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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-06062009-121028


Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
SERRA, MARIA SERENA
URN
etd-06062009-121028
Titolo
L'ODISSEA DI OMERO E I LUSIADI DI CAMO'ES: TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Dipartimento
INTERFACOLTA'
Corso di studi
LETTERATURE E FILOLOGIE EUROPEE
Relatori
Relatore Prof.ssa Rossi Linguanti, Elena
Parole chiave
  • Vasco de Gama
  • Camoes
  • Ulisse
  • Odisseo
  • Omero
  • Lusiadi
  • Odissea
  • poemi epici
  • Comparazione
Data inizio appello
01/07/2009
Consultabilità
Completa
Riassunto


Scopo di questo lavoro è proporre una comparazione a livello tematico tra l’Odissea e il poema I Lusiadi, cui dà vita, nel 1572, Luìs Vaz de Camões, il maggiore scrittore di lingua portoghese.
Dopo questo primo capitolo introduttivo, l’esposizione si focalizzerà sulla relazione che sussiste tra la cultura portoghese e quella classica.
Nel secondo capitolo verrà introdotta l’episteme storica e culturale entro cui si situa il secolo de I Lusiadi: il secolo delle scoperte, delle Gesta Dei por Lusos, che vede assurgere ad eroe primario un Ulisse nuovo, dantesco, che con il suo “fatti non foste a viver come bruti” spinge a seguire nuove rotte e diviene - diremmo oggi, idolo, di naviganti e navigatori.
Poi verrà introdotta, nel quarto capitolo, una sinossi del poema di Camões, funzionale all’indagine comparatistica.
Dopo aver individuato riprese, riformulazioni e novità prenderà avvio lo sviluppo delle correlazioni individuate: nel quinto capitolo verrà analizzato il transito marittimo ed il suo fine, nel sesto capitolo il ruolo degli dei, nel settimo la struttura delle narrazioni e degli espedienti tecnici messi in opera per strutturarle (mise en abyme, flashback e flashforward).
A seguire vengono dunque presentate, nel paragrafo 1.2, le peculiarità che fanno de Lusiadi un poema epico. In 1.3.1, la presentazione del cronotopo de I Lusiadi permette di avvalorare queste affermazioni.
Nel paragrafo 1.4, infine, viene presentata la componente più innovativa del poema camoniano.

1.2 L’epica de “I Lusiadi”

Nell’introdurre lo statuto epico del poema camoniano, vanno considerate non solo le radici profonde che legano quest’opera cinquecentesca all’epica classica, ma anche le variazioni sul tema che permettono al poema di rispecchiare in pieno la propria epoca. Camões canta il viaggio di Gama considerandolo molto più di un avvenimento concluso: quel viaggio rappresenta il culmine non solo delle esplorazioni della costa africana occidentale, iniziate con il vigoroso impulso dell’Infante Dom Henrique, ma della storia stessa del Portogallo che con tali esplorazioni si identifica a partire dal 1415.
L’essenza ultima del poema non è però solo questa. Si è discusso a lungo, infatti, sulla natura simbolica del viaggio che viene rappresentato nei poemi epici. Questo schema definisce i tre momenti fondamentali della chiamata, del viaggio propriamente detto e del ritorno.
Di contro, dal punto di vista della comunità, il ritorno dell’eroe costituisce l’obiettivo e l’unica giustificazione della sua lunga assenza.
1.3 Il cronotopo dell’epica

Nel riflettere sulla capacità di autoanalisi di una comunità, è interessante notare come l’epica letteraria, a giudicare dalle sue migliori produzioni, non sbocci mai nei tempi d’oro di una nazione, ma nel momento del suo declino. Se ciò accadesse solo in un caso, potremmo ascriverlo al temperamento del poeta e considerarlo nei termini di tale specifica occorrenza.
1.3.1 Il cronotopo de “I Lusiadi”

Camões vive alla fine di grandi avventure e all’alba di grandi cambiamenti. Così decide di cantare la grandezza della sua nazione e di coloro che l’hanno costruita.

2. Dalla follia di Ulisse alle gesta Dei por Lusos: esegesi di una rivoluzione mentale

2.1 Il Portogallo Rinascimentale

Non è semplice riuscire a comprendere pienamente l’ascesa e il declino dell’Impero coloniale portoghese rinascimentale. Il Portogallo detiene una posizione di preminenza nella storia delle scoperte geografiche grazie a tre grandi imprese: l’apertura delle rotte oceaniche verso Oriente, la colonizzazione del Brasile e la diffusione della cristianità in terre lontane, soprattutto ad opera dei Gesuiti.
I portoghesi del Rinascimento non erano tutti grandi pensatori; molti di loro, come Álvaro Velho e Pero Vaz de Caminha, erano uomini semplici, non colti, che presero parte con modestia alle scoperte e che, senza dubbio, sapevano come resistere alle difficoltà marittime.
Intelligenze acute, come il vate Camões, combinarono una innata capacità di resistere alle avversità della vita con una disincantata, realistica visione del mondo, degli uomini, del Portogallo, che sottende l’apparente ottimismo patriottico dei Lusiadi.
Forse queste qualità possono aiutarci a capire come tali uomini siano riusciti a raggiungere quasi tutti i lidi del mondo perseverando nel sacrificio.
Molti della ciurma erano in realtà veterani dei viaggi di Dias. È probabile che questo resoconto di viaggio sia il diario di bordo di uno dei quattro vascelli – il São Rafael – che salparono dal Restelo, il porto di Lisbona, alla volta delle Indie. Eccone l’incipit:

Nel nome di Dio. Uno degli scopi dei viaggi portoghesi era quello di scoprire se e che tipi di evidenze cristiane vi fossero in India. L’ideale sarebbe stato trovare qualche monarca cristiano e stringere alleanze politiche e religiose con lui, per quella convinzione secondo cui le navigazioni intraprese sotto l’egida della diffusione del Cristianesimo potevano avere buon fine e portare prestigio alla madrepatria.

