palach, rifiuta di essere una “bestia da stile”: l'intertestualità del suo poema non è culturalistica, ma semmai indice di un certo livello di raffinatezza [PC II, p. 2900]. In questo senso Pasolini si autodefinisce «austero» [P 124 e P 167]: perché si sente libero di vivere la dimensione liberatoria di quella "allégresse du fabricateur" che Benedetti prende in prestito da Proust – o, per dirla con le parole dell'autore stesso, perché conosce «“la gioia dell'impiego dello strumento conviviale”» [P 124]; e più esaspera e scopertamente riusa questa tradizione più si sente indipendente da quel fenomeno che Harold Bloom ha chiamato l'“angoscia dell'influenza”.
Ma c'è dell'altro: in "Petrolio" sono presenti in tutto quattro citazioni letterali, tutte fortemente sature di significato, oltre a un'intera sezione di Appunti (dal 129 al 129c) in cui Pasolini riscrive (con pochissimi cambiamenti) il capitolo dei "Demoni" intitolato La festa. Tali citazioni rivelano che il legame tra i due scrittori avviene essenzialmente col tramite di due testi critici principali: la monografia di Bachtin sul romanziere russo (tradotta e pubblicata in Italia a partire dal '68) e una serie di saggi di Lukács sul realismo e i grandi romanzieri europei (diffusi in lingua italiana più o meno nello stesso periodo).
Da "Dostoevskij. Poetica e stilistica", attraverso i concetti di carnevalesco, letteratura carnevalizzata e satira menippea, Pasolini impara a dare un nome a un atteggiamento tipico della sua attività letteraria; ed è proprio in relazione a questi principi che Petrolio può essere considerato un «Satyricon moderno» [P 3], un'«opera come scherzo» [P 191]. La Visione del Merda in cui si inserisce una delle quattro citazioni è nel suo complesso una menippea alla maniera del dostoevskiano Bobok: dopo aver rappresentato personaggi che vivono inconsapevolmente il passaggio da un ciclo naturale delle stagioni a un ciclo industriale, Carlo si imbatte in una statua e in un'iscrizione parodica: “Ho eretto questa statua per ridere” [P 412-413]. Poco dopo Pasolini aggiunge: «“Inoltre faccio anche ridere qualche volta, e questo è addirittura prezioso”» [P 414].
Si tratta di due battute tratte dai "Demoni": la prima richiama la scena della Festa in cui Lipùtin, uno della cinquina terrorista organizzata da Verchovenskij, confessa di aver letto la scandalosa poesia del capitano Lebjàdkin solo per scherzo; la seconda (che compare anche in Descrizioni di descrizioni) è l'espressione con cui Pëtr Stepanovič, rivolgendosi a Stavrògin, sostiene di avere in pugno i membri della cinquina: il cemento, dunque, per unire gli uomini e convincerli a commettere qualsivoglia azione è farli ridere e far commettere a tutti insieme un delitto. Entrambe le citazioni fanno supporre un calco dell'intreccio del romanzo dostoevskiano, ma non solo: se la Visione del Merda e insieme tutta l'opera viene definita soltanto uno scherzo [P 413], in polemica ottemperanza a un atteggiamento nichilistico e umoristico tipico del mondo borghese e dei demoni dostoevskiani, ciò avviene perché per Pasolini «Carlo ha disimparato a ridere» [P 414]. Resta solo l'«irrisione programmatica e senza scopo» che muove il borghese anche nei suoi sogni e nelle sue visioni, per cui se tutto è al di là del bene e del male, allora tutto è uno scherzo.
