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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-09042018-204725


Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica LC6
Autore
BARTOLINI, DARIA
URN
etd-09042018-204725
Titolo
Gestione dei pazienti psichiatrici durante la Prima Guerra Mondiale: epidemiologia, istituzionalizzazione e società.
Dipartimento
RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di studi
MEDICINA E CHIRURGIA
Relatori
relatore Prof.ssa Dell'Osso, Liliana
Parole chiave
  • PTSD
  • Prima Guerra Mondiale
  • Post Traumatic Stress Disorder
  • fattori epidemiologici
  • disturbo psichiatrico
  • disturbo post traumatico da stress
  • sociali
Data inizio appello
25/09/2018
Consultabilità
Completa
Riassunto
Il disturbo post traumatico da stress (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD) è una condizione caratterizzata da un peculiare quadro psicopatologico, dovuto all'esposizione diretta o indiretta ad un evento traumatico di gravità oggettiva estrema, che supera le normali capacità di adattamento come ad esempio, attacchi terroristici, guerre, catastrofi naturali, gravi malattie, episodi di violenza sessuale o fisica, morte violenta e inaspettata di una persona cara. Contraddistinta da un decorso tendenzialmente cronico con scarsa risposta ai trattamenti farmacologici e un considerevole peggioramento della qualità della vita. (APA, 2013)
Nel corso del tempo sono state effettuate numerose indagini sul PTSD per individuarne le eventuali basi neurobiologiche, le caratteristiche cliniche, le comorbidità e i potenziali fattori di rischio. Tra questi ultimi, i principali sono stati identificati nella gravità e tipologia dell’evento traumatico, nel sesso, età, condizioni di povertà e indigenza, professione lavorativa svolta e infine nell’anamnesi positiva per disturbi psichiatrici.
Nonostante la storia del trauma psichico sia molto antica, al punto che la descrizione di quadri clinici, assimilabili alla moderna denominazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), possa essere già individuata nella letteratura del passato, soltanto nella terza edizione del DSM del 1980 (APA,1908), in seguito agli effetti catastrofici provocati dalla guerra del Vietnam, compare nella nosografia psichiatrica moderna. La novità sostanziale introdotta dai curatori del DSM-III, fu quella di voler consolidare l’idea di una patologia psichica in cui l'agente eziologico si trova al di fuori dell'individuo e corrisponde all’evento traumatico, piuttosto che una debolezza individuale intrinseca (cioè una nevrosi traumatica).
Inizialmente, gli studi sul PTSD si incentrarono sui conflitti militari, tuttavia, nel corso del tempo, rientrarono in questa definizione anche le catastrofi naturali e un’ampia serie di esperienze quotidiane sperimentate dalla popolazione civile, come incidenti automobilistici, esplosioni di fabbriche, vittime di stupro, rapine, violenze e ritenute traumi psichici.
In seguito, alcuni autori, sono riusciti ad evidenziare come un gran numero di persone, nonostante fossero state esposte ad un evento traumatico qualificante, non riuscivano a soddisfare i criteri sintomatologici proposti dal DSM e quindi non sviluppavano un quadro di PTSD completo.
Per questo motivo è nata una collaborazione internazionale di ricerca che ha coinvolto la clinica Psichiatrica dell’Università degli Studi di Pisa e altri ricercatori di Università Americane, permettendo lo sviluppo di un nuovo modello di approccio clinico al PTSD: lo Spettro Post Traumatico da Stress o Trauma and Loss Spectrum (TALS). Il Trauma and Loss Spectrum (TALS) è stato sviluppato nell'ambito dello spectrum project e si basa su un approccio dimensionale alla psicopatologia che considera clinicamente rilevanti non solo le manifestazioni conclamate di PTSD ma anche i sintomi atipici e sotto soglia, talora espressione di tratti stabili comportamentali associati a costrutti diagnostici.
Il TALS prevede sia l’intervista clinica strutturata, la Structured Clinical Interview for Trauma and Loss Spectrum (SCI-TALS), sia il relativo questionario, il Trauma and Loss Spectrum – Self Report (TALS-SR). Entrambi gli strumenti sono costituiti da 116 voci con risposta dicotomica (sì/no), raccolti in 9 domini che indagano, nell’arco della vita, la presenza di sintomi di spettro riconducibili ad una serie di eventi potenzialmente traumatici e/o di perdita e inoltre analizzano le caratteristiche individuali e/o i fattori di rischio per lo sviluppo del disturbo e di comportamenti maladattativi che potrebbero essere messi in atto dai soggetti.