2.2 Un caso tardomedievale: l’impresa dei Vivaldi

In epoche anteriori al Rinascimento, comunque, si rendeva già manifesto un cambiamento culturale che, considerando superata l’idea del non più oltre, tentava la via del mare alla ricerca di nuove rotte.
Vi furono già nel Medioevo alcuni che, salpati alla volta dell’Atlantico suscitando la meraviglia di chi li vide partire, non fecero più ritorno.
Come sostiene Nardi, non è inverosimile che Dante abbia avuto notizia dell’accaduto e, ispirandosi a questa storia, sia riuscito ad animare della stessa intraprendenza la figura del suo Ulisse.
Se l’Ulisse di Omero, al sicuro nella propria reggia, può lì attendervi una decorosa vecchiaia, tale sorte non si addice all’eroe dantesco, che personifica la ragione umana insofferente ai limiti e ribelle al decreto divino che interdice il trapassar del segno .
L’Ulisse di Dante non nasce dallo sforzo erudito di un tardo umanista, abilissimo nel riprodurre fedelmente modelli; quanto poi il dantesco sia lontano dall’omerico è visibile al primo sguardo. Forse spira veramente, nel pathos con cui Dante dà ali al discorso del suo Ulisse, il futuro spirito dei viaggi intorno al mondo.
L’oceano era la parte del globo terracqueo negata ai viventi, dove l’unica terra emersa era la montagna del Paradiso Terrestre; nessun mortale l’aveva impunemente violata. Dante sceglie di seguire un cammino differente da quello del suo Ulisse, una strada luminosa, non folle, ma sublimata da una visione cristiana delle cose e del mondo. L’Ulisse trecentesco incarna la nascita del mondo moderno e lo fa grazie ad una poesia di altissimo valore che sgorga dalla realtà dei fatti, da un evento tanto impensabile allora quanto la grandezza dei sogni e delle speranze umane.

2.4 Colombo e Vespucci: dall’arte alla vita.
La realtà del Nuovo Mondo affonda l’incubo dantesco: la poesia si inoltra nel mare, seguendo stavolta Ulisse senza biasimarlo, diventa vita, vissuta e vera.
Le gesta dei Portoghesi ricevono così il sigillo di Dio.







3. Ulisse e Lisbona: un legame da sempre

3.1 Le radici leggendarie

Al fine di introdurre l’eziologia della città di Lisbona pare opportuno riportare l’episodio mitologico seguente che narra della fondazione della città .
Nel frattempo, il nemico sconosciuto e occulto era in cerca di Ulisse. Si avvicinò alla donna che gli parlava. La regina, consapevole del proprio trionfo, continuava a incantarlo nel suo sguardo enigmatico. Aveva nostalgia del mare e sete di nuove battaglie.
La presenza femminea, in primo luogo, rimanda all’archetipo del matriarcato, tipico delle civiltà mediterranee arcaiche.
In seconda istanza, la presenza dei serpenti. Il serpente, nelle società matriarcali africane, viene considerato signore delle donne e della fecondità.
Lorenzo Valla, tra il 1445 ed il 1446 al servizio del re di Aragona, afferma che in Portogallo si usa una forma del nome di Lisbona a pretesto di una derivazione etimologica da Ulisse, e sostiene che la referenza greca può notarsi al massimo in un ipotetico, sebbene infondato, elemento finale della parola, ossia in –hìppoi , in cui mito e realtà si incontrano .
/ Ulisse è quel ch’ alza la sacra casa / alla dea che gli diè lingua faconda. / Dopo aver Ilio in Asia al suolo rasa / su terreno europeo Lisbona fonda) .

In questo passo Paolo da Gama illustra al catual di Calicut gli stendardi di seta che svettano sulle navi portoghesi, su cui è dipinta la storia del Portogallo. Rodrigues parte da un’osservazione sul titolo del poema camoniano, sostenendo che Resende fu uno degli innovatori della parola Lusiadae, impiegandola per la prima volta – in vece della forma Lysiadae, molto usata dai latinisti rinascimentali – proprio nel seguente passaggio del Vincentius:

…urbemque [ Olysses] suo de nomine primum
Finxit Odysseiam, quae nunc carissima toto
Cognita in orbe, ducem fama super astra Pelasgum
Tollit.

3.3 Una Laudatio Urbis: letteratura apologetica a sostegno del mito.
La laudatio si articola in maniera peculiare: si esaltano la strategica posizione della città, l’opulenza del porto, la salubrità del clima.

