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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-07262008-123938


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
NATALI, ANTONIO IVAN
URN
etd-07262008-123938
Titolo
Le nuove nullità di diritto speciale
Settore scientifico disciplinare
IUS/01
Corso di studi
DIRITTO PRIVATO
Relatori
Relatore Prof. Paladini, Mauro
Parole chiave
  • nullità speciali
Data inizio appello
23/09/2008
Consultabilità
Parziale
Data di rilascio
23/09/2048
Riassunto
Nell’ambito della generalizzazione degli strumenti giudiziali posti a tutela d’interessi - per il legislatore, meritevoli di tutela - rientra anche la frantumazione delle ipotesi di nullità che divengono, nel loro operare, concreta espressione di un “generale principio di proporzionalità” attuante valori di per sé di rango costituzionale e “potenzialmente informante tutta l’attività d’interpretazione, di controllo della meritevolezza degli interessi concretamente perseguiti dalle parti, d’individuazione della normativa da applicare al caso concreto” . Principio cui il legislatore - “nella direzione di un recupero dell’equilibrio (e della giustizia «materiale») nel contratto” - ha dato attuazione, non solo prevedendo ipotesi d’inefficacia o d’invalidità della clausola o del negozio, ma anche prescrivendo o prevedendo: a) l’informazione e la chiarezza (trasparenza) nella fase precontrattuale e di svolgimento del rapporto; b) il controllo formale nell’ambito del quale si inserisce il controllo del contenuto necessario del contratto; c) un diverso controllo di tipo sostanziale (il senso di ciò si coglie ancor meglio osservando anche le recenti applicazioni giurisprudenziali) nei rapporti di equilibrio tra le parti; d) strumenti legati allo scioglimento volontario ed unilaterale, accordati alla parte “debole” (ipotesi speciali di recesso-pentimento senza risarcimento a favore dell’altra parte e dal cui esercizio risultano colpite non l’efficacia per l’avverata condicio, ma la costitutiva completezza strutturale della fattispecie e la sua validità ); f) strumenti di reazione che possono definirsi anomali (cfr. art. 1815 c.c.), e come tali forieri di problemi sistematici gravissimi per il civilista; g) strumenti di legittimazione processuale “collettiva”; h) i correlati provvedimenti inibitori.
Sembra, quindi, doversi tralasciare - perché contraddetta dall’oggettiva evoluzione del nostro sistema ordinamentale - l’opposta tesi che nega fermamente che possa individuarsi “una spinta verso la ricerca di un naturale e presupposto equilibrio tra le prestazioni, in una prospettiva limitata alla considerazione della congruità dello scambio nel contratto” .
Tornando alle nullità, si è visto come le nullità “europee o di derivazione comunitaria” - conseguenti alla predetta proliferazione - offrano uno scenario profondamente mutato rispetto al tradizionale impianto concettuale e normativo della nullità codicistica e, in particolare, rispetto alle cause genetiche della medesima. Alcune di esse - come quelle attinenti alla patologia della causa -risultano del tutto ignorate, laddove altre - che attengono all’oggetto e ai suoi requisiti - non sembrano allontanarsi dal solco del sistema codicistico. In primis, si pensi alle fattispecie di nullità virtuale.
É evidente il riferimento all’ipotesi di contratto che si ponga in contrasto con una norma penale (come quello che intervenga in conseguenza di una circonvenzione d’incapace) o del difetto di forma in relazione al contenuto essenziale di un contratto di multiproprietà o che - più in generale - abbia ad oggetto un diritto su bene immobile. Al riguardo, giova rammentare come si sia pervenuti alla conclusione che il decreto legislativo n. 427 del 1998 sanzioni, con la nullità, la sola carenza della forma scritta anche se all’omessa indicazione del contenuto prescritto come obbligatorio deve essere parificata, quoad effectum, l’indicazione incompleta, circonvoluta o incomprensibile.
Si è visto come il carattere necessariamente residuale del rimedio della nullità virtuale sia da intendersi, per la giurisprudenza prevalente, in senso formale, ragione per la quale la nullità non sarebbe dichiarabile o esperibile ogni qualvolta il legislatore abbia previsto un rimedio di natura diversa astrattamente idoneo al raggiungimento dell’obiettivo di tutela sotteso alla fattispecie concreta. E ciò anche se l’interessato, in concreto, non abbia potuto fruirne, indipendentemente dalla circostanza che tale impossibilità gli sia o meno imputabile .
