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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-05082013-122507


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
TESTINO, GIULIA
URN
etd-05082013-122507
Titolo
The Genocide Film Library. Donne, violenza, testimonianza in Bosnia-Erzegovina.
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Dott.ssa Bora, Paola Argentina
Parole chiave
  • donne
  • Bosnia-Erzegovina
  • violenza
  • testimonianza
  • stupri di guerra
  • pulizia etnica
  • genocidio
  • Srebrenica
  • sopravvissuti
Data inizio appello
06/06/2013
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
06/06/2053
Riassunto
La tesi di Laurea Magistrale “The Genocide Film Library. Donne, violenza, testimonianza in Bosnia-Erzegovina.” nasce dalla mia esperienza di tirocinio formativo che ho svolto presso la Cinema for Peace Foundation a Sarajevo, che mi ha spinto a cercare di conoscere e capire il più possibile questo paese e il terribile conflitto che l'ha attraversato, caratterizzato da alti livelli di folle violenza. La Cinema for Peace Foundation nasce nel 2008 a Berlino e il suo impegno si focalizza sui temi delle ingiustizie e dei conflitti sociali portati all'attenzione pubblica attraverso lo strumento dei film, molto utili nella comprensione di determinate problematiche attuali, come le violazioni dei diritti umani. L'organizzazione inizia a lavorare in Bosnia-Erzegovina nel dicembre 2011, con l'obiettivo di registrare e raccogliere le testimonianze degli oltre 10.000 sopravvissuti di Srebrenica per creare un archivio audiovisivo del genocidio, il Genocide Film Library, ispirandosi al University of Southern California's Shoah Foundation Institute del regista Steven Spielberg. Una volta completato, l'archivio costituirà una risorsa primaria per l'educazione al genocidio, a disposizione di studenti, docenti, educatori, ricercatori e attivisti, non solo della Bosnia-Erzegovina, ma di tutto il mondo. Il lavoro del Genocide Film Library è molto importante per le vittime di Srebrenica, perché gli permette di raccontare la loro esperienza traumatica, dando voce anche a chi solitamente è tenuto al di fuori della narrazione ufficiale degli eventi e lontano dall'arena politica. Uno degli obiettivi del progetto è contribuire al cambiamento di paradigma perché, riconoscendo ai testimoni un ruolo e un'autorità in quanto educatori, fa in modo che siano considerati non più solamente vittime, ma anche sopravvissuti.
Il giorno 11 luglio del 1995, anno in cui la guerra in Bosnia-Erzegovina raggiunge alti livelli di violenza e follia inaudita, il generale Ratko Mladić conquista la città di Srebrenica, dichiarata dall'ONU “zona di sicurezza” e quindi libera dagli attacchi armati. Le forze della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina provvedono alla “pulizia” della città sotto gli occhi dei soldati olandesi, che avrebbero dovuto difendere l'enclave posta sotto la protezione della comunità internazionale, ma che invece contribuiscono al massacro con la loro inattività. Circa 250.000 persone che vivevano nell'enclave, per la maggior parte, donne, bambini e anziani, sono stipate dai serbo-bosniaci su pullman e camion e indirizzate verso Tuzla, per essere depositate nei territori controllati dalle forze dell'Armata Bosniaca, non senza subire ulteriori violenze e umiliazioni durante il tragitto. Agli uomini bosniaci musulmani in età militare invece tocca una sorte diversa; migliaia di uomini tra i sedici e i sessantacinque anni sono imprigionati in condizioni disumane, spostati a gruppi su grossi pullman, giustiziati e sepolti in fosse comuni. Nel periodo immediatamente successivo, tra settembre e ottobre del 1995, le truppe di Mladić cercano di cancellare le tracce del massacro trasferendo i corpi delle persone uccise dalle prime fosse comuni in altre, situate a maggiore distanza. La caduta di Srebrenica fu sicuramente uno dei momenti più bui della storia dell'ONU, il quale ammise di aver gravemente sottovalutato la situazione e di non aver fatto nulla per fermare il genocidio in atto. L’esercito serbo-bosniaco fu responsabile del massacro di ottomila uomini nell’enclave di Srebrenica; l’intenzione serba, in parte realizzata, era eliminare la comunità musulmana dalla Bosnia-Erzegovina, sia uccidendo gli uomini, sia violentando le donne per costringerle a partorire figli serbi, spaccando in questo modo del tutto la comunità nemica e andando a incidere sulla composizione etnica della popolazione. Con la sentenza del 2004 contro il generale serbo Radislav Kristić, il boia di Srebrenica, il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia ha riconosciuto il crimine di genocidio anche se commesso in una sola regione e in presenza dell'annientamento di un solo genere, contribuendo così alla revisione del concetto giuridico di genocidio. La sentenza segna un'importante evoluzione del diritto internazionale perché i giudici dell'Aia riconoscono che il massacro di Srebrenica è stato determinato dalla volontà di distruggere almeno una parte sostanziale del gruppo protetto, quello dei musulmani di Bosnia.
