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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-05182012-170649


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
BALLERINI, FABIO
URN
etd-05182012-170649
Titolo
"leggere la parola, leggendo il mondo" la scuola di italiano L2 come strumento di ridefinizione identitaria ed empowerment del migrante
Dipartimento
INTERFACOLTA'
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Dott. Altieri, Rocco
Parole chiave
  • cerchi narrativi
  • costruzione dei materiali
  • creazione di un contesto di accoglienza
  • cura della persona
  • emarginazione
  • empowerment
  • gioco
  • identità
  • interlingua
  • laboratori manuali
  • meticciato metodologico
  • migrante
  • narrazione autobiografica
  • ricostruzione identitaria
  • ridefinizione identitaria
  • scuola di italiano L2
  • trattamento dell'errore
Data inizio appello
07/06/2012
Consultabilità
Completa
Riassunto
La passione che mi lega all’oggetto di studio trova origine nell’esperienza di insegnamento nella scuola di italiano L2 “El Comedor Estudiantil – Giordano Liva”, nella quale ho insegnato italiano ai migranti nel corso dell’anno scolastico 2009/2010 e 2011/2012. Interesse ulteriormente rafforzato dalla partecipazione al corso “L’insegnamento partecipato. L’apprendimento come cambiamento e ri-conoscimento del sé” tenutosi a Pisa lo scorso marzo e aprile, a cura delle operatrici di Asinitas, scuola di italiano L2 di Roma all’avanguardia nella ricerca di nuovo modelli e metodi educativi di insegnamento agli stranieri.
Il lavoro svolto è frutto di una ricerca sperimentale condotta dal di dentro, nella quale l’autore non si pone come osservatore esterno ma come osservatore partecipante.
Nel corso della mia personale esperienza ho scoperto la scuola come luogo di integrazione, di conoscenza reciproca, di incontro fra le culture e strumento di relazione. Per questo, ho maturato la convinzione che la scuola di italiano per migranti non debba essere un luogo di trasmissione della lingua, ma prima di tutto uno spazio di accoglienza, di cura della persona e di raccolta delle narrazioni e testimonianze miranti alla ricostruzione di identità naufragate. Di conseguenza, ho approfondito, nella mia tesi, quali siano i mezzi più adatti per il raggiungimento di un fine ben preciso, “fare scuola”: quali tecniche e metodologie utilizzare, che tipo di relazione ricercare e costruire con gli studenti, quale il ruolo e il compito dell’insegnante. Perché, come il Mahatma Gandhi insegna, tra mezzi e fini c’è la stessa relazione che tra seme e albero. Il raccolto dipende da cosa e come abbiamo seminato.
La migrazione viene rappresentata da Sayad come un “fatto sociale totale”, coinvolgendo interamente il migrante e la sua identità, “costruita e fratturata dall’esperienza dell’attraversamento dei confini”.
Temporaneamente assente dal paese di emigrazione, con il quale continua a mantenere forti legami, e non completamente presente nel paese di immigrazione, in quanto ostacolato dalle barriere economiche, culturali e sociali che ne limitano e frenano l’integrazione nel tessuto sociale, soffre una “scomposizione dell’io” dovuta alla presenza/assenza in entrambi i contesti. A ciò si aggiunge un’ “ibridazione culturale e identitaria”, generata e alimentata dai contatto con un mondo diverso dal suo, un mondo che inizia a conoscere, ad esplorare, nella ricerca della propria collocazione e della soddisfazione dei propri bisogni.
Nel corso della sua esperienza migratoria si imbatte in un doppio processo di ricostruzione e ridefinizione identitaria. Il termine “ricostruzione” denota chiaramente la volontà di restaurare qualcosa che era presente prima ma che è andato perso. Le proprie sicurezze, certezze, la propria visione di sé e del mondo possono essere duramente messe alla prova dalle esperienze e dai traumi che i migranti vivono durante e dopo il passaggio dal lì, al viaggio, al qui. Per ricostruzione si intende, quindi, il processo che porta il migrante a ri-conoscersi, a riprendere la bussola del proprio “io” e a riconquistare gli strumenti essenziali per la propria autosufficienza, primo fra tutti il linguaggio.
D’altro canto, il termine “ridefinizione” guarda meno al passato e ai traumi ad esso connessi, essendo orientato più in ottica presente e futura. Colui che migra non solo si ricostituisce riappropriandosi di ciò che momentaneamente aveva perso, ma il contatto con un ambiente sociale e culturale differente da quello di partenza lo pone dinanzi a nuove visioni del mondo, nuove interpretazioni e possibilità.
Per ridefinizione si intende, quindi, il processo di “meticciato” culturale e identitario a cui il migrante va incontro nel quotidiano contatto con il nuovo, con ciò che prima era lontano e sconosciuto. Fa suoi nuovi apporti culturali, si ambienta in un contesto completamente diverso dal precedente, crea una nuova rete di relazioni, sperimenta altri mestieri.
