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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-04272014-175223


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
FAILLA, SEBASTIANO
URN
etd-04272014-175223
Titolo
L'eutanasia nell'ordinamento costituzionale italiano. Uno studio sulla giurisprudenza e sul dibattito recente.
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof.ssa Sperti, Angioletta
Parole chiave
  • Eutanasia
  • autodeterminazione nelle cure mediche
  • fine vita
Data inizio appello
26/05/2014
Consultabilità
Completa
Riassunto
Il progresso scientifico degli ultimi decenni ha ampliato in modo significativo le possibilità di sopravvivere anche ad eventi particolarmente infausti.
Le moderne tecniche medico-scientifiche se da un lato permettono di curare patologie anche molto complesse, dall'altro possono prolungare, a volte, lo stato di sofferenza dovuto sia dalla gravosità dei trattamenti sia dall'aggressività della patologia conducendo il paziente ad un pesante deterioramento della qualità della vita e al manifestarsi di situazioni di forti sofferenze, con le quali i malati potrebbero convivere anche a lungo, senza possibilità di guarigione.
Nei casi limite, vengono a determinarsi infatti situazioni di vera e propria sospensione tra la vita e la morte diventando sempre più concreto il rischio per il paziente di trascorrere un'esistenza meramente biologica.
Alla luce di tale scenario, appare dunque di evidente importanza dar voce alla facoltà di autodeterminazione del paziente per permettergli di decidere dignitosamente del proprio fine vita.
Ci si chiede dunque se le scelte di fina vita troverebbero una legittimazione nel nostro ordinamento.
La tematica delle scelte di fine vita richiama un approfondimento sull'eutanasia, dato che le due questioni inevitabilmente si intrecciano, la cui legittimità alla Costituzione è particolarmente dibattuta.
Oggi, generalmente, il termine eutanasia viene ricollegato a “situazioni di grave e inguaribile malattia, in cui, visto il decorso obbligato verso la morte e le forti sofferenze del paziente, il medico, con il consenso dell’interessato, somministra farmaci molto forti in grado di diminuire il dolore e di provocare la morte”. Ciò che contraddistingue tale pratica sono dunque l'elemento pietistico, la volontà del soggetto e l'intervento di un terzo. L'agire del terzo contraddistingue la dicotomia tra eutanasia attiva/passiva e si fonda sull'elemento causale dell'evento morte.
Il caso dell'eutanasia attiva/suicidio assistito è conseguenza della volontà del paziente all'induzione alla morte, il caso dell'eutanasia passiva è conseguenza della volontà di rifiutare trattamenti medici in qualunque modo esso avvenga e quindi anche intervenendo nel distacco dei trattamenti da parte del medico.
Una prima soluzione in merito all'ammissibilità di determinate scelte di fine vita sembra derivare dalla lettura dell'articolo 32 della Costituzione che, oltre a promuovere il diritto alla salute nell'ordinamento, proclama la libertà negativa di non avvalersi delle cure mediche attraverso la formula del consenso informato che può essere tratto dalla interpretazione degli articoli 2 e 13 della Costituzione, dai quali si ricava l'inviolabilità del diritto all'autodeterminazione, in combinato disposto con il 32.
Il principio del consenso informato si ricava anche nel codice di deontologia medica del 2006, nella legge 33 del 1978 sul servizio sanitario e trova conferma anche a livello internazionale nella Convenzione di Oviedo e nella carta Cedu.
Secondo la dottrina maggioritaria il rifiuto è un diritto privo di limiti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge e riguardanti la salute pubblica e lo stato di necessità, consentendo all'individuo anche di lasciarsi morire sfociando nella più complessa e articolata nozione di eutanasia passiva, nella quale l'evento morte è appunto conseguenza della richiesta del paziente al medico del rifiuto terapeutico.
Di conseguenza la sicura base costituzionale al diritto di rifiutare un determinato intervento medico terapeutico sembrerebbe sufficiente a legittimare dunque l'eutanasia passiva.