L'antropologia, figlia del colonialismo europeo che ha provocato il più grande genocidio della storia, ha avuto molte difficoltà a rapportarsi con la violenza e, soltanto quando ha iniziato ad analizzarla come elemento costituente delle società, è riuscita in parte a comprenderla. Secondo Michel Foucault il potere non si esercita più tramite una violenza imposta dall'esterno, ma con una presa in carico dall'interno dei corpi e delle personalità sociali, soprattutto grazie allo sviluppo delle tecniche di sorveglianza e detenzione. L'antropologa Nancy Scheper-Huges, riprendendo questa idea teorizzata da Foucault di una violenza insita nella società, riconosce che, all'interno di spazi sociali normativi sempre più militarizzati, si praticano quotidianamente atti di violenza autorizzati che degradano gli altri allo status di non persone, normalizzando così la violenza verso altri esseri umani. Se esiste quindi una continuità tra il male quotidiano e quello eccezionale, un continuum genocida, la violenza straordinaria del genocidio o dello sterminio non è altro che il portare alle estreme conseguenze la violenza quotidiana; in questo modo il genocidio diventa socialmente conveniente e viene accettato, e quindi giustificato, da tutti gli attori in causa, sia carnefici che vittime che spettatori. Dunque ogni essere umano, compresi noi stessi, è in grado di compiere, nella più assoluta normalità, atti di violenza; per questo è necessario mantenere sempre un atteggiamento costante di ipervigilanza, per cogliere immediatamente i sintomi di quella capacità genocida insita nella società, ma anche in ognuno di noi.
La pulizia etnica che si compie in ex-Jugoslavia è profondamente moderna e non imputabile ad antichi odi atavici, come viene spesso ripetuto; nonostante i movimenti nazionalisti che nascono nei Balcani con la disgregazione della Jugoslavia contengano un forte esclusivismo, difficilmente avrebbero portato alla pulizia etnica, se questa non fosse stata scelta deliberatamente dai vari governi per ottenere specifici obiettivi. Le politiche identitarie, infatti, sono spesso utilizzate per rinforzare il sentimento di appartenenza necessario per la formazione dello stato-nazione. Durante la guerra si diffonde l’immagine del calderone bosniaco pronto a esplodere nel momento in cui viene tolto il coperchio jugoslavo, ma non si è mai riflettuto sul fatto che queste identità etniche possano essere, non tanto la causa di questi conflitti, quanto la conseguenza. Secondo Robert Hayden il collasso è avvenuto proprio in quelle zone caratterizzate dalla più alta commistione etnica, dimostrato dal fatto che i conflitti più feroci sono stati combattuti soprattutto nelle zone demograficamente più miste, poiché per la creazione delle nuove entità statali è necessario eliminare quell'elemento inimmaginabile che sono le minoranze, prova vivente e lampante del fallimento dello stato nazionale.
Lo scopo della creazione di un archivio di testimonianze dei sopravvissuti è raccontare la verità sul genocidio di Srebrenica, affinché non sia mai dimenticata. La testimonianza registrata e convertita in video, quindi un documento tangibile, assume una grande importanza per il sopravvissuto, poiché, oltre a rivestire la storia narrata di verità, convalida l'esperienza stessa, la quale spesso è tenuta nascosta per molto tempo, per il timore di non essere creduti; nel momento in cui la vittima sa di essere ascoltata, gli viene restituita parte di quella dignità che è stata umiliata. Nonostante il genocidio sia stato riconosciuto, sia a livello giuridico che politico, dalla comunità internazionale, il negazionismo è sempre più diffuso in Bosnia-Erzegovina; gli organi ufficiali della Repubblica Serba raramente riconoscono i fatti di Srebrenica come genocidio e rifiutano qualsiasi responsabilità per le atrocità commesse con il loro beneplacito. Il negazionismo può essere molto pericoloso, soprattutto in società ancora divise come quella bosniaca, poiché il rifiuto è spesso precursore di altri genocidi. Il lavoro del Genocide Film Library è d’importanza critica nella prevenzione di nuove violenze e in questo modo contribuisce al processo di riconciliazione in atto nella regione dei Balcani.
