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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-05042015-082228


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
PAGLIARO, IVAN
URN
etd-05042015-082228
Titolo
Dai Beatles alla disco music. La popular music nella stampa comunista italiana, 1963-1979
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E CIVILTA'
Relatori
relatore Prof. Banti, Alberto Mario
Parole chiave
  • musica
  • la città futura
  • vie nuove
  • politica culturale
  • pci
Data inizio appello
25/05/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
L’obiettivo di questo lavoro è mettere in luce il modo in cui il Partito comunista italiano ha giudicato la popular music, nella consapevolezza che il discorso sulla musica rappresenta al contempo un aspetto marginale della politica culturale del PCI e un elemento fondamentale nello studio della condizione giovanile. La musica non costituiva infatti uno dei campi in cui si combatteva la “battaglia delle idee”, come invece l’arte, la letteratura o il cinema, non essendo considerata propriamente «cultura», che presupponeva l’esistenza e l’opera degli intellettuali.
La nozione che la musica abbia una portata euristica nello studio della condizione giovanile si fa avanti, negli ambienti comunisti, intorno alla fine degli anni Settanta, ad opera della nuova generazione di iscritti e funzionari che avevano collaborato con riviste del settore, testimoniando così che solo la vicinanza biografica o il ricambio generazionale consentivano l’adozione di un’ottica disposta a considerare la musica un argomento di vitale interesse nel rapporto tra il partito e i giovani; d’altro canto, la stessa storia degli studi rispecchia una distanza da questo tipo d’impostazione promiscua, al confine tra storia politica e musicale .
Quando parliamo di musica, anzi, di popular music, ci riferiamo a tutto ciò che non è musica classica, seguendo la terminologia anglosassone che ha fatto la sua comparsa in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta, principalmente tra gli studiosi e qualche critico. A questa espressione in italiano corrisponde una costellazione di traduzioni: quella letterale di musica popolare è fuorviante, perché sovrapponibile a folk; usare semplicemente pop è a sua volta scorretto, perché limiterebbe o estenderebbe la portata del termine; seguendo le versioni italiane dei libri di Adorno, musica di consumo ha avuto un certo successo, come anche musica contemporanea/moderna/leggera; secondo altri ancora, la parola più appropriata in italiano è semplicemente canzone , usata come nome collettivo, ad esempio, per il Festival della canzone italiana o per parlare di canzone napoletana, popolare, di protesta; anche il termine canzonetta, che indicava dall’Ottocento ciò che non era opera, ma operetta, viene riferito alla musica leggera, non necessariamente con significato dispregiativo (giacché con senso puramente descrittivo lo usavano anche Mina o Mogol), ma escluderebbe tutta la produzione nata, o ascoltata, in contrapposizione alla musica leggera in stile sanremese canonico, già a partire dagli urlatori di fine anni Cinquanta . Fatte salve tutte queste cautele e precisazioni, non useremo tuttavia una terminologia univoca, che risulterebbe forzata, ma adotteremo di volta in volta la definizione più appropriata e più conforme al contesto.
Conseguentemente agli obiettivi enunciati, abbiamo escluso in toto dalla nostra ricerca la musica classica (che invece godeva dello status di cultura ed era legata a forme di fruizione e produzione minoritarie il cui rapporto con la società dei consumi è forse più assimilabile alle evoluzioni del teatro di prosa) e – forse più sorprendentemente – il jazz, che nonostante le maledizioni adorniane si era affermato ufficialmente nel panorama della musica di qualità e della popular music in generale; tuttavia il jazz, diversamente dal rock e da molta della musica di cui si parla – e che nasce – negli anni che esaminiamo, non è una musica dei giovani , non rappresenta cioè un elemento identitario che rispecchi una distanza generazionale . Inoltre, la provenienza statunitense (o angloamericana) di molta parte della produzione musicale tra gli anni Sessanta e Settanta ha fornito una peculiare prospettiva sui cangianti modi in cui si entrava in relazione con qualcosa che, nonostante le connotazioni o l’uso che se ne faceva, arrivava dal “campo avversario”.