Per sostenere il contrario, bisognerebbe riuscire a costruire un'argomentazione costituzionale incentrata sul dovere di vivere e di mantenersi in salute, come un dovere verso la collettività.
Ma questo non appare una strada costituzionalmente possibile alla luce degli articoli 2, 13 e 32 Cost., al di là di quelle situazioni in cui non sia la legge a prevedere trattamenti sanitari obbligatori.
Il rispetto della persona umana e della sua libertà di autodeterminarsi sono inoltre espressione del principio personalista, che contraddistingue l'intera Costituzione, e non sembra ulteriormente possibile ricavare viceversa una chiave concettuale capace di vincolare l'individuo alla sua integrità.
Se dunque è possibile ammettere nel nostro ordinamento la liceità dell'eutanasia passiva, in quanto estremo risvolto del diritto a rifiutare le cure, tuttavia è di fondamentale importanza tenere presente la sussistenza della rilevante differenza tra il “lasciarsi morire” e il “chiedere a qualcuno di essere aiutato a morire”.
La legislazione penale italiana infatti offre delle indicazioni che, sebbene non del tutto puntuali, rappresentano le fonti di riferimento per inquadrare la portata del diritto di autodeterminazione nelle scelte di fine vita e del fenomeno dell'eutanasia. Sebbene non siano presenti nel codice penale norme direttamente riguardanti la materia dell'eutanasia, la situazione descritta pare potersi sussumere nelle fattispecie dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. e dell’aiuto al suicidio di cui all'art. 580 c.p.
A parte quanto previsto nella legislazione penale, l'illegittimità dell’eutanasia attiva non trova una così netta esplicitazione nella Costituzione e sembra piuttosto che l'inammissibilità della pratica eutanasica attiva in Italia sia più che altro legata ad una questione di scelte legislative dell'ordinamento.
Ritornando al diritto di rifiutare le cure, nonostante dal punto di vista costituzionale risulta evidente la liceità tale diritto, persiste ancora il dibattito sugli eventuali limiti e sull'eutanasia passiva.
In questo quadro così complesso si sente l’esigenza di maggiore chiarezza da parte del diritto di una facoltà che ha comunque solide radici nella Costituzione.
Il prolungato silenzio del legislatore e la difficoltà di raggiungere risultati condivisi su tali questioni, fanno si che la situazione italiana si presenti emblematica sotto questo profilo, in controtendenza rispetto alla maggioranza degli ordinamenti internazionali che in varia misura hanno già affrontato il problema.
Ciò ha inciso in maniera negativa su tutti quei malati che si ritrovano a versare tra insostenibili sofferenze fisiche e morali e chiedono, quanto meno, che il loro diritto al rifiuto delle cure venga rispettato.
Una risposta efficace ci è data dalla giurisprudenza italiana che, come si è visto con il caso Welby ed Englaro, ha saputo dare attuazione al principio di autodeterminazione del malato e all'ammissione dell'eutanasia passiva.
Il caso Welby ed Englaro, grazie al loro forte impatto mediatico, hanno avuto il merito di richiamare l’attenzione pubblica sulla tematica delle decisioni di fine vita, contribuendo, attraverso gli esiti giuridici, a ribadire i diritti del malato, soprattutto per ciò che riguarda il rifiuto delle terapie salvavita e, limitatamente al caso Englaro, per ciò che riguarda la validità delle dichiarazioni anticipate e le volontà pregresse.
La sentenza del 23 luglio 2007 n. 2049 del GUP di Roma relativamente al caso Welby, oltre che ad affermare la rilevanza costituzionale del diritto di rifiutare le cure sia di sostegno che di mantenimento vitale, sebbene la mancanza di norme ordinarie che ne attuassero il contenuto, ha contribuito ad escludere la punibilità del medico che agisce agevolando il diritto di rifiutare le cure richiamando la scriminante prevista all'art. 51 c.p. che esclude la punibilità di chi espleta un dovere imposto da norme giuridiche
La sentenza della Cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007 relativa al caso Englaro giunge dopo un lungo iter giudiziario che aveva negato il diritto di rifiutare le cure salva vita ed in particolare che un terzo potesse sostituirsi nelle decisioni mediche al paziente incosciente.