Questa lettura di "Petrolio" viene rinsaldata da altre due citazioni che rinviano all'esigenza parresiastica di svelamento della verità e all'impossibilità di raggiungerla nello spazio e nel tempo euclidei (o semplicemente non divini, direbbe il russo). Tra gli appunti da sviluppare per una serie di capitoli successivi, Pasolini annota questa espressione: «Essi eran lì per dire la verità, ma appunto per questo non l'hanno detta» [P 458]. Tale è la condizione di ogni personaggio dostoevskiano, già a partire dal "Sosia", e sempre più dall'"Idiota" e i "Demoni", negli incontri assoluti di Stavrògin con Šatov, poi Kirìllov e infine Tìchon, fino ad arrivare ai "Karamazov". Come anche in altre opere del friulano, il discorso sulla verità si impone mediato da una “funzione Dostoevskij”: in entrambi gli autori, infatti, la verità non è mai unica e definita o definibile (nel caso di Pasolini, sempre più cinicamente in contrasto con la pratica politica italiana). Come sottolinea Sklovskij e come ricorda Pacini, ogni romanzo dostoevskiano sembra ambire alla conquista di una qualche forma di verità, e ogni romanzo puntualmente delude tale pretesa. Anche certa produzione pasoliniana sembra ribadire qualcosa di simile, ma mentre in "Che cosa sono le nuvole?" la verità non può essere nominata «perché appena la nomini, non c’è più…», e cioè si situa «fuori del linguaggio, fuori della rappresentazione», legandosi a un istante di pura contemplazione; in "Bestia da stile" «la verità / è ambigua, non mista» e in "Petrolio" addirittura non si dà più nemmeno come traguardo momentaneo: la si nega puntualmente, in particolar modo al protagonista Carlo, costantemente teso verso un'ascesi cosmica – come nella scena del pratone della Casilina – di cui però non è mai del tutto all'altezza.
Tuttavia, l'altra citazione sembra evidenziare che accanto al fallimento del protagonista sussiste il successo di altri personaggi: attraverso la complicazione dell'intreccio e la stratificazione di livelli diegetici secondari, l'attualità e l'impegno del romanzo vengono come nascosti ma non per questo abbandonati (anzi!, dice Pasolini in "Empirismo eretico"). Questi altri personaggi, infatti, sono in grado di sopportare rivelazioni e illuminazioni degne degli eroi dostoevskiani. Sono i protagonisti di una serie di Racconti colti incastonati nella trama del poema: Tristram, che si lascia «cadere sull'erbetta fetente di quei giardinetti di Forcella: 'cadere', dico, come San Paolo sulla strada di Damasco» [P 183] per una improvvisa conversione al marxismo; Agostino, che viene illuminato improvvisamente sui desideri e sulla sorte delle due figlie [P 455]; l'ingegner Gianni xxx e Orlando, i due padri dei Bambini-Merda [P 466]; le due spie doppiogiochiste della Storia di un volo cosmico [P 474]. E così i loro narratori raccontano le storie così come sono loro apparse in un «sogno rivelatore» [P 472]. Ma se questi possiedono una «reale dignità di narratori» [P 428], ciò significa che il narratore principale racconta impropriamente la vicenda di Carlo.
Entrano qui in scena, allora, due consuetudini tecniche di cui tratta György Lukács e che Pasolini sembra far giocare stilisticamente e narratologicamente: la narrazione e la descrizione (intese come i due vettori tendenziali che possono regolare l'organizzazione di un testo narrativo: secondo necessità d'intreccio la prima, per un gusto analitico e disgregante la seconda) vengono qui adottate per creare un contrasto tra la cornice, rappresentata dalla vicenda di Carlo, borghese irremissibile attraversato dal proprio mutismo e da fasi approssimative e momentanee di lucidità e autocoscienza, in cui il narratore principale assume come tecnica pervasiva e compiaciuta quella della descrizione; e le vicissitudini degli altri personaggi, che si trovano a gestire in prima persona la propria presenza nel poema e che, raccontando storie tradizionali di eroi eccezionali, canonicamente narrative e in un contesto da Mille e una notte, creano piccoli veri poemi dentro il poema. D'altra parte, anche Siti nota un'oscillazione, a partire dagli anni Sessanta, tra prosa narrativa tradizionale e scrittura antinarrativa che, in seguito, diventerà bisogno di esposizione, ricerca dello scandalo finanche autoptico.