Nel 2013 è avvenuta la pubblicazione della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), che ha apportato una serie di revisioni ai criteri sintomatologici del Disturbo Post Traumatico da Stress, con importanti implicazioni sia concettuali sia cliniche.
Il PTSD (APA, 2013) non è più classificato come Disturbo d'Ansia ma è stato incluso in una nuova categoria, ovvero i Disturbi correlati al Trauma e ad Eventi Stressanti - Trauma and Stress Related Disorders – dove il requisito fondamentale per fare diagnosi è rappresentato dall’esposizione all’evento stressante. In questa categoria diagnostica sono stati inclusi altri disturbi come il disturbo dell'adattamento, il disturbo reattivo dell'attaccamento, il disturbo disinibito dell’attaccamento, il disturbo acuto da stress e infine i disturbi correlati a trauma ed eventi stressanti non altrimenti specificati. Per fare diagnosi di PTSD è necessaria la presenza del Criterio A, riguardante l’esposizione al trauma, di quattro criteri sintomatologici (Criterio B, C, D, E), oltre alla durata (Criterio F) e alla compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Criterio G e H).
Sebbene oggigiorno la definizione di trauma nel PTSD comprenda numerosi eventi come le catastrofi naturali e un’ampia serie di esperienze quotidiane traumatiche, nel passato è stato determinante il contesto militare, che ha permesso di studiare, classificare e analizzare a fondo i quadri psicopatologici evidenziati sui soldati.
Infatti, in ambito psichiatrico, la Prima Guerra mondiale (1915-1918), ha rappresentato un’importante opportunità nel rilevare l’esistenza di una strana malattia, la nevrosi traumatica o da guerra, di fronte alla quale la psichiatria italiana iniziò a vacillare tra il vecchio e il nuovo. Il vecchio, era rappresentato dall’idea che la malattia mentale fosse determinata da una predisposizione ereditaria; il nuovo, indirizzava ad ammettere, seppur con fatica, che la possibilità del disturbo mentale potesse avere un’origine psichica, di natura emozionale.
Sia per la durata sia per la violenza del conflitto, la psichiatria fu obbligata a far fronte ad un’enorme massa di malati mentali provenienti proprio dalle trincee del fronte, massa che necessitava di diagnosi e possibili cure, ancora sconosciute alla medicina di allora. La maggior parte del personale sanitario si trasferì in trincea, e nei manicomi rimasero pochi psichiatri e infermieri che dovettero far fronte al notevole aumento dei ricoveri di soldati, in particolar modo avvenuti successivamente alle vicende del 24 ottobre 1917 – battaglia di Caporetto.
Lo scopo di questo studio è quello di investigare la correlazione tra le diagnosi e le caratteristiche sociodemografiche di una popolazione trattata fuori dal manicomio, ovvero in un reparto dell’ospedale universitario pisano del secolo scorso e di provare a fornire materiali utili per ricostruire una storiografia complessa e multifattoriale. L'obiettivo secondario è quello di provare a delineare la logica medica di gestione e dimissione dei ricoverati civili e militari, durante la Prima Guerra Mondiale.
I dati analizzati nei registri clinici dal 1907 al 1918 hanno fornito un’immagine della pratica clinica psichiatrica di Pisa estremamente intrecciata con il contesto istituzionale di questa specifica area geografica. La Clinica pisana ha cercato, nel tempo, di neutralizzare i problemi sociali e legali legati alle malattie mentali, salvaguardando sia i pazienti, sia la società durante le fasi più acute della malattia. Il ricovero dei soggetti, che principalmente giungevano dalle aree rurali della provincia di Pisa, risultava essere piuttosto breve e molto spesso mirava ad identificare un membro della famiglia che si assumesse la responsabilità legale del paziente, allo scopo di evitare il confinamento in un manicomio; infatti attraverso questa modalità di gestione del malato, nettamente a sfavore della istituzionalizzazione, è possibile rilevare come la Clinica anticipi l’attuale condotta direzionale della psichiatria territoriale. Tuttavia, nel periodo di sovraffollamento manicomiale, va considerata la sua importante funzione di “filtro” che permetteva il trasferimento di pazienti più cronici presso il Frenocomio di Volterra.