La sentenza della Corte di Cassazione si concentra su un punto decisivo: quando sono in discussione trattamenti sanitari risalire alla volontà della persona è il criterio fondamentale, qualunque sia la condizione attuale del paziente, sia capace che incapace.
La Corte individua il fondamento di tale principio nelle norme di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., nella Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e della biomedicina, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e infine nel codice di deontologia medica del 2006.
Il provvedimento della Cassazione ha avuto infatti il merito di affrontare la questione del consenso informato definendone, in via giurisprudenziale, gli elementi salienti, arrivando ad affermare che un malato che necessita di una determinata cura deve poter valutare le terapie possibili e scegliere se accettare l’operazione o rifiutarla.
Ribadita la centralità della volontà del paziente, la Corte individua orientativamente le forme in cui possa essere espresso il consenso, anche nei casi di individui non più coscienti e quindi determinare, in questo caso, un’uguaglianza di trattamento.
Fondamentale a tale scopo è stato inoltre il contributo offerto dalla giurisprudenza di common law, in tema di volontà pregresse e dichiarazioni anticipate, dalla quale la Corte di legittimità ha attinto per la sua decisione.
Centrale, secondo la Cassazione, è la disposizione dell’art. 357 cod. civ., la quale, letta con l’art. 424 cod. civ., prevede che «Il tutore ha la cura della persona» dell’interdetto, investendolo cosi della posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell’incapace.
L'intervento del tutore legale però non trasferisce un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza agendo nell'esclusivo interesse dell'incapace, non al posto dell'incapace né per l'incapace ma con l'incapace. Nel ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente il tutore deve tenere conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero deve desumere quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche, da precedenti dichiarazioni anticipate di trattamento.
Riguardo infine ai trattamenti di mantenimento vitale, data la complessità e innaturalezza delle terapie sembra difficile pensare che questi non possano essere considerati trattamenti medici a tutti gli effetti e quindi sospendibili.
Un primo approccio legislativo nel nostro ordinamento alle questioni di fine vita ha avuto ad oggetto le dichiarazioni anticipate di trattamento, in particolar modo a seguito della vicenda Englaro.
Il 26 marzo 2009 viene approvata infatti dal Senato una proposta di legge riguardante “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”.
Il disegno è passato successivamente alla camera dei deputati che l'ha approvato con modificazioni il 12 Luglio 2011 e nuovamente trasmesso al Senato, ed è ancora in corso di esame.
Tale proposta di legge nasce dalla necessità di definire i limiti dell'autodeterminazione in tema di decisioni mediche e sui meccanismi di manifestazione della volontà del paziente.
In realtà non c'erano limiti da definire, come lasciava intendere il disegno di legge del governo, bensì soltanto fattispecie da regolamentare.
Il quadro che emerge dall’analisi del disegno di legge è molto scoraggiante perché gli spazi per l’autodeterminazione individuale sono sensibilmente ridimensionati rispetto a quanto si ricava dai principi della Costituzione e sembra quasi che la dichiarazione, dopo aver richiamato gli art. 2, 13 e 32 della Costituzione, stravolga completamente il principio in parola.
I divieti e le restrizioni al diritto di autodeterminazione sono inoltre tali da rendere sostanzialmente impraticabile una scelta per chi voglia fare uso delle DAT.
Per integrare il quadro di riferimento della materia dell’autodeterminazione medica e delle decisioni di fine vita si è fatto infine riferimento alle scelte e alle soluzioni adottate al di fuori dei confini italiani ed in particolare all'esperienza maturata negli Stati Uniti e negli altri Paesi europei.