Quanto ai criteri cui l’interprete deve ricorrere, al fine di sostenere la ricorrenza di tale tipologia di nullità, si ricorda come - laddove sia assente un indice più o meno univoco della volontà legislativa - è possibile fare riferimento, in primo luogo, alla natura dell’interesse sotteso alla fattispecie all’esame del giudice. Solo la rilevanza pubblicistica dell’interesse sotteso alla fattispecie - ovvero il suo carattere trascendente rispetto alle finalità perseguite dai privati - consente di argomentare l’applicabilità della nullità in luogo di un diversa sanzione; sanzione, peraltro, anch’essa virtuale in quanto priva di un’apposita base testuale.
Nondimeno, si è sottolineata anche la non assolutezza di tale criterio, come desumibile, peraltro, dalla previsione della sanzione della nullità come conseguenza della violazione di norme imperative che non sottendevano un interesse di tipo pubblicistico o per le quali la presenza del medesimo poteva dirsi quanto mai dubbia (divieto di patti successori, cosi come il divieto di patto di quota lite ex 2233 c.c.) . Ciò - come si è avuto modo di precisare - sempre che non si voglia ritenere - accedendo ad una tesi che pecca di artificiosità - che l’interesse privatistico, nelle ipotesi in questione, sia stato elevato dal legislatore a rango pubblicistico.
Oltre alla non infallibilità del criterio qualificatorio fondato sulla natura dell’interesse leso, si è avuto modo di evidenziare la non assolutezza dello stesso principio che fa dipendere la nullità dalla natura imperativa della norma, esistendo norme di carattere imperativo che - peraltro, in piena sintonia con l’art. 1418 c.c. - riconnettono alla violazione di una norma imperativa una sanzione diversa dalla nullità.
Si ricorda inoltre come, in sede interpretativa, in presenza di un’ipotesi di nullità, per così dire, inespressa o implicita, non si ricorra automaticamente all’ulteriore qualificazione di nullità di carattere protettivo, con conseguente limitazione dei soggetti legittimati a farla valere; il principio in questione, affermato in relazione alla disciplina dell’intermediazione finanziaria, non preclude in alcun modo che ad una conclusione similare si possa arrivare in via interpretativa.
Ma se la dilatazione dell’ambito operativo della nullità (anche se virtuale e, semmai, relativa) non è censurabile, ma è - anzi - da incentivare in quanto rispondente a comprensibili esigenze di tutela, non può accettarsi il già menzionato orientamento interpretativo - censurato dalle Sezioni Unite del 2007 - che perviene a ricomprendere nella categoria della nullità anche ipotesi di non corretto funzionamento del sinallagma e che, dunque, pretende di trarre un principio di carattere generale da alcune fattispecie normative che inseriscono il comportamento contrattuale delle parti tra i requisiti di validità del contratto.
É inutile ribadire come non si possa derogare al loro carattere tassativo e, quindi, di stretta interpretazione. Inoltre - come già affermato - non può pervenirsi a differente conclusione, argomentando dalle ipotesi, pur menzionate dall’ordinanza, di assenza in capo ad una o entrambe la parti di requisiti soggettivi ad esse richiesti, proprio perché le medesime attengono proprio al momento genetico dell’atto e non ad una fase antecedente o successiva.
Laddove si aderisse alla tesi di una nullità, ricomprensiva anche dei vizi funzionali, si violerebbero gli stessi principi informatori del sistema che impongono di limitare le cosiddette invalidità alle fattispecie in cui ricorra un’anomalia in relazione al cosiddetto momento genetico o formativo.
D’altra parte, si ribadisce come la soluzione prospettata in alternativa dalla Cassazione, ovvero la dilatazione degli art. 1337 e ss. al di là del loro tradizionale ambito operativo - che è quello delle trattative - sembra peccare dell’assenza di uno specifico fondamento normativo, non essendo richiamabile al riguardo, proprio in conseguenza della sua generalità, il disposto dell’art. 1337 c.c..
Nondimeno, a favore della ricostruzione della Cassazione del settembre 2005, può affermarsi che indubbiamente il dovere di comportarsi secondo buona fede nella formazione del contratto ricomprende anche il dovere di trattare “in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto”.
Senz’altro meno censurabile - per l’assenza di una portata realmente eversiva -appare quella legislazione, sempre - ovviamente - di origine comunitaria, la quale - derogando, in misura crescente, al tradizionale principio privatistico, secondo il quale la correttezza e la buona fede possono essere foriere di conseguenze giuridicamente rilevanti, esclusivamente, sotto il profilo della responsabilità delle parti, e non anche della validità dell’atto - “ha aperto brecce sempre più ampie alla penetrazione nella sfera degli atti di autonomia privata di un sindacato di proporzionalità e di equità, condizionante la validità della clausola pattizia”. Infatti, a parte la condivisibilità del riferimento operato alla buona fede - la si intenda in senso oggettivo oppure in termini soggettivi -, non pare confutabile che la - già analizzata - disciplina del credito alle imprese contiene una previsione di nullità che - come si è visto - risulta disancorata dal tradizionale riferimento ad un parametro di stretta legalità
Ad essere oggetto di sindacato è l’equità dell’assetto contrattuale ovvero la stessa idoneità del contratto ad assicurare un effettivo equilibrio sotto il profilo normativo e, dunque, dell’insieme di regole e doveri comportamentali cui sono tenute le parti.