3.4 L’Ulisseia: Lisbona mulher à espera

Se si guarda al secolo XVII, infine, Gabriel Pereira de Castro, autore nel 1636 dell’Ulisseia, altro poema epico con l’intento di narrare le avventure che portarono Ulisse alle sponde lusitane, ricorre all’Odissea come modello. L’evolversi di questa programmaticità è ben visibile fin dall’apertura, con l’invocazione alla musa, la dedica al re e l’inizio della narrazione in medias res, passando attraverso l’utilizzo della mitologia, il ricorso alla profezia ed una certa varietà stilistica che stempera il tono epico talvolta con episodi lirici, talaltra con inserti bucolici.

Questa aspirazione letteraria incontra, nel Portogallo del secolo XVI, fatti grandiosi appena occorsi. Fin dall’esordio del poema è enunciata la poetica della verità e realtà dell’epos narrato.
La varietà di inserimento della materia è strutturata in maniera armoniosa: è possibile notare infatti una lunga analessi costituita dalla narrazione di Vasco de Gama ai canti II – IV; seguono l’ekphrasis delle scene rappresentate sugli stendardi portoghesi al canto VIII e la profezia al canto X. Questi tre blocchi narrativi sulla storia portoghese sono assai istruttivi perché mostrano il procedere del poeta.
Oggetto della narrazione è il passato portoghese, fino ad anni prossimi alla composizione del poema; l’ottica che caratterizza questo incedere muta di continuo: nel primo blocco dona una visione travagliata della monarchia portoghese, nel secondo è colma d’ammirazione verso i più fulgidi esempi di eroismo dei suoi servitori, nel terzo guarda alla colonizzazione futura. Il passato portoghese appare segnato dalla fragilità umana; non va mai dimenticata la situazione psicologica in cui de Gama è narratore. Canto I – il poeta dichiara la sua intenzione di cantare le gloriose imprese d’Asia e Africa dei portoghesi. Invoca per questo le ninfe del Tago e dedica il suo poema al giovane don Sebastiano.

Bacco, dal cielo, non tollera la buona sorte dei portoghesi.
Canto II – all’arrivo a Mombasa, un messo del re locale invita de Gama a sbarcare; i due degredados che de Gama manda in perlustrazione a terra sono ingannati dagli abitanti e da Bacco. Gli infedeli lasciano le navi insieme al pilota mozambicano che teme sia stato scoperto il suo inganno.
Vasco de Gama invoca la Divina Provvidenza e Venere, per soccorrerlo, si reca da Giove chiedendo al padre di confermare l’aiuto ai portoghesi.
Qui il re accoglie favorevolmente i portoghesi, e chiede di essere informato sulla storia del popolo lusitano e sulle traversie affrontate dai naviganti per giungere fino alla sua città.

Canto III – Vasco de Gama dà avvio alla sua lunga risposta al re di Malindi. Inizia descrivendo la collocazione geografica del Portogallo e, dopo un cenno alle antichità portoghesi, tra mito e storia, ricostruisce la nascita del regno a partire da Enrico di Borgogna e dal figlio di lui, Afonso I, le cui vicende sono descritte in dettaglio.
Il pianto del gigante, sotto forma di tempesta, segna la fine dell’angoscioso incontro. La narrazione al re termina con l’esaltazione della veridicità delle scoperte dei portoghesi. Camões canta infine a sua volta la grandezza delle opere portoghesi, esaltando il valore della poesia che le celebra.

All’alba viene avvistata Calicut, meta tanto sospirata; de Gama, in ginocchio, rende grazie a Dio. Il poeta conclude il canto esaltando l’onore raggiunto grazie al valore individuale e al rischio della vita, non tra le mollezze e fondandosi sulla nobiltà dei propri predecessori.

Canto VII – Camões celebra con ardore il valore dei portoghesi, introducendo poi una descrizione sintetica dell’India e dei suoi abitanti.
Monçaide riferisce le principali vicende del regno del Malabar, a partire dalla conversione all’Islam del re Perimal, illustrando anche gli usi sociali e religiosi degli Indù.
De Gama viene accompagnato fino alla reggia da un catual mandato dal re e, nella sala del trono, propone allo zamorino l’alleanza con i portoghesi; l’indiano rimanda la decisione all’incontro con il suo consiglio, facendo ospitare i portoghesi negli appartamenti del catual.
Il poeta interrompe allora la descrizione per rivolgere alle ninfe del Tago e del Mondego una nuova invocazione in cui ricorda l’impegno profuso per la poesia e la scelta di cantare gli eroi che misero a repentaglio la vita per Dio e per il re.

L’animo del re è mal disposto verso i portoghesi sia per i responsi degli auspici, che ne predicono il dominio, sia perché Bacco, assunti i panni di Maometto, appare in sogno ad un sacerdote musulmano esortandolo a contrapporsi ai cristiani, provocando così i maneggi dei musulmani e dei catuali. Venere, mentre i portoghesi sono sulla via del ritorno, appronta per loro il meritato riposo: una splendida isola oceanica in cui i naviganti possano provare le gioie dell’amore con le ninfe del mare.
Canto X - Un sontuoso banchetto è pronto nel palazzo di Teti, che canta le future glorie dei lusitani, ricordandone le più brillanti figure: tra gli altri, Duarte Pacheco e Francisco de Almeida, Afonso de Abuquerque e João de Castro. Infine Teti conduce de Gama – privilegio straordinariamente concesso ad un mortale – a contemplare la macchina del mondo, illustrata secondo il modello geocentrico tolemaico, retta dalla Provvidenza Divina, mentre gli dei sono, dice Teti, solo bei nomi di cui Dio si serve per le cause seconde. Il poema si conclude con la dura invettiva contro l’insensibilità nazionale nei confronti della poesia e con l’invito al re a ricompensare i suoi fedeli servitori che rischiano la vita per lui; la poesia del poeta non cesserà di celebrarlo.
La tematica dell’attraversamento, del transito, del viaggio che si compie in un moto dalle più disparate sfaccettature è stata numerose volte oggetto d’indagine e di riflessioni. Ad esempio, finita la narrazione al banchetto di Alcinoo, così possiamo leggere tra i primi versi del libro tredicesimo:

