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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-08312012-150152


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
BIAGI, FRANCESCO
URN
etd-08312012-150152
Titolo
Il problema della democrazia fra politica e dominio
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Pezzella, Mario
Parole chiave
  • rivoluzione
  • servitù volontaria
  • tumulti
  • democrazia insorgente
  • democrazia
  • totalitarismo
  • società dello spettacolo
  • Comune di Parigi
  • consigli operai
Data inizio appello
27/09/2012
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
27/09/2052
Riassunto
IL PROBLEMA DELLA DEMOCRAZIA FRA POLITICA E DOMINIO [ABSTRACT]

Nel discorso politico odierno il termine democrazia sembra raccogliere un consenso molto ampio, diventando ormai il riferimento principale a giustificazione di ogni scelta operata in nome del popolo sovrano. È diventato ormai il leitmotiv assoluto di chiunque voglia occuparsi di politica al mondo d'oggi: tutti si dichiarano a favore della sua estensione ed “esportazione”. La volontà di comprendere che cosa accade allo statuto della democrazia oggi è il vero oggetto di questa tesi. Ho ritenuto fondamentale ripercorrere la sua evoluzione seguendo le aporie che più la caratterizzano. L'ipotesi che avanzo – con Guy Debord – è quella che il sistema economico-politico dello Spettacolo abbia non solo impedito alla radice la nascita di un'autentica pratica democratica, ma anche compiuto un vero e proprio detournement dei principi della democrazia.
Nella prima parte infatti viene decostruita l'evoluzione storica della democrazia dal secondo dopoguerra ad oggi. Nonostante la sconfitta militare del fascismo e del nazismo crediamo che alcuni tratti autoritari abbiano continuato ad essere parte della vita politica degli stati democratici europei. I caratteri della sovranità hanno assunto forme molto diverse, trovando di volta in volta nuove modalità di legittimazione. Questo non significa banalizzare il totalitarismo ed evocarlo come un feticcio ogni qual volta vi sia un attacco alle libertà fondamentali, ma comprendere le dinamiche politiche che pongono il problema della democrazia sempre al centro fra un campo di idee e pratiche autoritarie e un altro campo di idee e pratiche aperte alla libertà, al protagonismo dell'agire-in-comune degli uomini.
La lucida analisi di Debord presente ne La società dello Spettacolo1 ci ha permesso di analizzare i moderni stati democratici in relazione al sistema economico-politico capitalista. Lo Spettacolo si costituisce come la forma economico-politica da cui deriva l'istituzione giuridico-politica delle democrazie liberali. La fenomenologia dello Spettacolo (caratteristico della nuova fase che il capitalismo vive dopo le due guerre mondiali) si è rivelata cruciale per analizzare la riformulazione che ha subito lo statuto della democrazia liberale. Essa è stata capace non solo di surrogare nella società del benessere le richieste avanzate dalle classi subalterne, ma anche di rendere innocua qualsiasi autentica forma di contestazione. L'esito fondamentale dello Spettacolo è il rapporto falsato che intercorre nel tessuto relazionale fra-gli-uomini, i quali spendono il loro tempo di vita tra la produzione di merci e il consumo di quest'ultime nei godimenti del tempo libero. I valori borghesi del lavoro e del profitto hanno sovradeterminato il politico, imponendo un'organizzazione della vita umana incompatibile con l'idea democratica.
Parallelamente abbiamo identificato anche i limiti di quel regime che si identificava come il più imponente antagonista del modello occidentale: l'Unione Sovietica. L'analisi del totalitarismo fascista e stalinista viene introdotta attraverso la comprensione dell'involuzione della fantasmagoria della merce e dello “stato d'assedio” che attua nell'estrema difesa del dominio che impone. Abbiamo tentato quindi di decifrare il surrogato spettacolare che il sistema liberalcapitalistico e il sistema del socialismo reale hanno compiuto – ognuno con modalità differenti – dei concetti di libertà e uguaglianza. Sullo sfondo abbiamo dimostrato il ruolo cruciale che il dominio della merce ha avuto in entrambi i regimi, dando vita da una parte ad un capitalismo liberale dall'altra ad un capitalismo burocratico di stato.