In situazioni di particolare violenza o di violazione dei diritti umani, scrivere per raccontare quello che si sta vivendo è un istinto naturale dell'essere umano; quando l'obiettivo della violenza è l'eliminazione di un popolo, testimoniare diventa necessario nella consapevolezza che sia l'unico modo per scrivere la storia degli eventi. Il testimone però acquisisce un'identità sociale specifica con il processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961, quando il procuratore Hausner decide di basare l'impianto del processo sulle testimonianze delle vittime dell'Olocausto, nonostante i documenti in suo possesso fossero più che sufficienti a decretare la condanna; obiettivo del processo era infatti suscitare emozione e coinvolgimento, così che gli uomini non potessero più arretrare davanti alla verità del racconto storico svelata dalle testimonianze. Dagli anni Sessanta, il testimone è visto come il portatore indiscusso della verità sul passato, ma proprio in quanto protagonista degli eventi non può parlare in maniera oggettiva ed equilibrata; poiché la testimonianza non rappresenta per forza la verità sul piano della conoscenza, è necessario che sia sempre sottoposta a critica e accompagnata da una dettagliata narrazione storica.
L'insieme dei racconti e delle testimonianze di una comunità sopravvissuta, oltre a contribuire alla costruzione collettiva della memoria, costituisce il lavoro collettivo del lutto, necessario per provare a riempire il vuoto lasciato dal genocidio. La testimonianza di un evento, soprattutto se all'interno di un movimento di massa, è espressione dell'esperienza individuale, così come dei discorsi della società stessa; secondo Maurice Halbwachs, infatti, la memoria non è altro che una ricostruzione selettiva degli eventi che ne fa dipendere l'immagine dagli interessi e dai bisogni del presente. Le testimonianze possono quindi essere strumentalizzate inserendole all'interno di un particolare discorso politico; i luoghi, le immagini e i riti della memoria corrispondono all'immagine che il pensiero dominante vuole trasmettere, ma non sono espressione dell'unità del gruppo, bensì terreno di uno scontro, di una contestazione tra voci e interpretazioni diverse. Pur essendo espressione del potere, la memoria ufficiale contiene al suo interno le dinamiche conflittuali di egemonia e subalternità che attraversano l'intera società; in queste contrapposizioni tra immaginari lo scontro avviene su determinati contenuti, su alcune rappresentazioni del passato che sono di estrema importanza per l'identità di questi stessi soggetti collettivi che si contrappongono. Attraverso un lavoro collettivo e partecipato si costituiscono memorie e identità trasversali non più sotto il controllo degli specialisti del potere, ma più “democratiche” e capaci di proporre una visione diversa della realtà, contrapposta a quella degli apparati del potere.