Al di là delle normative di settore, attualmente si assiste al tentativo del legislatore di estendere l’ambito applicativo del “principio sicuramente ispiratore di gran parte della normativa speciale (il principio di buona fede oggettiva), nel senso di concedere una tutela consistente nella possibilità di far dichiarare «invalido» (sui contenuti di tale invalidità sarebbe pertinente una trattazione ex professo), o più propriamente «nullo», l’accordo che tale principio generale viola” .
Coerentemente con tal ordine di considerazioni, dovrebbe essere logico propendere per una qualificazione della buona fede di cui al Codice del consumo come buona fede oggettiva, intesa come limite all’esercizio del proprio contrattuale che non può estrinsecarsi nell’inserimento di clausole atte a determinare un significativo squilibrio. Ciò, malgrado il Codice stesso riproduca la stessa formulazione (“malgrado la buona fede”), propria della disciplina codicistica e che sembrava implicare una dimensione necessariamente soggettiva della buona fede.
Al riguardo, invece, si concorda con chi ritiene che la formulazione testuale del previgente 1469 bis - e dalla quale si è desunta la natura soggettiva della buona fede - dipendesse da un’erronea traduzione del testo originario della direttiva e dalla poliedricità semantica della lingua francese .
D’altra parte, è alquanto discutibile che, alla stregua della tesi oggettiva, si possa produrre un risultato deteriore in termini di tutela per il consumatore in quanto la buona fede, lungi dal porsi quale elemento costitutivo della fattispecie delle clausole abusive, così da aggravare l’onere probatorio del consumatore, rappresenta, invece, un mero indizio dello squilibrio e, dunque, costituisce criterio, per così dire, di semplificazione probatoria per il consumatore. Né la tesi soggettiva potrebbe implicare un ampliamento dell’ambito operativo della norma e della tutela da essa predisposta, essendo dubbio che in applicazione della medesima, possano diventare abusive anche clausole non contrarie a buona fede oggettiva, purché idonee a dar luogo a uno squilibrio nell’ambito del regolamento contrattuale.
Si è, altresì, sottolineato come la, fin qui esposta, tendenza del nostro sistema alla valorizzazione della buona fede oggettiva corrisponda in fondo a un’esigenza che si è già manifestata in altri ordinamenti e che ha portato alla formulazione, ad esempio, dell’art. § 138 del BGB, dove la sanzione della contrarietà al principio di buona fede oggettiva si concretizza in forme d’invalidità del contratto. In tal caso, diversamente dall’ipotesi di omessa informazione su circostanze idonee a fondare il rischio della contrattazione - in cui la buona fede è stata invocata, almeno dalla Cassazione italiana del settembre 2005, per fondare una responsabilità risarcitoria -, la buona fede o l’equità sono esse stesse ragione di caducazione del contratto, ergendosi a parametro cui commisurare la validità del vincolo. Invero, è evidente come, nell’ambito del nostro ordinamento, si adotti la medesima soluzione dell’ordinamento tedesco, ma ad essa si pervenga in via mediata con un duplice passaggio interpretativo, “assumendo, in primo luogo, l’imperatività delle regole di buona fede oggettiva (artt. 1337, 1338, 1375, etc. c.c.)”. Solo l’accertata elusione di tali regole “consente, in via successiva, di aprire la via ad una nullità del contratto per illiceità dello stesso” .
La summenzionata moltiplicazione delle ipotesi di nullità appare la diretta conseguenza di una legislazione più improntata ad una logica di contingenza che rispondente ad un disegno unitario. Tale scelta - informata alla “variabilità di reazioni” -, se risulta congeniale per far fronte alla “reale differenziazione pratica delle varie fattispecie che consigliano la tutela della parte debole, in vista della massimizzazione reale di un concetto ampio di “giustizia contrattuale”, d’altra parte, “consente in minore misura, a nostro modesto avviso, il reperimento di principi comuni di generale applicabilità” . Ne consegue che si rende problematico qualunque tentativo di “riduzione a sistema” dell’istituto della nullità che possa avere, almeno, una parvenza di serietà. Ne costituisce prova inconfutabile la stessa difficoltà incontrata dagli interpreti nel delineare il regime applicabile alle illustrate ipotesi di nullità, allorquando il legislatore non sia intervenuto a precisare espressamente la correlata disciplina.