Jacques Rancière, accanto a Debord, mette in luce l'esclusione operata dai dispositivi polizieschi statuali, i quali ricreano una divisione sociale non solo fra i governati e i governanti, ma anche fra chi può essere riconosciuto e veduto nello spazio della cittadinanza, e chi invece non ne ha titolarità essendo condannato alla superfluità e al mutismo.2 Rancière ci ha condotto nel cuore delle dinamiche di potere, demistificando il significato che assume la democrazia nel farsi regolatrice di sistemi che rimangono oligarchici e impermeabili alle istanze che giungono dal basso. Rancière distingue meticolosamente la sfera della politica (in senso stretto) e la sfera del potere/dominio (polizia) che si cristallizza nello Stato. Politica e Polizia sono le due forze che si contendono il terreno del politico. Alla base di questa disputa vi è un torto originario che prende forma nell'autorappresentazione che lo stato democratico dà di sé come realizzazione ultima della libertà e dell'uguaglianza. L'esistenza del torto è la possibilità stessa di trasformare l'ordine poliziesco, la verifica dell'uguaglianza si compone nel riconoscimento e nella capacità di istituire una scena di contestazione del torto. Rispetto alla staticità delle forme di dominio la verità della democrazia si svela attraverso l'eccezionalità dell'irruzione nella scena politica della parte esclusa che, in nome dell'uguaglianza inscritta solo formalmente nei testi giuridici, chiede un pari riconoscimento. La politica mette in forma nuove presenze, nuovi protagonisti, dischiude spazi di soggettivazione per coloro i quali non erano contati nella ripartizione gerarchica della società.
Nella seconda parte abbiamo ripreso l'esperienza della Comune di Parigi (attraverso la descrizione dei testi di Marx)3 come esempio storico concreto di un'azione politica insorgente. Ne è emerso una contrapposizione insanabile fra l'essere-in-comune degli uomini (per definizione plurale) e il potere dell'Uno, dei mezzi polizieschi dello Stato. La riflessione ci ha condotto su quale tipo di istituzioni può darsi una democrazia di tipo insorgente, che intende sottrarre la natura plurale della sfera comune degli uomini alla dominazione della forma-Stato. Sull'esempio della costituzione comunale che gli insorti parigini idearono nel 1871 la democrazia si caratterizza come essenzialmente antistatuale - insofferente “all'imposizione unitaria di una istanza prima al molteplice”4 - e aperta invece al dispiegamento della pluralità umana. Se lo Stato si erge sopra la società con la sua immensa burocrazia e stratificazione sociale, i comunardi hanno invece pensato un governo consiliare, orizzontale, sottoposto al controllo sovrano di tutti. Come Rancière vede nella democrazia l'assenza dell'archè (di un principio primo che imprigiona la politica e la titolarità del suo esercizio) così i comunardi hanno tentato di realizzare una democrazia non sovradeterminabile da una particolare forza o potere, ma che pensasse le istituzioni politiche repubblicane come lo spazio comune su cui costruire l'emancipazione. È dentro questo solco che si instaura la dialettica della democrazia contro lo stato,5 organo politico che invece riconduce tutto al principio dell'Uno, per ricordare La Boetie.6 La pluralità e la divisione democratica sono la questione indomabile dello Stato-Uno.
La terza parte segue le riflessioni di due filosofi, Claude Lefort e Hannah Arendt, i quali hanno scelto di riflettere sulla questione democratica a partire dallo statuto del totalitarismo, consapevoli delle problematiche che potrebbe sollevare questa strada, molto strumentalizzata da chi si è opposto ai totalitarismi sempre dalla parte del libero mercato (Debord direbbe dalla parte dello Spettacolare diffuso). Lefort ripercorre le origini della nascita del processo democratico in Europa e, a partire dagli studi di Toqueville7 e Kantorowicz8 sull'Antico Regime, chiarisce come la rivoluzione democratica9 iniziata in Francia nel 1789 abbia disincorporato il luogo del potere precedentemente occupato dall'immagine del corpo del Re, a metà fra la legittimazione divina e umana. Il popolo parigino nel rivendicare “libertà, uguaglianza e fraternità” decide per la prima volta nella storia di destituire il luogo del potere e colui che lo occupa, proponendo un'idea politica inedita, ovvero il fatto che nessun uomo ha maggiore o minore titolarità per occupare quel luogo. Questa è l'autentica implicazione politica dell'uguaglianza. L'assenza di una legittimità particolare, data dalla scoperta che l'uomo fa dell'eguaglianza e della condizione di pluralità in cui vive, dà vita ad uno spazio politico democratico come luogo vuoto (potenzialmente è occupabile da chiunque, ma nessuno ha una titolarità particolare per ricoprirlo). Il luogo del potere ormai liberato dal re-occupante si scopre vuoto ed esercitabile da tutti, ma si scopre anche diviso: l'Unità non è più praticabile, il sapere, il potere e la legge diventano istanze diverse, autonome e fra loro entra a far parte della vita politica la dimensione del conflitto. Il concetto di “divisione del sociale” Lefort lo pensa nella lettura di Machiavelli10 e nell'origine antropologica di due umori contrapposti: il desiderio dei Grandi di comandare e il desiderio del Popolo di non essere oppresso.11 Per Machiavelli i conflitti politici (tumulti) della Repubblica romana fra Senato e Plebe furono il motivo principale della libertà della Repubblica romana.12 Lefort ha in mente un'immagine della società che si fa carico del conflitto, che è capace di vincere i tentativi di tirannia che si pongono innanzi. L'azione politica riacquista un senso che perderebbe immediatamente se il ragionamento iniziasse con il discorrere sul miglior governo. Egli progetta un punto di vista inedito, proietta l'azione politica nell'atto democratico di chi è escluso (sotto ricatto, oppresso) e cerca la libertà.