Nell'ufficio del Genocide Film Library a Sarajevo ho lavorato insieme a giovani donne che portano avanti il progetto con coscienza e determinazione; da questi incontri con donne forti e coraggiose che hanno vissuto il conflitto e che hanno saputo reagire per provare a cambiare la società in cui vivono, nasce il mio interesse per il ruolo che le donne bosniache hanno avuto durante e dopo il conflitto in ex-Jugoslavia, dove sono state le principali vittime. Solitamente in guerra la donna subisce violenze diverse rispetto all'uomo, perché viene considerata territorio di conquista o bottino di guerra, e il corpo della donna diventa campo di battaglia quando i combattenti decidono di umiliare, intimidire e distruggere il nemico incidendo su di esso. Lo stupro è sempre stato collegato alla guerra come un suo corollario, come un’inevitabile conseguenza che finisce per essere accettata e praticata da tutte le parti, addirittura giustificata con la creazione dei bordelli militari. In tempi di guerra le donne sono costrette a subire le peggiori violenze e umiliazioni: sono ridotte al lavoro forzato e alla schiavitù sessuale, sono umiliate, torturate, mutilate, uccise e una volta terminato tutto ciò, se sopravvivono, spesso sono poi rifiutate dalla loro comunità per il disonore e perché ricordano agli uomini di non essere stati in grado di proteggerle. Nei conflitti moderni si assiste a un aumento dell'intensità e dell'organizzazione delle violenze sulle donne, le quali sono colpite non più solo in quanto donne, ma perché appartenenti a un determinato gruppo etnico o politico; le violenze sessuali sono sempre meno conseguenza del conflitto e sempre più utilizzate in maniera strategica dalle autorità politiche come strumento di terrore in funzione di un programma di pulizia etnica e genocidio. Durante la guerra in ex-Jugoslavia i nazionalisti serbi hanno perfezionato questo "crimine spontaneo", affinché potesse essere utile al progetto politico di partizione e pulizia etnica del territorio. Per la prima volta nella storia della guerra, gli stupri di massa sono utilizzati come strumento di pulizia etnica all'interno di una precisa strategia militare, pianificata e coordinata; le donne, principalmente bosniache musulmane, sono prelevate dalle case e dalle comunità e sistematicamente violentate, o da singoli o in gruppo. Queste violenze sono finalizzate a intimorire e degradare la donna, ma anche tutti coloro che partecipano alla sua sofferenza; in questo modo i bosniaci sono spinti a fuggire e ad abbandonare i loro territori per cercare di evitare ulteriori violenze e umiliazioni. Inoltre la politica serba mirava a incidere, attraverso lo stupro, sulla composizione etnica futura della Bosnia-Erzegovina; esistevano, infatti, delle strutture detentive in cui le donne subivano abusi di continuo finché non rimanevano incinte e quindi obbligate a partorire “piccoli cetnici”. Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia ha ridefinito il crimine di stupro riconoscendolo come crimine contro l'umanità nel 2001, quando attesta che le donne musulmane di Foča furono sistematicamente violentate e torturate dai soldati e paramilitari serbo-bosniaci nell'aprile del 1992. È la prima volta che l'aggressione sessuale è investigata per la persecuzione di tortura e asservimento e il reato di stupro etnico passa dall'essere considerato “atto lesivo del pudore della donna” a “crimine contro l'umanità”; si tratta di un passaggio fondamentale che porta al superamento della diffusa accettazione dello stupro e dello schiavismo sessuale delle donne come parte intrinseca della guerra.
La sofferenza delle vittime di stupro non termina con la fine della violenza, ma queste donne sono condannate a una tortura psicologica che dura tutta una vita. In questi casi la parola diventa necessaria, per allontanarsi dalla violenza subita e per evitare che questa si annidi all'interno dell'anima continuando a generare odio; tramite il racconto è possibile esprimere la sofferenza, rivivere la realtà dei fatti e rielaborare il trauma. Nonostante ciò, le donne bosniache hanno ancora la forza di reagire e andare avanti, come hanno fatto durante tutta la guerra, quando si sono rese protagoniste di tante storie di resistenza civile e sono riuscite a non perdere il coraggio morale per opporsi alla violenza e la capacità di creare rapporti per soccorrere chi ha bisogno. La cosa più difficile da sopportare durante la guerra è l'umiliazione e la sensazione di non essere più umani; per riuscire a sopravvivere e rimanere umani è necessario mantenere le relazioni continuando a vivere insieme. Durante la guerra anche i ruoli cambiano e mentre nella famiglia tradizionale bosniaca è l'uomo che lavora per mantenere la famiglia, ora gli uomini sono al fronte e le donne si ritrovano completamente sole e senza alcun sostegno per provvedere alle incombenze quotidiane. In questo periodo di lotta per la sopravvivenza, i nuclei familiari guidati da donne, che costituiscono un quinto del totale della popolazione, sono costretti ad affrontare le condizioni più dure per la totale assenza di mezzi di sussistenza; per le donne risulta praticamente impossibile trovare un lavoro e l'unica maniera per sopravvivere è fare affidamento agli aiuti umanitari. Raramente le donne sole riescono a beneficiare dell'assistenza sociale, in parte per la mancanza di fondi e in parte per l'impostazione normativa, e comunque, anche una volta ricevuti i sussidi si tratta comunque di cifre irrisorie e non sufficienti.