In generale si possono dunque individuare due modelli principali: uno di carattere tendenzialmente impositivo della vita ed un altro di carattere tendenzialmente permissivo della morte a sfondo individualista. Essenzialmente si contraddistinguono per una minore o maggiore ampiezza della possibilità per il soggetto di decidere sulle fasi finali della sua esistenza.
Il modello a tendenza impositiva è compatibile con un generale riconoscimento del diritto di rifiutare i trattamenti sanitari. Tale diritto si arresta di fronte a determinati trattamenti o accertamenti obbligatori, i quali devono di regola essere imposti per legge e nel rispetto della persona umana.
In questo senso, il modello in questione esclude un generale “dovere di essere curati”, consentendo al singolo, in condizioni ordinarie, di esercitare un ampio diritto di scelta sulla propria salute.
Il modello a tendenza impositiva legittima inoltre l’eutanasia passiva, in quanto conseguenza del diritto al rifiuto, rispetto a quella dell'omicidio del consenziente e aiuto al suicidio dove la morte è cagionata da un intervento medico diretto.
Tale differenza viene fatta discendere dal fatto che nel primo caso la morte è la conseguenza del decorso naturale della malattia, nel secondo
Si possono annoverare tra i modelli tendenzialmente impositivi la Svezia, la Francia, Norvegia, Spagna, Austria e Italia dove ciascun malato può rifiutare le cure o comunque l’accanimento terapeutico, senza riconoscere la legittimità dell'eutanasia attiva.
Fra gli ordinamenti maggiormente rappresentativi del modello in parola, si possono annoverare inoltre gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra.
Nell’ordinamento inglese le fonti del tendenziale carattere impositivo della vita trova fondamento nella corposa elaborazione giurisprudenziale rinvenibile nei precedenti in materia di diritto all’autodeterminazione in tema di cure mediche.
Emblematica a tal proposito è la celebre decisione dei primi anni Novanta del caso Bland, fondamentale anche in quanto definisce nell'ordinamento inglese il concetto di best interest e la legittimità delle dichiarazioni anticipate, oltre che consentire un generale diritto di rifiutare le cure.
Per quanto riguarda viceversa la fattispecie dell'eutanasia attiva, nel sistema giuridico inglese l’autore dell’atto eutanasico è sottoposto a responsabilità penale e pertanto punito a titolo di omicidio.
A testimonianza invece del diniego del diritto al suicidio assistito nell'ordinamento Inglese può essere presa in considerazione la vicenda del caso Pretty nella quale si evidenzia la portata del Suicide Act.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha da tempo individuato un right to refuse medical treatment che trova un aggancio tanto a livello costituzionale, sia federale che statale, quanto a livello di common law che di legislazione ordinaria.
Tale diritto comprende, già nella sua dimensione costituzionale, la facoltà di rifiutare trattamenti sia life-saving che life-sustaining.
Il tendenziale riconoscimento negli Stati Uniti del diritto di rifiutare le cure salva-vita, e la dichiarazione perciò del principio di autodeterminazione in ambito medico a livello federale venne proclamato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nei primi anni Novanta nel caso Cruzan v. Director Missouri Department of Health. Tale sentenza ha assunto particolare rilevanza inoltre per l'imposizione di un onere della prova del rifiuto delle cure mediche particolarmente rigoroso nei casi di soggetti non più capaci d’intendere e volere.
Viceversa uno dei primi significativi esempi di legislazione statunitense in tema di diritto al rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale e living wills è stato elaborato dalla California.
Con il Natural Death Act del 1976, tuttora in vigore, lo Stato della California riconosce il diritto dei malati terminali di compiere le decisioni sulle proprie cure, comprese quelle di rifiuto e interruzione delle terapie di sostenimento vitale, anche attraverso delle direttive scritte.