La questione identitaria, nella sua duplice ramificazione di ricostruzione e ridefinizione, gioca un ruolo fondamentale nel processo di inserimento, integrazione dell’Altro all’interno della nuova società.
L’immagine del migrante costituisce uno stereotipo in cui vengono inseriti tutti gli individui stranieri che vivono nel territorio nazionale. Ma il migrante è prima di tutto un protagonista, poiché “nella migrazione è in gioco anche una concreta ricerca (un esercizio) di libertà”.
La volontà di imparare la lingua del paese ospitante è il primo atto di protagonismo che i migranti compiono. Il dialogo permette di condividere con altri i loro pensieri, il loro passato, ciò che sono.
Per questo, la scuola di italiano per migranti svolge una funzione ben più profonda della mera trasmissione di nozioni linguistiche. Permette al “richiedente verbo” di riappropriarsi della parola, divenendo così parte attiva nel processo di ricostruzione identitaria,.
Favorendo momenti di condivisione, prestandosi all’ascolto, facilitando l’espressione del sé, fa da contraltare alle “lunghe attese destrutturanti” vissute dai migranti e richiedenti asilo, restaurando un ritmo vivo, attivo, partecipante. Si circonda di mura amiche, in grado di contenere le sofferenze e accompagnare le gioie che gli studenti condividono, proprio perché capace di ascoltare, senza la presunzione di conoscere già in partenza. Li guida nell’esplorazione e ridefinizione di un passato forte e traumatico, e allo stesso tempo dà origine a una nuova realtà protettiva, empatica, confortevole.
È, prima di tutto, spazio di costruzione di una nuova socialità. Mentre la società rappresenta per il migrante il terreno di lotta per la conquista di migliori condizioni di vita, la scuola rappresenta un ambiente protetto, non competitivo ma cooperativo, che accoglie, ascolta e propone.
Ecco come può tramutarsi in una portatrice sana dei valori di accoglienza, integrazione, rispetto, amore, amicizia e curiosità verso l’Altro. Non solo ricostruzione e ridefinizione di un’identità, un Io, naufragato da un lato e bombardato da mille nuovi stimoli dall’altro, ma graduale edificazione di un Noi, in cui allo stesso tempo e nello stesso modo si riconoscono alunni e insegnanti.
La scuola diviene, quindi, un laboratorio di nonviolenza, spazio comunitario orientato alla costruzione di nuovi approcci e vere relazioni, ridando importanza al vissuto personale di ognuno, accompagnandolo nella ricerca delle parole che portano alla narrazione del sé.
Luogo di incontro, di scambio interculturale, di ascolto e di comprensione, di coesione sociale. Senza la presunzione di conoscere l’altro, ma anzi con la consapevolezza di andare incontro all’imprevisto, allo sconosciuto, pregustando il piacere di svelarlo e di svelarsi a lui, riconoscendosi “reciprocamente stranieri”.
Non si insegna la lingua utilitaristica: un linguaggio per la posta, per la banca, per le procedure burocratiche. Si insegna la lingua funzionale a conoscere l’uomo, alla comunicazione e al dialogo. Una lingua viva, ribelle, dove la parola riacquista la propria forza originaria e si carica di significati.
Di conseguenza la riflessione sul metodo di insegnamento/apprendimento e sulle relazioni da ricercare e coltivare tra docenti e studenti ricopre un ruolo centrale. Non interrogarsi su queste questioni, sui vari approcci che riconducono a diversi modelli di “fare scuola”, porta a un aridità metodologica che condurrà quasi inevitabilmente a riproporre in classe i meccanismi subiti e sperimentati per anni in contesti diversi, ovvero la lezione frontale e i modelli di istruzione formale tipici della scuola convenzionale.
La ricerca del metodo da applicare in classe dovrà scandagliare i filoni del pensiero pedagogico e l’operato di coloro che hanno dedicato la propria vita alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi orizzonti formativi ed educativi. Studiosi che hanno sviluppato metodologie e tecniche alternative di insegnamento/apprendimento, dalla coscientizzazione di Paulo Freire ai materiali e strumenti didattici elaborati da Maria Montessori, dalla trasmissione/comunicazione di Danilo Dolci al testo libero e metodo naturale di Cèlestin Freinet, fino alla scuola aperta alla cittadinanza attiva e alla mondialità di Aldo Capitini.
La risultante consisterà in un “meticciato metodologico”, definito come la raccolta, la rielaborazione e l’applicazione di tecniche e metodologie di insegnamento/apprendimento che trovano origine e riferimento in rami diversi dell’educazione, ma che incastonate insieme portano alla creazione di un nuovo metodo sperimentale, studiato sulle necessità del gruppo classe.
“Non importa la lingua dei bisogni, degli sportelli, della burocrazia, degli esami, ma sta a cuore la lingua delle idee, dei sentimenti, della rabbia, del dolore e dell’amore. Quella lingua che getta ponti, che restituisce o che costruisce immaginari.”