Le esperienze che le donne vivono in situazioni di conflitto sono diverse da quelle affrontate dagli uomini, così come sono diverse le specificità che possono apportare al processo di pace. Con la fine del conflitto in ex-Jugoslavia la comunità internazionale ha messo in piedi un intervento senza precedenti: sono stati fatti ingenti investimenti finanziari e quasi tutte le agenzie internazionali hanno realizzato piani in Bosnia-Erzegovina. L'efficacia di questo grande sforzo per la ricostruzione e pacificazione del paese è discutibile e, viste le condizioni attuali della maggioranza della popolazione femminile, risulta che l'approccio di genere non sia stato incorporato nelle strategie d’intervento. La mancanza di un'analisi di genere riduce l'efficacia degli stessi interventi di peacebuilding, poiché sono mantenute le stesse disuguaglianze e gli squilibri sociali che contribuiscono all'aumento della conflittualità sociale, vanificando ogni tentativo di riconciliazione. Nella fase successiva al conflitto sono possibili cambiamenti importanti e bisogna intervenire cercando di superare le vulnerabilità critiche della componente femminile della popolazione per realizzare progetti realmente funzionali alla ricostruzione del paese. Solo recentemente si è sviluppata la consapevolezza della peculiarità della posizione della donna e quindi della necessità di adottare in maniera trasversale un'ottica di genere quando si decide di intervenire in un contesto post-conflitto. L'importante è non riproporre l'immaginario classico della donna depositaria di una vocazione pacifica che si contrappone quindi a un uomo succube degli impulsi violenti e aggressivi; questa immagine, oltre che essere semplicistica, può risultare dannosa, poiché potrebbe ostacolare il libero sviluppo dei processi di riconciliazione. Non si tratta di una caratteristica di propensione alla pace spiccatamente femminile, quanto di una tendenza culturalmente e socialmente acquisita; l'esistenza di un vissuto quotidiano comune unisce le donne, indipendentemente dalla religione e dalla politica, e le colloca in una dimensione concreta molto più vicina ai bisogni di base. La donna mantiene sempre in ogni circostanza dei ruoli definiti che la rendono consapevole del carattere universale della condizione umana, al di là di ogni possibile contrapposizione, e che la spingono a intervenire per far cessare i conflitti e le ostilità. Il contributo delle donne ai processi di pace possiede una sua specificità; si tratta di un patrimonio di azione strategica che la donna ha utilizzato per secoli nella dimensione interpersonale, a causa dell'assenza di potere pubblico formale, e che è recuperato e codificato per essere applicato a una dimensione più ampia. Questo potenziale non riguarda tutte le singole donne, ma rappresenta sicuramente un vero e proprio patrimonio di genere che si differenzia totalmente dall'agire strategico maschile. Fuori dall'ambiente domestico le donne devono confrontarsi con i limiti della loro forza e del loro potere rispetto agli uomini e cercano così di spostare il loro impegno verso quelle dimensioni, come la creatività e l'empatia, che gli sono più consone, contribuendo così a costruire una nuova concezione di pace e di sicurezza, incentrata su una dimensione più umana. Le donne non devono essere viste esclusivamente come vittime di guerra, ma anche come fautrici di pace, perché svolgono sempre più un ruolo attivo di sensibilizzazione per la difesa della pace all'interno delle comunità.
Infine, ho deciso di concludere la mia tesi con due esempi positivi di associazioni che lavorano con donne sopravvissute al conflitto e il cui lavoro è molto importante e funzionale per la pacificazione della Bosnia-Erzegovina; grazie al Genocide Film Library ho potuto incontrare e intervistare rispettivamente Nura Begović, portavoce di Women of Srebrenica, e Munira “Beba” Hadžić, fondatrice di BOSFAM. L'associazione Žene Srebrenice - Women of Srebrenica si costituisce immediatamente dopo il luglio del '95 e l'obiettivo principale era ed è tuttora, conoscere e mostrare la verità sul genocidio di Srebrenica e ottenere giustizia per i crimini commessi. Le donne di Srebrenica, che si considerano active survivors, lavorano incessantemente da diciotto anni per ritrovare i resti di tutte le persone scomparse e dare loro sepoltura nel memoriale di Potočari; si tratta di un processo molto lungo poiché sono periodicamente scoperte e aperte nuove fosse comuni e finora sono state sepolte 5.127 persone, i cui resti sono stati trovati all'interno di settantaquattro diverse fosse comuni. Uno degli obiettivi dell'associazione è combattere contro il negazionismo sempre più diffuso nel paese e per questo cercano di fare pressione sulla politica nazionale attraverso la collaborazione con le istituzioni internazionali, come il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia, in quanto molte di loro sono anche testimoni dei processi; soprattutto queste donne lottano per ciò che è più importante, mantenere viva la memoria fino a quando non sarà seppellita l'ultima vittima del genocidio.