Proprio all'interno di una delle storie incastonate di questi personaggi-narratori secondari, il narratore principale – che si era momentaneamente assentato dal poema – chiosa in una nota il riferimento a Dostoevskij: «...“Siamo come due esseri astratti su un aerostato che si siano incontrati per dirsi la verità” (Dostoevskij, I demoni)» [P 471]. Si tratta delle parole che il Governatore Lembke urla in preda alla febbre a sua moglie e con cui segnala l'urgenza e la solennità della loro condizione e del loro colloquio, che impone un'eccezionale ed estrema sincerità. Questa citazione non ha niente a che vedere con Carlo: non è lui un personaggio che può essere definito “astratto”, sospeso in una dimensione fuori dalla Storia; e non è facile nemmeno intuire con chi potrebbe essere in grado (o volere) intrattenere uno di quei macrodialoghi filosofici e rivelatori che hanno reso Dostoevskij uno dei più grandi romanzieri dell'Ottocento: anche perché né Carlo I né Carlo II sembrano saper parlare. Sono invece davvero astratti, privi di caratterizzazione sociologica, estranei al tempo e allo spazio, questi uomini personaggi-narratori: questi possono davvero essere avvicinati a quegli eroi che Pasolini aveva letto in Dostoesvkij e che aveva ritrovato nelle acute analisi di Bachtin e Lukács.
Infine, però, è solo la prima (in ordine di apparizione nel romanzo) delle citazioni dostoevskiane ad alludere al vero cuore del poema: alla lotta generazionale, nello specifico tra padri e figli che fin dalle pagine iniziali, nel rapporto tra Carlo Valletti e suo padre, e a sua volta tra l'autore e suo padre, Carlo Pasolini, si identifica come uno degli elementi fondamentali per comprendere lo scardinamento dell'unità del protagonista. Ma non solo: come nei "Demoni" è centrale la relazione tumultuosa che si instaura tra i giovani e i loro genitori (effettivi e affettivi), tra il figlio Verchovenskij e la sua cinquina terrorista e Stepàn Trofimovič, padre biologico del primo e padre spirituale degli altri, o ancora tra questi rivoluzionari e i Lembke (marito e moglie); così in "Petrolio" il confronto tra padri e figli si immette sullo sfondo politico, in particolare su quello della strategia della tensione degli anni di piombo.
Proprio del Governatore Lembke, raggirato dal demone Verchovenskij, è infatti la battuta che l'autore riporta: «“Io non ammetto la gioventù. Sono tutti proclami” (detto dal Governatore Lembke, I demoni)» [P 196]. Si tratta di una citazione interessante perché, oltre a denunciare con evidenza il rapporto diretto col romanzo di Dostoevskij, propone una rilettura della relazione tra padri e figli: è, quest'ultimo, un nodo fondamentale dell'intera produzione pasoliniana, come del resto notò tra i primi Foucault; nondimeno è indubbio che qualcosa cambia a partire dalla sua crisi personale, e "Petrolio" testimonia proprio di questa svolta. Se, infatti, inizialmente i giovani e borgatari incarnavano l'innocenza e la speranza di un cambiamento sociale, in seguito alla morte del padre biografico e al movimento studentesco, più o meno all'altezza di "Affabulazione", l'autore torna a riflettere con insistenza sulla lotta tra padri e figli, arrivando finanche a capovolgerne i termini originari: all'altezza delle ultime raccolte poetiche il suo rifiuto di paternità nei confronti delle giovani generazioni non si conclude in un mutismo assoluto, ma sfocia nella scelta di essere «nonno», ossia nella ricerca di un dialogo. Pasolini, cioè, non abiura al proprio ruolo sociale, e anzi esprime un sempre più urgente desiderio di militanza civile: per questo motivo "Petrolio" può essere precocemente situato all'interno della letteratura italiana su stragi di stato e terrorismi rosso e nero, di cui condivide e addirittura instaura alcuni stilemi (come la funzione della dimensione notturna, che gli deriva direttamente da Dostoevskij) e almeno due chiavi di lettura (quella della distopia complottista – e qui atrocemente profetica – e quella, appunto, del conflitto generazionale).
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