Nel modello di scuola comunicativa che ho configurato, la programmazione didattica delle attività verrà decisa in concerto con i componenti del gruppo classe, ai quali si richiede partecipazione attiva e protagonismo sin dalla scelta delle tematiche da affrontare.
L’insegnamento/apprendimento non viene inteso come un percorso prestabilito ma consiste in una continua ricerca e sperimentazione, non predeterminata, che trova origine e nutrimento nell’interesse mostrato dagli studenti.
Il vero obiettivo del linguaggio è quello di rifornire l’uomo della parola, primo e indispensabile elemento per riconoscerlo uomo come gli altri, e non Altro in mezzo agli uomini. Per questo, Cèlestin Freinet aveva provocatoriamente eliminato i libri di testo dalle sue classi, utilizzando, per l’analisi grammaticale e per lo studio della lingua in generale, materiali elaborati e prodotti dagli alunni. In questo modo, ciò su cui si lavorava non era materiale asettico e impersonale ma vivo e carico di significato.
I testi prodotti dagli studenti saranno caratterizzati da una lingua nuova, definita interlingua, ovvero una lingua intermedia che nasce dalla mediazione tra la lingua di origine e la lingua seconda. È un misto fra le due che “lascia emergere e convivere strutture ed elementi della lingua di partenza”, ma che, allo stesso tempo, è “proiezione della lingua corretta che sarà”.
Significa partire da una manciata di parole che già si conoscono e avventurarsi alla ricerca di nuove, provare a metterle in connessione, a farne un collage, a farle proprie. “La nascita e la crescita di questa lingua segue un percorso creativo (e ri-creativo di se stessi) che riguarda tutti, studenti e maestri, ed essa si modella e si arricchisce costantemente in quella specie di laboratorio linguistico che è la scuola.” Non è una lingua agonizzante, sporca e malsana, con i giorni contati, la lingua del peccato, la lingua dell’errore. Ma è lingua del qui ed ora, del presente che media tra il linguaggio delle radici e il linguaggio di ciò che sarà.
Prima della correzione viene il rispetto. Il rispetto per il portato di ognuno, per ciò che ci confida e di cui ci fa partecipi. “La fretta della correzione e della giustezza della norma grammaticale zittisce la lingua e frena la mano.” L’errore non verrà demonizzato e combattuto in ogni circostanza dall’insegnante, ma considerato una parte del successo. Tappa fondamentale che conduce ad una piena e libera comunicazione.
Nell’idea di scuola che si sta prefigurando, ricopre un ruolo fondamentale la scrittura finalizzata alla propria narrazione personale. Scrittura da intendersi non solo come esercizio grammaticale, quanto piuttosto come espressione del sé e strumento per la rielaborazione del proprio vissuto.
Attraverso la scrittura si producono storie e racconti che, nonostante le difficoltà linguistiche, “cercano di comunicare” e di esporre “un intrico di esperienze vissute dal o dai protagonisti, i quali, nel riferire del loro mondo richiamano alla memoria i processi che li hanno condotti ad approdare ad un certo presente”.
Raccontarsi significa portare alla luce i contesti e le motivazioni che hanno spinto il migrante ad intraprendere l’esperienza migratoria e, di conseguenza, permettono di svelare un mondo prima ignorato, generando un portato che costituirà il tramite, il collante tra soggetti e mondi prima reciprocamente sconosciuti.
Narrarsi consiste in un esercizio di “ginnastica interiore” che permette di compiere due operazioni: una retrospezione relativa a fatti e avvenimenti passati che tornano alla memoria nel momento stesso in cui saranno articolati ed inseriti all’interno del racconto; e una nuova interpretazione di quelli, relazionati a contesti e cause che forniscono all’ascoltatore o al lettore un quadro chiaro delle motivazioni e delle scelte compiute dall’autore.
Scriversi è darsi un volto, un’identità, una forma. L’autobiografia è processo educativo, auto educativo nel senso di formativo. Affrontando un percorso di ri-pensamento e ri-elaborazione posteriore rispetto al vissuto, il migrante volge da una condizione di doppia assenza, già citata nei primi paragrafi, a una condizione di doppia presenza: è presente a sé stesso in quanto ridescrittore di ciò che ha vissuto ed è l’unico interprete legittimato a raccontarlo.
I cerchi narrativi autobiografici si propongono come strumento cardine per questo tipo di attività. Studenti e insegnante si dispongono in cerchio, seduti per terra, ed uno a uno, liberamente, prendono la parola e leggono, condividono il proprio racconto con i compagni. Si ricerca un’atmosfera di ascolto attivo ed empatico, caratterizzata dall’assenza di giudizio e da un silenzio rispettoso verso il portato di ognuno.
Il modello di scuola a cui si aspira comprende lo svolgimento di attività ludiche e manuali, l’attenzione al proprio corpo e alla cura del contesto: strumenti e pratiche aggiuntive che contribuiscono alla costruzione di un ambiente conviviale e contenitivo, in grado di mettere a proprio agio gli studenti, nel quale si progetta una scuola che sia, prima di tutto, casa.
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