L'associazione Bosnian Family inizia a lavorare durante la guerra con le donne che vivono nei collective centres e che non hanno i mezzi necessari per provvedere ai bisogni della famiglia; le riunisce e gli propone un lavoro che tutte erano in grado di fare, lavorare a maglia. Grazie a BOSFAM le donne lavorano, recepiscono un reddito, mantengono la famiglia e collaborano tra di loro per aiutare altre donne e i loro bambini; in questo modo l'associazione, grazie alle reti di donne che si sono sviluppate intorno al loro lavoro, cerca di aiutare e sostenere chi è in difficoltà finché non diventa in grado di provvedere da sola a se stessa e a tutta la famiglia. L'associazione punta sul valore terapeutico della socializzazione e dell'impegno “lavorativo” per il superamento dei traumi psicologici della guerra, poiché uscire dall'isolamento è necessario per ritrovare un equilibrio psicologico; offrendo alle donne uno spazio di aggregazione, indipendentemente dall'etnia e dalla nazionalità, si cerca di ricreare una comunità dove possano sentirsi al sicuro e riacquisire consapevolezza delle proprie capacità per potersi occupare autonomamente della propria vita.
La Bosnia-Erzegovina è un paese che non ha ancora superato la guerra e politicamente non riesce a trovare una propria stabilità; gli accordi di pace sono serviti a porre fine agli scontri, ma il conflitto civile e quello economico sono ancora presenti. In un paese ancora diviso dall'odio è difficile per le donne trovare il loro posto nella società, eppure queste donne l'hanno trovato, sia durante il conflitto che dopo, diventando il sostegno di tutta la famiglia. Le donne bosniache hanno sempre avuto un ruolo centrale e tanto da raccontare, ma non sempre trovano i posti adatti per farlo; il Genocide Film Library, come altre associazioni, permette a tutte le vittime del genocidio di raccontare la loro storia. Sono donne che hanno il coraggio e la tenacia di denunciare le violenze subite e cercare i corpi dispersi dei loro figli, ma il dolore e la sofferenza che provano non lascia spazio a propositi di vendetta; niente in questo mondo gli restituirà i loro cari e la loro unica consolazione sarà quando i responsabili di questo genocidio saranno condotti di fronte alla giustizia, condannati pubblicamente e puniti per i crimini che hanno commesso. Perché il processo di riconciliazione possa essere possibile in un paese devastato dal conflitto, è necessario fare chiarezza sui crimini commessi, affinché le atrocità della guerra e il genocidio di Srebrenica non siano dimenticati, ma sia la Bosnia-Erzegovina che la comunità internazionale fanno ancora fatica a parlare di tutto ciò e riconoscere le responsabilità dei massacri. I lavori del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia procedono a rilento, anche a causa del rifiuto dei governi di collaborare nella consegna dei ricercati, e non è ancora stata fatta giustizia a tutte le donne violentate dai soldati serbi e costrette a convivere con tale dolore. Una delle debolezze della giustizia penale internazionale è il carattere selettivo ed esemplare, che incrimina solamente poche decine di persone a fronte di grandi crimini contro l'umanità che prevedono una rete estesa di colpevolezze, poiché tutta la società è stata attraversata da questi crimini. La giustizia è quindi un tassello fondamentale all'interno di un possibile percorso di riconciliazione, ma non può farcela da sola; l'elemento del riconoscimento della colpa ha avuto un'importanza fondamentale nei Balcani, ma perché questo percorso continui è necessario che l'intero corpo sociale sia attraversato da questo tipo di dibattito e intraprenda un percorso di elaborazione del confitto in forme non violente. L'obiettivo è identificare e diffondere una visione realistica delle cause del conflitto, aiutando lo svolgersi di testimonianze e narrazioni che possano stabilire alcuni punti di vista comuni tra le diverse comunità sul passato recente, collaborando affinché certe violenze non si ripetano. Oggi Sarajevo e la Bosnia-Erzegovina lottano per superare definitivamente l'incubo della guerra e la pace sarà possibile solo quando tutte le violenze saranno punite e tutti i figli saranno sepolti.
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