[….]
Ricordo e ritorno costituiscono un’endiade in cui i due termini sono inscindibile rinvio dell’uno all’altro: dimenticare il ritorno equivale alla perdita della propria identità, della propria destinazione, equivale alla condanna allo smarrimento errante senza un fine.
Nel libro dodicesimo, ai versi riportati nel paragrafo precedente, riguardanti l’episodio della terra dei lotofagi, l’oblio è una terrificante evenienza che viene oggettivata da Omero nel loto. Tale meccanismo rimanda inferenzialmente ad un’altra oggettivazione presente in un altro mito: la mela offerta ad Eva nel giardino dell’Eden oggettivizza in sé la possibilità della conoscenza del bene e del male. In corrispondenza ossimorica con questa oggettivazione troviamo appunto il loto: se la tentazione propugnata ad Eva conduce alla conoscenza del bene e del male, quella offerta dai lotofagi porta all’oblio.
( Odissea, IX, 224 – 225 / 228 – 230 )

Possiamo vedere come contenga il germe del mito dantesco di Ulisse:

"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
La continua ridefinizione e rielaborazione di se stessi attraverso l’acquisizione dell’ignoto permette di prendere coscienza della propria finitezza, di avvertire l’urgenza della conoscenza, di spostare i baricentri epistemologici dagli infiniti celesti alla limitatezza mortale, che però racchiude in sé l’infinito della mente umana.



6.Il ruolo degli déi

In questo capitolo verrà esposta in maniera sistematica la funzione degli dei all’interno dei due poemi presi in esame.
6.4.1 Atena.
Per sollecitare la capacità decisionale del padre, Atena sottilmente agisce suscitando la commozione di Zeus. La dea, nel perorare la causa del proprio protetto, nel primo libro dell’Odissea dispiega in toto la propria capacità intellettuale e, appunto in sede di concilio, la vediamo fare leva in maniera incalzante proponendo il suo argomento preponderante:

Ma il mio cuore si spezza per Odisseo cuore ardente,
misero!, che lunghi dolori sopporta lontano dai suoi,
nell’isola in mezzo alle onde, dov’è l’ombelico del mare:
[…………………………………..]Se però tale attributo avvicina ad una dimensione umana il dio, eccolo nel V libro riportare l’adorata figlia glaucopide alla lungimiranza divina, con una risposta che riguarda la punizione che attende i pretendenti. Infatti ai vv. 21 – 27 ricorda alla figlia che proprio a lei è affidato il compito di punire le malefatte degli usurpatori della casa di Odisseo. È ciò che Ermes, su comando del Cronide, riferisce a Calipso nel V libro, quando il messaggero degli dei viene inviato dalla ninfa per comunicarle la decisione del concilio riguardo all’eroe itacese:

Ma certo il volere di Zeus egìoco non può
Un altro dio trascurare o far vano.
Quando infatti il Sole, nel XII libro, si lamenta del sacrilegio compiuto ai suoi danni ad opera dei compagni di Odisseo, ossia l’aver osato cibarsi delle vacche sacre a lui, protesta in maniera clamorosa ed estremistica: abbandonerà la terra per trasferirsi negli Inferi qualora i Greci non venissero puniti. (XII, 385 - 388)

Oltre che le lagnanze del Sole, Zeus riceve anche le rimostranze di Poseidone, che, progenitore dei Feaci, si sente tradito da loro perché hanno reso troppo facile il ritorno di Odisseo, che pure il dio del mare sa di non potere impedire, in quanto assicuratogli dal destino e quindi dallo stesso Zeus che ne è garante. Che pietrifichi una nave al suo ritorno in patria, quando è già visibile dalla città, e copra la città stessa con un gran monte. Nel libro XX troviamo Odisseo in ascolto del pianto di Penelope, finalmente ritrovata e accanto a lui; crede sia una fantasia, e chiede a Zeus conferma del lieto presagio; vuole un segno divino ed uno umano che lo rassicurino sulla contingenza dell’evento che sta vivendo. (XX, 102 – 105 / 111 - 119)
L’epifania gratuita garantisce la validità del segno, e risulta gratuita in quanto proveniente, nella sua manifestazione umana, da persona estranea al conflitto. Tale evenienza svolge una funzione maieutica nel procedere degli eventi; Odisseo comprende che è l’ora di agire, che il fato e gli dei lo accompagnano.
L’ultima performance del padre degli dei ha luogo nel libro ventunesimo, e decreta la fine dei pretendenti dando il via alla gara con l’arco:
[…………….]
6.1.3 Poseidone