Il paziente inoltre, qualora non sia più in grado di manifestare la sua volontà, attraverso la dichiarazione anticipata può richiedere che le terapie di sostenimento vitale vengano interrotte o non intraprese qualora venga diagnosticata la fase terminale della malattia, e queste indicazioni divengono vincolanti per i familiari e il medico, in quanto espressione definitiva del diritto di rifiutare trattamenti medici o chirurgici.
Il diritto al rifiuto, in ogni caso, ha assunto un contenuto esclusivamente negativo e la Corte Suprema federale non ha mai accettato di intenderlo in termini di right to die. Emblematica a tal proposito è la sentenza Vacco v. Quill.
Ciò che preme precisare è che la sentenza in commento non mira comunque a vietare che la legislazione di uno Stato possa prevedere o meno ciascuna delle due pratiche attive, tuttavia si intende affermare, sempre a livello federale, che il right to die non possa essere identificato alla stregua di un diritto fondamentale.
Trattando della liceità dell'eutanasia, risulta necessario volgere l'attenzione più in generale alla presa di posizione da parte della corte CEDU in tema di scelte di fine vita. A tal proposito di fondamentale importanza appare la sentenza della Corte di Strasburgo del 2002 sul caso Diane Pretty.
Analizzando il contenuto della decisione e i principi che vi si trovano espressi è possibile ricavare l’orientamento seguito dalla Corte in tema di eutanasia.
La sentenza riconosce l'inviolabilità del diritto di rifiutare le cure, e quindi come diretta conseguenza l'eutanasia passiva, ma esclude che ciò possa implicare anche il diritto di morire, sebbene senza precludere del tutto la questione dell'eutanasia attiva e del suicidio assistito lasciando così spazio di autonomia decisionale a ciascuno stato europeo riguardo tali pratiche.
Ciò che caratterizza il modello a tendenza permissiva consiste in una protezione qualitativamente maggiore della libera determinazione della persona in relazione alla sua esistenza.
Secondo tale modello, in assenza di rischi concreti per la collettività, ogni soggetto capace di intendere e volere viene riconosciuto quale libero ed autonomo centro di volontà, anche in riferimento alle fasi finali della vita, lasciando quindi al singolo la libertà di decidere di compiere scelte anche di carattere eutanasico.
Il modello in parola tuttavia non prevede propriamente un diritto alla morte o all’eutanasia, ma spesso solo la non punibilità in determinate circostanze dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente. Per evitare il verificarsi di abusi sono inoltre previsti una serie di requisiti sostanziali e procedurali.
L’interesse a terminare la propria esistenza secondo forme ritenute personalmente dignitose ed umane non viene pregiudizialmente superato dall’interesse statale alla preservazione della vita, dando così maggiore rilevanza così al principio di autodeterminazione, ancorché non assoluto in quanto limitato solo a situazioni mediche di estrema sofferenza. Eutanasia attiva e passiva, quindi, sono regolate e legittimate nell'ordinamento.
Fra gli ordinamenti tendenzialmente permissivi si individuano, generalmente, gli esempi dell’Olanda, del Belgio, dell’Oregon, Washington e della Svizzera.
L'Olanda è stato uno dei primi paesi in Europa ad affrontare e risolvere questioni spinose di etica giuridica, riconoscendo il diritto del paziente di rifiutare il trattamento medico, ovvero la cosiddetta eutanasia passiva, e ad aprirsi all'eutanasia attiva.
Per quanto riguarda la questione dell'eutanasia attiva negli Stati della federazione si rileva un atteggiamento ancora prevalentemente orientato al divieto delle pratiche di eutanasia attiva e suicidio assistito, pur in un contesto culturale e giuridico in cui il right to die viene generalmente ricompreso nella sfera di autodeterminazione individuale.