Hannah Arendt invece approfondisce quale originale tipo d'esperienza umana sorge nel totalitarismo. L'esperienza totalitaria si caratterizza essenzialmente per l'attacco che sferra alla possibilità dell'uomo di vivere e tessere con altri suoi simili delle relazioni che riguardano le faccende (politiche) umane, compromettendo del tutto la sua capacità di agire, l'unico vero spazio inedito e imprevedibile della condizione umana. Il dominio totalitario rappresenta la negazione più radicale della libertà, ma non per questo l'elemento cruciale che lo contraddistingue affiora nei suoi stretti legami con la tirannia. Questa particolare forma di dominio, che ha per natura il terrore e come principio l'ideologia, porta l'essere umano a vivere un'esperienza politica inedita, ovvero la desolazione, l'estraniazione dal mondo,13 quell'esperienza che provoca nell'uomo la sensazione di non sentirsi più parte del luogo che abita, poiché viene meno la condizione di pluralità delle relazioni e delle faccende umane. Attraverso l'isolamento viene distrutta la sfera politica della vita, ovvero quello spazio dove gli uomini hanno la possibilità di operare avendo l'occasione di perseguire una volontà comune.14 La “morsa di ferro”15 del totalitarismo stritola gli uomini fra loro, li comprime neutralizzando le peculiarità singolari che lo contraddistinguono e cancellando la capacità di essere comunità a partire da questa diversità. L'azione umana sarebbe caratterizzata da “un'infinita improbabilità”, e l'uomo nell'evento totalitario dimentica lo stupore per la politica,16 quello stupore di vivere fra i propri pari in libertà. L'idea di libertà di cui parla Arendt non riguarda la moderna costellazione che rimanda al libero arbitrio (potremmo dire al modello di uomo-individuo racchiuso nei teorici della democrazia liberale), ma riprende la tradizione andata perduta del concetto di libertà greco, teso verso un regime di riconoscimento reciproco fra pari, quindi di uguaglianza nella libertà comune. L'esperienza della polis e la pratica democratica consiliare e comunalista è per Hannah Arendt l'unico riferimento politico per l'idea democratica.
La quarta e ultima parte attraverso la lettura che fa Abensour del pensiero arendtiano mette in evidenza la particolare relazione nel pensiero occidentale fra filosofia e politica. Arendt intravvede nel pensiero platonico il primo tentativo di creare una forma di autorità e di dominio al di sopra dell'esperienza democratica nata nella polis. Solo in Kant ella riconosce l'unico polo di resistenza nella storia della filosofia, e la sua originale interpretazione della Critica del giudizio ci aiuta a comprendere quale terreno politico intraprendere per iniziare a poter praticare un'idea democratica maggiormente autentica. Lontani da possibili soluzioni compiute, ritroviamo nell'idea democratica consiliarista e insorgente un atteggiamento e una pratica politica che risponda alle aporie poste dall'invenzione democratica sorta nella rivoluzione francese. Le forme democratiche consiliari e comunaliste quindi si configurano per Arendt (in sintonia con Debord e i situazionisti) come “spazi di libertà”,17 che lontani dal voler essere organi solamente temporanei, cercarono invece di essere proprio la “speranza in una trasformazione dello stato”18 verso la declinazione di istituzioni concretamente egualitarie (che non perdessero la loro natura insorgente e selvaggia come direbbe Lefort19). I consigli rimasero sepolti fra le macerie del secolo corso perché pochi furono coloro che seppero riprendere questo “tesoro perduto” schiacciato dallo Stato-nazione e dallo Spettacolo. Nei consigli la vicinanza umana si trasformò in un'istituzione politica, il tessuto sociale esistente fra-gli-uomini si istituiva politicamente come possibilità di uguaglianza, di partecipazione nei pubblici affari delle faccende umane. La prossimità diventò comunanza politica. L'autogestione dal basso proposta dai consigli permetteva quello spazio di pubblico dibattito e cura collettiva delle res politicae che fino ad allora nessun modello democratico aveva compiuto. I pochi compiti rappresentativi non riguardavano la rappresentanza nel significato tradizionale che è venuta ad assumere, ma erano degli incarichi esecutivi circoscritti, verso i quali era prevista la revoca se non fossero stati compiuti. L'assemblea consiliare concordava e mediava le decisioni da prendere nella discussione aperta e plurale dove gli uomini potevano conoscersi e sperimentare concretamente la loro philia politica.
Se il politico vuole definirsi nei termini democratici, deve darsi in quanto regime di libertà, ovvero in un'organizzazione che valorizzi l'azione e la decisione collegiale da parte di tutti gli uomini. Non vi sono verità immutabili che definiscono a priori questo spazio (senza arche),20 ma solamente la ricerca concertata, nel libero confronto delle opinioni, andrà a definire di volta in volta la sua istituzione.
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