Il ruolo di Poseidone può essere considerato quello dell’antagonista primario, portatore di distruzione, ma sopra ogni cosa figurazione del caos, della furia devastatrice che, nella propria ira, diviene causa primaria del lungo peregrinare.
All’inizio, nel libro I, durante il concilio degli dei, il dio non è in sede: sta smaltendo i bollori nel paese degli Etiopi, dove gli vengono tributati lauti sacrifici.
Così Camões, affidandosi al proprio amore per l’antichità, sceglie di reintrodurli, e di dare loro una posizione preminente nel proprio schema principale.
Gli dei sono comunque reali, nel senso che incarnano forze potenti nel cuore umano e nello scorrere della vita. Nel Rinascimento questi due mondi potevano convivere fianco a fianco. Non è il dio del vino e dell’estasi dionisiaca, ma lo spirito orientale nella propria vanità, astuzia e disordine. A Giove - come a Zeus nell’Odissea - spetta la decisione finale, ma egli è al di fuori della battaglia. A Mozambico diffonde cupe voci, ma viene frustrato nel suo intento dall’accortezza di Gama. Camões si concede una fantasia bizzarra nel rappresentare Bacco rogante all’altare. Tutto ciò non è mera fantasia; ha delle basi nella storia. Determinato nell’impedire che la flotta raggiunga l’India, Bacco invoca i poteri del mare affinché scatenino una tempesta. Avendo sofferto a causa della malignità degli uomini, adesso soffrono per la malignità degli elementi.
Una volta ancora Venere e Bacco fanno le veci dei poteri sovrumani che aiutano o ostacolano i portoghesi. Le benefiche forze del mondo che nascono dalla civiltà non vengono spesso mostrate in natura; le forze del male, che riempiono il cuore dell’uomo di nefandezze e menzogne sono simili alla violenza dei poteri naturali che gli esploratori devono affrontare.
In Venere e Bacco Camões mostra una dicotomia fondamentale del mondo, una lotta tra gli opposti nella quale uno dei due deve necessariamente cedere il passo all’altro.
Alla fine Venere vince.
Nella propria mitologia pagana Camões crea nuovi simboli per mostrare la reale situazione che intravede come sostrato del viaggio di Gama. Dall’apertura del concilio degli dei nel canto I alle ultime parole di Venere nel X non smette di prendere il massimo da ogni opportunità che gli si presenta. La prima riunione degli dei avviene in un immenso aere olimpico. ( I, 20, 5 – 6 )

Qui, Giove, assiso sul trono; e quando gli dei si dispongono secondo l’ordine previsto si rivolge loro con un linguaggio che si addice alla loro olimpica posizione:

O Eterni Abitatori del lucente
Polo e del vasto chiaro Firmamento.
I poteri che lavorano nell’universo hanno la gloria e la maestà che l’entusiasmo dei giovani conferisce all’oggetto della propria devozione. In questi esseri, al di sopra del tempo e delle altre limitazioni proprie della finitudine mortale, Camões trova l’antitesi delle proprie tribolazioni e il fulcro dei suoi desideri. La protettrice del Portogallo è ancora la dea dell’amore e della bellezza, ed il poeta è fiero del fatto che il suo Paese sia favorito da lei. Gli uomini hanno la loro gloria, ma la gloria degli dei è al di sopra delle possibilità umane.
Libero dalle inibizioni teologiche del Medioevo e duramente colpito dalla controriforma, egli lavora in maniera certosina al fine di inserirli nel proprio poema. L’accanita lotta degli esploratori portoghesi è una parte del racconto; l’altra parte contiene tutto ciò che gli dei rappresentano: la gioia e la gloria che portano con sé, l’ordine che istaurano. Aderendo a questa convenzione della poesia epica Camões ottiene un successo trionfale. Come Correggio e Raffaello, Camões comprende gli antichi numi e adatta il loro significato al proprio tempo.

6.4 Che posto per gli Dèi?

Il Vate tuttavia non è pagano ma cattolico, suddito di un re cristiano, ed il suo Portogallo doveva gran parte della propria dignità al baluardo della causa cristiana contro gli idolatri, mori ed orientali. Ad ogni modo la spiegazione viene resa inconsistente con ciò che Camões sostiene in un altro momento del poema, parole che non possono ricevere lo stesso trattamento riservato alle sue ultime.
Nel canto X l’idea è elaborata. Che questa sia la concezione di Camões è provato dal modo in cui cesella le sue divinità all’interno del poema.
Quando Venere o Mercurio intervengono ad aiutare de Gama, non è a loro che egli rivolge le proprie preghiere e le lodi, ma al Dio dei suoi padri. ( II, 65, 3 – 4 )

Quando Venere salva la flotta, de Gama attribuisce l’impresa alla provvidenza e termina con una solenne preghiera al suo Dio:

Tu solamente puoi, Guardia Celeste
Salvarci dall’insidia che c’investe.
( II, 31, 7 – 8 )

Ancora più impressionante è la grande preghiera di de Gama durante la tempesta nel VI canto. ( VI, 85, 1 – 4 )