Tuttavia si riscontra “una sorta di propensione sociale nei confronti del fenomeno eutanasico” a testimonianza di un atteggiamento teso a valorizzare particolarmente le scelte dell’individuo. Il materiale legislativo e giurisprudenziale di alcuni Stati della federazione evidenzia l’interesse a voler dare una risposta adeguata e coerente a queste esigenze.
Significativo, a tal proposito, l'esempio della disciplina normativa dello Stato dell’Oregon che per primo ha regolamentato il suicidio medicalmente assistito attraverso il Death with Dignity Act, approvato a seguito di un referendum nel 1994.
A riaccendere i riflettori sulle istanze di legalizzazione dell'eutanasia attiva e del suicidio assistito da parte di migliaia di malati terminali in Italia è stato l'intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera del 18 marzo 2014 all’Associazione Luca Coscioni, promotore di Eutanasia Legale, che dichiara: «Richiamerò l’attenzione del Parlamento sull’esigenza di non ignorare il problema delle scelte di fine vita».
L'intervento del Presidente della Repubblica giunge, dopo sei mesi di silenzio sull'iniziativa depositata in Parlamento dal Comitato promotore il 13 settembre 2013.
Come esposto dal capo dello Stato, il Parlamento non dovrebbe ignorare il problema delle scelte di fine vita e si auspica anzi l'intervento delle Camere affinché si sviluppi un sereno e approfondito confronto di idee sulle condizioni estreme di migliaia di malati terminali in Italia.
Eloquenti, prosegue il capo dello Stato, sono d’altronde i dati resi noti da diversi istituti che seguono il fenomeno della condizione estrema di migliaia di malati in Italia.
Il testo di iniziativa popolare, a cui si ricollega l'esortazione del presidente della repubblica, è quello proposto dall'associazione Luca Coscioni intitolato: “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”.
La relazione che apre il documento prende in considerazione la necessità di un intervento in tema di autodeterminazione nelle scelte di fine vita puntando l'attenzione da un lato sull'interesse mediatico che coinvolge l'opinione pubblica sul tema, dall'altro facendo leva sulla drammatica situazione di cui sono protagonisti i migliaia di pazienti costretti a vivere in situazioni estreme.
In particolare si ritiene che il diritto costituzionale a non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la propria volontà venga costantemente violato, dal momento che manca una concreta regolamentazione e in considerazione dei diversi ostacoli, da superare da parte del malato terminale, che comporta tale mancanza prima di ottenere che venga rispettato il diritto inviolabile di rifiutare le cure, anche di sostegno vitale.
Ancor più grave inoltre, secondo sempre la relazione introduttiva, è l'impossibilità per il malato terminale di chiedere di porre fine alle sue sofferenze chiedendo di morire.
Il testo propone dunque a tal proposito poche regole e chiare, che stabiliscano con precisione come ciascuno possa esigere legalmente il rispetto delle proprie decisioni in materia di trattamenti sanitari, ivi incluso il ricorso all'eutanasia, alle dichiarazioni anticipate di trattamento e alle volontà pregresse.
A prescindere dall'orientamento sulla tematica che verrà seguito da parte dell'ordinamento italiano, siffatta istanza, dal punto di vista Costituzionale, non incontrerebbe alcuna opposizione in quanto l'illegittimità delle pratiche eutanasiche attive non trova una così netta esplicitazione, anzi sembrerebbe che la Costituzione, fondata sul principio personalista, consenta, in linea di massima, il rispetto di una siffatta scelta in quanto tendente alla valorizzazione della volontà dell’individuo.
Le riserve infatti che si pongono all'eutanasia attiva non sono altro che frutto di un'interpretazione limitante nei confronti delle istanze di fine vita che non trova un'univoco riferimento nella Costituzione.
Sta di fatto che, qualunque sia la scelta dell'ordinamento italiano in merito alla possibilità di legalizzare o meno le pratiche eutanasiche, la regolamentazione del diritto di rifiutare le cure risulta necessaria e doverosa sia dal punto di vista Costituzionale sia, in particolar modo, dal punto di vista umano.
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