Al riguardo, si è avuto modo di evidenziare come i caratteri della relatività e della protezione, nonostante l’assenza di unanimità sulla tematica de qua, non possano considerarsi elementi indefettibili della disciplina applicabile. In altro modo, si giungerebbe ad un esito interpretativo che sarebbe in contrasto con la stessa ratio protettiva dell’istituto, che ne impone, invece, una diversa modulazione sulla base delle caratteristiche del caso di specie. Più essenzialmente, può affermarsi che la nullità, cosiddetta comunitaria, emancipandosi dalla logica del vizio strutturale, si trasforma in nullità-funzione divenendo - come nell’ipotesi della nullità conseguente alla grave iniquità delle clausole convenute - strumento e tecnica di governo - e, quindi, di regolamentazione - dello stesso programma contrattuale. Da sanzione, la nullità diviene protezione di ben individuate categorie d’interessi, che non coincidono necessariamente con quelli di un ente esponenziale ma possono essere quelli di una sola delle parti, laddove siano assunti dall’ordinamento a oggetto di tutela. In quanto tale, la nullità o le nullità “europee” sono modellate in armonia con un diritto europeo che ha optato per la soluzione della etero-conformazione del regolamento contrattuale con l’imposizione ai contraenti di un contenuto minimo necessario e imprescindibile .
Se, da un parte, le nullità de quibus svolgono una funzione conformatrice, dall’altra, subiscono i condizionamenti del concreto assetto d’interessi convenuto dalle parti. In tal modo, si preserva il mercato da ogni pianificazione per consentire la libera concorrenza dei suoi componenti e ciò in un rapporto biunivoco di perfetta circolarità e di reciproca subordinazione e adattamento. Il ruolo essenziale rivestito dall’interesse programmato, fa sì che le nullità in questione si sottraggano ad un regime omogeneo e uniforme, proprio in conseguenza della loro necessaria funzionalizzazione al tipo e alla natura dell’operazione economica che viene in rilevo nel caso di specie. Per il codice, la nullità è in un certo senso “vicenda di fattispecie”, ovvero di una fattispecie irregolarmente (o meglio) invalidamente venuta ad esistenza, perché non conforme al tipo legale, ragione per la quale residua poco spazio per valutazioni graduate diversificate. Alternative rispetto alla conformità o difformità rispetto alla fattispecie legale non sono neanche ammissibili .
La nullità codicistica non conosce compromessi o adattamenti, cosicché imprescrittibilità, insanabilità, assolutezza e rilevabilità di ufficio sono requisiti tendenzialmente indefettibili. ”Tendenzialmente”, perché - superfluo ricordarlo - ogni regola conosce delle eccezioni, ma, nonostante tali ultime, il sistema rimane tendenzialmente unitario e compatto.
Si è, condivisibilmente, affermato che - anche e soprattutto per influsso del diritto comunitario - ad assumere rilievo è l’assetto d’interessi sotteso all’operazione contrattuale e non più semplicemente tal ultima - quale congegnata dalle parti - tenendo conto i limiti del tipo legale.
Ebbene, la nullità di derivazione europea - chiamata a tener conto di tale assetto - non può dar luogo a soluzioni uniformi e seriali inidonee a misurarsi con la specificità del regolamento contrattuale, ma deve ispirarsi a regole e principi di carattere pratico che le consentono la necessaria flessibilità . Da ciò discende la (sua) natura, spesso, necessariamente parziale, non essendo previsto alcun criterio (oggettivo o soggettivo) che possa consentire di dare rilievo all’eventuale essenzialità della clausola o delle clausole affette da nullità. Ma il carattere di necessaria parzialità è l’unico elemento trasversale alle suddette fattispecie, dal momento che, al carattere parziale, possono accompagnarsi o meno - a seconda della fattispecie tipica che venga in rilievo - meccanismi integrativi e/o sostitutivi. D’altra parte, è ovvio che, dovendo il regolamento contrattuale soddisfare le specifiche esigenze perseguite con il contratto, in sede esegetica, spesso, dovrà ammettersi l’applicazione della disciplina legale in chiave sostitutiva anche in assenza di un’espressa previsione in tal senso . Ma è sempre l’assetto di interessi che le parti hanno voluto dedurre in contratto e perseguire concretamente a dover guidare - in assenza di un modello legislativo precostituito - l’attività di ricostruzione del regime normativo della nullità di derivazione comunitaria.



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