Quindi segue l’intervento della dea ed il mare si placa.
Poseidone è irato a causa dell’inganno perpetrato da Odisseo nei confronti del figlio Polifemo, Bacco teme che il proprio regno, l’Oriente, in cui ha istaurato il regime del caos, venga paradossalmente scosso da eventuali contaminazioni dell’ordine occidentale.
Risulta però interessante notare come gli schemi narratologici che sottendono l’agire delle forze del bene siano sempre diversi tra loro: nel loro intreccio, nel loro svolgersi, nelle dinamiche che li attraversano. L’agire del male, invece, è sempre caratterizzato dalle stesse dinamiche, dallo stesso svolgersi dei fatti, come una iterazione che si ripete in un continuum e che è destinata a non centrare i propri obiettivi.
Se le variatio che marcano l’agire del bene possono essere ritenute meno capaci di suscitare l’attenzione del lettore a causa della difficoltà di acquisirle, allo stesso modo le si può ritenere specchio delle infinite risoluzioni di stasis che la vita reale paventa.
7. Struttura delle narrazioni
In questo capitolo verranno prese in esame le narrazioni di Odisseo e Vasco de Gama.
7.1 Odisseo narratore

Risulta molto utile ai fini di questa comparazione esaminare la funzione assolta, nella costruzione dell’Odissea, dalla figura di Odisseo narratore alla corte dei Feaci, nel libro XI.
Dal punto di vista della conoscenza dell’oggetto del canto, l’eroe è nelle condizioni ideali: il lungo racconto dei suoi “errores” è narrazione di una esperienza personale.
Odisseo non è visto solo come narratore della propria personale vicenda: all’interno del suo stesso racconto ad Alcinoo lo si vede esporre κατά μοιραν quanto gli viene richiesto, (Ilio e le navi degli Argivi, e il ritorno degli Achei). Quando, nella cortese replica, il re itacese acconsente alla ripresa del racconto, la lega al desiderio degli ascoltatori e accenna, secondo consuetudine, al tema iniziale prima di riprendere il racconto nel punto interrotto.

Le mitiche creature posseggono il dono del canto che consente di partire conoscendo più cose: l’oggetto della scienza delle sirene è precisato, non si tratta soltanto del racconto tradizionale delle gesta degli Argivi e dei Teucri, le Sirene conoscono tutto quanto avviene sulla terra.
L’eroe canta κατά μοιραν perché ben noto gli è l’oggetto del canto, note gli sono le imprese degli Achei sotto Troia la cui narrazione di Demodoco l’ha mosso al pianto.

7.2 Vasco narratore.
L’eroe inizia così la sua narrazione al Re di Malindi, nel III canto:

Stavano tutti attenti per udire
Quello che Gama avrebbe raccontato.
L’eroe afferma di non riuscire a dire tutta l’eccellenza della propria terra, in una ripresa del topos della falsa modestia, qui utilizzato in rapporto alle straordinarie imprese del popolo portoghese e dei suoi re.
Più volte, nel quinto canto, con anafora al primo verso delle ottave 16, 17 e 18 questo concetto viene ribadito: vidi i casi che i rudi marinai (….);
7.3. Strategie della metanarrazione.
Il procedimento della mise en abyme accomuna infatti anche i due testi presi in esame: la narrazione delle proprie vicende da parte di Odisseo ai Feaci, e quella della propria storia compiuta da Vasco de Gama al Re di Malindi, si configurano come una vera e propria mise en abyme, una narrazione omodiegetica che si inserisce all’interno della più ampia narrazione che è lo stesso poema.
Situazione similare si verifica alla corte del Re di Malindi ne I Lusiadi.
8.1. Polifemo
Nell’avventura nel paese dei Ciclopi ( libro IX ) si fondono la violenza sanguinaria e l’alterità straniante; può essere davvero considerata il vertice del terrore di tutto il poema.
La prima avvisaglia è data dalla definizione dei loro usi che Odisseo dà con l’occhio di poi, descritti come “ ingiusti e violenti”; visione che appartiene cioè al narratore Odisseo e non al personaggio che vive la vicenda.
La funzione strutturale di quest’isola nella vicenda è quella di permettere ad Odisseo di rischiare una sola nave nell’esplorazione della terra dei Ciclopi. Si trovano ben presto davanti alla grotta di Polifemo, la cui paurosa descrizione è ricavata da dati acquisiti successivamente da Odisseo – personaggio: Polifemo porta alle estreme conseguenze l’isolamento dei Ciclopi, non ha una famiglia, e alto com’è quanto una montagna, appare come un massiccio isolato dagli altri.
La prima è il rumore di un immenso fascio di legna, che determina l’arretrare di Odisseo e dei compagni nel fondo della caverna – un movimento che assomma all’angoscia l’automatismo del riflesso. La richiesta di sopravvivenza intrinseca alla supplica è appesa al filo dell’onnipotenza del capriccio del Ciclope.
Di fatto, la risposta alle suppliche sta nel gesto violento con cui il mostro afferra due uomini e si ciba di loro.
Ai portoghesi in viaggio verso le Indie appare la mostruosa figura di Adamastor, il Capo delle Tempeste, che racconta la sua storia.
Esattamente a metà del poema, l’incontro di Gama con Adamastor marca, geograficamente, il passaggio dall’Occidente all’Oriente, dall’Atlantico all’oceano Indiano, ossia dalla fine del mondo conosciuto all’inizio del mondo sconosciuto. L’eroe entra nella regione delle forze indomate. Con riso onesto
Rispose Teti: “Quale dea può tale
Gigante ricambiar con forza eguale?
( V, 53)
Imprigionato nella roccia in cui si trasforma nel tentativo di violarla, Adamastor rimane eternamente carceriero della propria prigione, guardia dei segreti nascosti in cui si è intrappolato.
Dunque, il colosso orrendo gli permette l’accesso alla conoscenza delle cose segrete del mare.