Nell’individuare dei termini cronologici, la scelta è stata guidata dall’intersezione di più piani: musicale-sociale-culturale e politico-documentario. Il 1963 è l’anno del lancio dei Beatles a livello internazionale, che portò all’esplosione mondiale della musica giovanile (anticipata nel decennio precedente da Elvis Presley) e alla complicazione di un fenomeno a tutta prima commerciale con caratteristiche d’interesse sociale, estetico, culturale ; in Italia questo coincide con una fase di maggiore benessere materiale all’esaurirsi del miracolo economico, in cui gli adolescenti nati dopo la Seconda guerra mondiale rappresentano la prima generazione italiana ad essere nel complesso omogenea in termini di lingua, gusti e riferimenti culturali . Nel 1978 chiude dopo più di trent’anni il rotocalco Giorni – Vie Nuove, storicamente legato alla funzione di propaganda e informazione, il cui ristretto organico non consentiva più di competere con le più agguerrite riviste di approfondimento politico; frattanto sul Contemporaneo (supplemento culturale di Rinascita) compare un estemporaneo speciale sulla musica dei giovani e l’anno successivo chiude la Città futura, l’unica rivista comunista ad aver dedicato un interesse continuo e approfondito alla musica, riconoscendone l’importanza per i giovani e per capire i giovani, lasciando non tanto un vuoto quanto una traccia dell’evoluzione dei giovani comunisti; la fine degli anni Settanta inoltre rappresenta il primo momento di analisi e autoanalisi sui movimenti giovanili del decennio precedente, in cui si formulano riflessioni sulla loro evoluzione storica e sul loro legame con i movimenti contemporanei, con tonalità molto simili – perché riferite ad elementi connaturati – a quelle con cui si parla dell’evoluzione della popular music e dei suoi esiti individualistici o individualizzanti nel punk e nella disco music.
Considerando quindi la musica degli anni Sessanta e Settanta come una delle propaggini della cultura di massa, abbiamo scelto come fonte la stampa di partito, che si configura da subito per il PCI repubblicano non solo come un mezzo di propaganda, ma come uno strumento educativo capace di fornire ai lettori e ai militanti le coordinate principali per capire la società; il marcato orientamento pedagogico – e talora didascalico – è fortemente presente nel campo della stampa periodica e la scelta di utilizzare materiale tutto interno alla cultura comunista permette di «osservare una pluralità di situazioni anche molto distanti dalla dimensione monoliticamente normativa ed “ufficiale”, o dalla retorica del “dover essere”» ; s’intuisce, inoltre, la permanenza del tentativo di evitare l’isolamento dalla società che contraddistingueva la stampa comunista dall’epoca postbellica.
Le fonti che abbiamo scelto sono i periodici di partito, perlopiù settimanali, in cui l’argomento musicale viene affrontato e declinato nei diversi modi che la differente natura della rivista prevedeva: dal rotocalco Vie Nuove, da Rinascita, dalla rivista dei giovani comunisti La città futura, abbiamo estrapolato quegli articoli che ci hanno consentito di evidenziare la presenza o assenza di una linea editoriale, o politica, sulla musica dei giovani italiani. L’utilizzo dell’Unità è stato marginale e di supporto, ma ha talora permesso di ricostruire con maggiore precisione i contorni di dibattiti che altrove erano soltanto episodici; crediamo tuttavia che la natura del settimanale, caratterizzata dall’approfondimento su temi d’interesse, si confacesse meglio alla ricerca che abbiamo svolto, offrendo spesso analisi di maggiore intensità rispetto agli articoli di un quotidiano, orientati perlopiù sulla cronaca.
Per la natura fortemente esplorativa di questa ricerca, si è deciso in molti casi di lasciar parlare le fonti e di farle dialogare, nella convinzione che potessero restituire in modo autonomo un quadro autentico e multiforme dei dibattiti affrontati e un resoconto scevro da semplificazioni ex post.
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