Sebbene la cura psichiatrica nella Clinica Pisana, era spesso orientata al trattamento dei disturbi acuti, analizzando i dati dal 1907 al 1918, è stato possibile individuare il razionale decisionale che spingeva a scegliere il trasferimento manicomiale piuttosto che la dimissione in prova.
Al riguardo, solamente in alcuni casi, riferiti a pazienti privi di supporto famigliare o con disabilità cognitive (sia senili, congenite o acquisite) invasive e croniche, si optava per il trasferimento in manicomio. Ciò tracciava la realtà di come, nei primi anni del XX secolo, l’affollamento manicomiale fosse rappresentato da pazienti affetti da patologie, che oggi (e in parte anche allora), si potrebbero definire più neurologiche che non psichiatriche.
Infatti, come sopra accennato, la tendenza della Clinica di Pisa, nei primi del Novecento, era quella di dimettere il paziente, valutando non solo la diagnosi clinica ma anche le contingenze individuali (demografiche e epidemiologiche) che al tempo stesso, consentivano un buon margine per le eccezioni.
In conclusione, la Clinica sceglieva il trasferimento manicomiale, attraverso una attenta valutazione dei fattori clinici e dei fattori sociali, ovvero dando importanza sia alla cronicità del quadro clinico del paziente sia all’isolamento sociale/famigliare (rilevato dalla mancanza di coniuge) piuttosto che alla pericolosità e dall’acuzie.
Tuttavia, sempre dall’analisi dei registri clinici, durante la Prima Guerra Mondiale, si evidenzia una logica gestionale dei pazienti differente rispetto al periodo non bellico.
Nelle fasi più intense del conflitto, la cura psichiatrica nella Clinica, nei confronti dei malati ricoverati aumentò, così come aumentarono i trasferimenti in manicomio. Tra i pazienti ricoverati, i civili venivano maggiormente trasferiti in manicomio rispetto ai soldati; tuttavia, anche se il campione di soldati ricoverati risulta essere poco significativo, è possibile ipotizzare che l’assenza di un riconoscimento nosografico della patologia causata dall’ evento bellico potesse esser la causa di un’assenza di istituzionalizzazione e conseguentemente costringeva i militari a riprendere subito servizio dopo il congedo. Questo dato fa riflettere sulle motivazioni che hanno portato la psichiatria italiana e non, a dubitare dell’eziologia traumatica del disturbo.
Sempre nello stesso periodo, i pazienti ricoverati risultarono essere più giovani, in prevalenza uomini e soprattutto la durata dei ricoveri risultò essere più breve. Così, all’aumento dei ricoveri, la Clinica pisana rispondeva riducendo la durata dell’ospedalizzazione, probabilmente da una parte cercava di evitare un conseguente sovraffollamento, dall’altra, nel corso della guerra la Clinica attraversò un periodo di crisi finanziaria che si rifletteva sulla capienza effettiva e sulla capacità di trattenere i pazienti; confermando così la linea l’aumento dei trasferimenti manicomiali e/o del licenziamento dei pazienti.
In conclusione, la Grande guerra, sia per la durata, sia per la violenza del conflitto, ha sicuramente fornito l’opportunità, ai medici del tempo, di mostrare l’esistenza di una malattia, fino ad allora priva di etichetta diagnostica specifica.
Le analisi dei registri clinici della Clinica Pisana hanno mostrato in maniera coerente con la realtà del tempo, uno spaccato delle difficoltà rilevate dalla psichiatria italiana nella gestione del trauma ad eziologia bellica, dovute principalmente al mancato sviluppo della psichiatria dinamica nel territorio nazionale e alla visione organicistica lombrosiana del disturbo. È oltremodo importante riflettere su come fosse comprensibile, leggere questo disturbo come sabotaggio o scambiarlo per fenomeno che si manifestava in militari che non riuscivano a controllare i propri contenuti psichici.
Prima di poter essere considerato in ambito psichiatrico, il concetto di trauma bellico subirà un processo di psicologizzazione lungo e complesso; sarà infatti necessario aspettare gli effetti devastanti della guerra del Vietnam, per permettere lo sviluppo di una nuova diagnosi e per riconoscere la patologia manifestata come Disturbo Post-Traumatico da Stress – PTSD.
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