Dubbio al quale sorgerà Adamastor come risposta, provocando la seconda domanda:
[………………..]“Chi sei tu, così tremendo
- dissi – all’immensa mole ed all’aspetto?”
( V, 49, 3 – 4 )
Di contro al lungo discorso del gigante, questa breve domanda racchiude, nel suo laconismo, un intenso potere significativo. Lungi dal tradire tremore, la voce del capitano manifesta stupore ed esprime, proprio per queste ragioni, la vittoria del coraggio sulla forza e sulla paura.
Non vi è un tentativo di attacco in difesa del bene che gli appartiene, ma il riconoscimento del valore di quella gente che merita non solo di vincere, ma anche di essere testimone del suo dolore e delle sue lacrime. (IX, 317–318; 326; 331–333; 345–347; 361; 366; 372; 382-383)

Il primo proposito di Odisseo di fronte alla brutalità del Ciclope è ispirato allo statuto della violenza eroica: pensa di trafiggere il Ciclope con la spada, ma questo proposito non viene realizzato, perché lucidamente l’eroe si rende conto che assieme a Polifemo condannerebbe a morte sé e i suoi compagni, non essendo in grado di rimuovere il masso dalla porta della caverna. L’offerta del vino al Ciclope, e l’accettazione da parte di Polifemo di questo dono, marca fortemente il primo passaggio in cui notiamo il mostro avere un ruolo attivo nel compiersi dell’inganno ai suoi danni. (V, 54, 5–6; 55, 1 – 6; 56.)

La similarità sostanziale, sta, credo, nell’identico abbandono da parte dei due giganti ai piaceri sensoriali. Questo abbassamento della soglia di lucidità permette l’interpretazione di un ruolo “attivo”, Polifemo e Adamastor divengono coadiutori del loro inganno. Vengono ingannati da Odisseo e da Teti, ma si prestano alla loro parte, partecipano attivamente.

.l’agire convulso del Ciclope, il suo scagliare massi contro le navi, l’impossibilità di requie denotano una follia che, lungi dall’essere sterile, produrrà l’ira funesta del padre Poseidone, persecutore senza sosta dell’astuto Odisseo La cifra stilistica di Adamastor diviene invece l’irreversibilità statica della sua nuova condizione,.

8.4. Tracce di un’evoluzione

La riformulazione di contenuti della tradizione epica con una feconda capacità stilistica è uno dei tratti più suggestivi dell’opera di Camões. Le dinamiche di attuazione dell’evento sono simili, nel primo caso avvengono realmente, nel secondo si tratta di una proiezione nel futuro:

e proprio in quel punto Scilla ghermì dalla concava nave
sei compagni, i più vigorosi per la forza del braccio.
Come osservato nei precedenti paragrafi, molte sono le caratteristiche che accomunano il Ciclope ed Adamastor, ma la collocazione topografica e l’atrocità dell’agire nei confronti dei naviganti rendono possibile un accostamento del Capo Tormentorio al mostro che abita lo stretto. se nell’Odissea questo percorso viene compiuto dall’eroe in persona ( XI libro ), ne I Lusiadi è l’antagonista, Bacco, a raggiungere un altro posto, il fondo del mare, regno di Nettuno, per chiedere al dio del mare di aiutarlo nella sua lotta contro le navi portoghesi ( VI, 6 – 34 ).
Odisseo necessita della sapienza di Tiresia, e tutto ciò che è in suo potere per riuscire ad accedervi egli lo compie senza esitare, esegue alla lettera le disposizioni di Circe ( X, 504 – 540).
9.1. Odisseo: discesa e profezia di Tiresia

Odisseo raggiunge i confini della terra, dei Cimmerii che è “avvolta nella nebbia e nelle nubi” (XI, 15 ) e presso il fiume Oceano, al limite dell’esperienza degli uomini, scava una fossa in cui versa – dopo riti di libagione propiziatoria con latte, miele, vino, acqua e un’offerta di farina d’orzo – il sangue delle vittime che Circe gli ha indicato. Merita fermarsi un attimo per far notare il molteplice registro dei simboli. Il sangue, elemento liquido della vitalità, permetterà alle ombre dei morti una effimera ripresa di contatto con il mondo dei vivi. È un contatto limitato alla comunicazione: il morto non può prescindere dalla propria incorporeità.
Ciascuno vuol sapere quello che non sa, ciascuno ritaglia una porzione di conoscenza contornata dalla dimensione del proprio universo affettivo.
Le pene in casa consistono nella presenza arrogante e dissipatrice dei pretendenti, di cui il lettore già sa, ma Odisseo non ancora. Lo sguardo del profeta si estende poi ad un futuro ancora più lontano, in cui Odisseo si riconcilierà con Poseidone a mezzo di un sacrificio; per un bizzarro contrappasso, l’uomo che ha sconfitto il mare deve rendere omaggio al dio del mare in luogo che gli sia radicalmente estraneo, dopo una lunga peregrinazione alla ricerca di una terra che ignori tutto della civiltà marinara.
Nella morte che viene dal mare è forse possibile leggere una allusione alla leggenda della morte di Odisseo per mano del figlio avuto da Circe, Telegono che, sbarcato a Itaca, uccise il padre. È accreditata tuttavia un’interpretazione diversa del passo nel senso che la morte sopravverrebbe a Odisseo “lontano dal mare”.
(………………………………………………)
Scende d’Olimpo infine disperato
Per liberarsi della grave soma,
e va spedito alla divina corte
di chi dei mar l’imperio ha avuto in sorte.
( VI, 6, 5–8; 7, 5–8; 28, 1–4;35, 5–8)

La discesa di Bacco negli abissi marini è per il dio, così come è la catabasi per Odisseo, necessaria alla realizzazione del proprio fine. Il dio è disperato poiché vede gli dei del cielo, suoi pari, essere tutti favorevoli alla riuscita dell’esplorazione portoghese che mina il suo reame.
Dopo l’introduzione della decisione, vi è nel poema una lunga digressione che descrive il regno di Nettuno, oltre ad una raffigurazione del dio stesso.
Vi è un raddoppiamento dei concili divini ne I Lusiadi: il primo, nel I canto, riunito in cielo; il secondo, in fondo al mare. Altro motivo simmetrico è che nel primo il discorso diretto, pronunciato da Venere, era riservato a fiancheggiare i portoghesi; qui, al contrario, Bacco manifesta direttamente le sue recriminazioni contro l’incedere della flotta lusitana.
Le invettive del dio fomentano rabbia nel concilio marino, tanto è vero che risulta impossibile prendere una decisione frutto di saggi avvisi: l’intemperanza del momento porta Nettuno ad agire d’impulso.

Come considerare a livello strutturale questa evenienza?
La profezia fondamentale del poema verrà proferita da Teti nell’isola degli Amori.
Il viaggio di Da Gama e dei suoi eroi si conclude, nei canti IX e X, nella migliore maniera possibile, con tutta la gloria che è dato agli uomini di acquisire e con una rinnovata e maggiore esperienza di se stessi, degli altri e del mondo.
L’Ilha dos Amores è un’isola divina, sorta in mezzo alle acque come la stessa Venere. È un prodotto dell’Essere primordiale, un locus amoenus la cui descrizione scorre lungo tutto il canto IX, intrecciandosi al rincorrersi dei marinai e delle ninfe e alle loro schermaglie amorose.
La chiusa degli amori con un matrimonio collettivo dà l’abbrivio all’incontro tra Gama e Teti, che porta alla visione grandiosa del canto X.
L’isola è simbolicamente un punto d’arrivo. Coronati dalle “spose eterne”, i naviganti ritornano alla patria. Non si separeranno più da quel sapere acquisito che le ninfe rappresentano; loro, e soprattutto Teti, la loro regina, sono forme di presenza divina, finalmente manifesta a Vasco, ai suoi compagni e, per bocca del poeta, ai portoghesi e al mondo. La differenza di livello è simbolicamente rappresentata dal monte su cui Gama e la dea salgono, da una catabasi che segnala una variatio rispetto al procedere tradizionale della narrazione in caso di rivelazioni.
Se infatti, nel caso di Odisseo, è la catabasi a marcare il momento della rivelazione, Camões compie una innovazione facendo sì che de Gama salga sul monte per ricevere la rivelazione della dea. L’atmosfera di elevata aulicità del palazzo di Teti ben introduce alla rivelazione della dea a de Gama, scandita nei modi della profezia in una prima parte, e nell’esposizione descrittiva della macchina del mondo nella seconda.
La profezia funzionale allo svolgimento dell’azione, alle vicende dell’eroe – come lo è stata quella di Tiresia – si sviluppa, diviene altro; la conoscenza attraverso l’aiuto della dea sopravviene dopo due altri elementi: la giustizia e l’amore. Una eccezione strutturale dunque, che marca ancora di più la particolarità dell’opera camoniana
Una possibile lettura di questa variazione può essere svolta considerando quanto Camões sapesse bene che l’apice della propria storia passata può dalla sua vetta guardare ai posteri, al tempo del vate dunque, carico di aspettative verso un continuum nella stessa direzione. Speranza disattesa, disillusa; al suo tempo il poeta non risparmia le proprie tirate veementi. Eppure conclude con la speranza che la sua Musa ispiratrice, cantando le glorie del suo re, riceva l’accettazione che merita.
Questa connotazione contraddistingue Vasco de Gama, l’ansia di seguire la propria curiositas, mediata dall’Ulisse dantesco, si trasforma nel Rinascimento in quello che sarà il pungolo che spinge alle scoperte geografiche, al nuovo mondo, e, ovviamente, a un nuovo uomo. È un umanista anche nelle sue contraddizioni, nell’associare la mitologia pagana ad una visione cristiana del mondo, nei suoi sentimenti conflittuali verso la guerra e l’Impero, nel suo amore per la patria e nel suo desiderio di avventure, nel suo apprezzare il piacere estetico e nella richiesta di uno statuto eroico che fa ai suoi personaggi.
Ma è soprattutto un Umanista nella sua devozione agli ideali classici, e nel suo considerarli la forza vitale dell’immaginario europeo del suo tempo.
Racconta il suo Portogallo servendosi sia della cristianità che della tradizione classica. Sebbene Camões abbia molto della magnificenza rinascimentale nel suo incedere narrativo, la stempera con una sensibilità che sa sempre quando fermarsi, senza sfociare in pericolosi funambolismi estetici.


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