ETD

Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-04082010-122026


Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
BIGINI, MATTEO
URN
etd-04082010-122026
Titolo
MERGER LEVERAGED BUY OUT LA FUSIONE PER ACQUISIZIONE CON INDEBITAMENTO EX ARTICOLO 2501 BIS DEL CODICE CIVILE
Dipartimento
ECONOMIA
Corso di studi
CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE
Relatori
relatore Prof. Poddighe, Francesco
Parole chiave
  • Articolo 2501 bis del codice civile
  • fusione
  • acquisizione con indebitamento
  • Merger leveraged buy out
Data inizio appello
26/04/2010
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
26/04/2050
Riassunto
L’operazione finanziaria di leveraged buy out, sviluppatasi nei paesi anglosassoni e in particolare negli Stati Uniti dalla fine degli anni settanta per poi diffondersi rapidamente anche nell’ Europa continentale, si inserisce nell’ampio fenomeno della “ristrutturazione industriale e finanziaria” ed in particolare nell’ambito delle operazioni societarie che si qualificano come Merger and Acquisitions. Tale attività consiste, sinteticamente, nell’acquisire una società o parte dei suoi beni, utilizzando prevalentemente capitale di prestito che verrà successivamente garantito mediante le azioni o i beni della società acquisita e poi rimborsato attraverso il flusso di cassa proveniente da tale società.
In Italia, l’assenza di una disciplina ad hoc ha portato la dottrina a dividersi sull’ammissibilità o meno nel nostro ordinamento di tale strumento, manifestandosi sostanzialmente due diversi orientamenti: uno minoritario, anche se autorevole, che ne negava la legittimità; l’altro invece ha assunto una posizione favorevole al leveraged buy out.
Con la Riforma del diritto societario del 2003, il legislatore, all’articolo 2501 bis c.c., ha, per la prima volta, dato pieno riconoscimento nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano al merger leveraged buy out. La ratio del favor legislativo con cui viene ora visto tale istituto è ravvisabile nella considerazione che attraverso detta operazione, realizzabile nel rispetto di determinate condizioni, è possibile accrescere la contendibilità del controllo e l’avvicendamento del management della società: obiettivi certamente meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, soprattutto nella prospettiva di incentivare lo sviluppo delle piccole e medie imprese.
Nonostante l’auspicato intervento normativo, la scarna disciplina legislativa da un lato, e l’assenza di pronunce giurisprudenziali chiarificatrici dall’altro, hanno mantenuto acceso il dibattito in dottrina circa la concreta utilizzabilità dell’istituto e la portata del sopra citato intervento normativo.
Con il termine leveraged buy out si definiscono operazioni mediante le quali una società – solitamente costituita ad hoc (“newco”), ma può anche trattarsi di una società già esistente ed operativa – acquista (l’acquisizione viene, a volte, definita nel linguaggio anglosassone “buy out”) una partecipazione totalitaria o di controllo di un’altra società (società bersaglio o “target”); tale acquisto viene finanziato in (minima) parte con capitale proprio di newco ed in (massima) parte ricorrendo a finanziamenti erogati da terzi (c.d. “effetto leva” o “leverage”). Con il termine “leva finanziaria”, quindi, si intende il rapporto tra l’indebitamento e i mezzi propri di una società.
Il leveraged buy out viene normalmente realizzato attraverso un procedimento di fusione per incorporazione della società bersaglio nella società acquirente (“merger leveraged buy out”). Con la fusione il debito per il finanziamento concesso alla società acquirente viene a gravare sul patrimonio della società acquisita realizzandosi una traslazione del costo dell’acquisizione sul patrimonio appartenuto a quest’ultima prima della fusione; insomma, con l’operazione di leveraged buy out la società target finisce con il rimborsare il debito contratto per l’acquisto delle sue azioni/quote usando il proprio “cash flow”, fungendo, quindi, le attività o azioni della stessa società obiettivo da garanzia collaterale.
Più in generale, il risultato che consegue all’utilizzazione di questa operazione societaria – finanziaria, è una vera e propria ristrutturazione aziendale, che mira al conseguimento di maggiori livelli di competitività e di rendimento economico, nonché allo snellimento di strutture patrimoniali inefficienti.; in particolare la tecnica del leveraged buy out, è un’operazione finanziaria a medio/lungo termine che permette la prosecuzione, da parte di nuovi imprenditori o da parte della dirigenza stessa della società obiettivo, dell’attività di aziende che si trovano in particolari situazioni, come, ad esempio, gruppi che decidono di cedere settori non facenti più parte del loro core business o società caratterizzate da processi di privatizzazione e di ristrutturazione.
La forma di leveraged buy out maggiormente ricorrente nella prassi è rappresentata dal merger leveraged buy out; dal punto di vista giuridico, la fattispecie del merger leveraged buy out, si sostanzia in un’operazione complessa, che coinvolge una molteplicità di soggetti e caratterizzata da una pluralità di fasi. Gli acquirenti, assunta la decisione di procedere all’acquisto di una società bersaglio, creano una nuova società chiamata newco, detta anche società veicolo; dopo la sua costituzione, la newco procederà allo svolgimento della cosiddetta “due diligence”, intendendosi la prolungata ed approfondita indagine che ha ad oggetto lo stato degli affari della target, tanto sotto il profilo contabile, quanto sotto il profilo legale, fiscale ed economico; la newco poi, ottiene finanziamenti, in gran parte a titolo di debito, per poter effettuare l’acquisizione di una società o ramo di essa; la società veicolo procede all’acquisizione della target, procedendosi infine, alla fusione per incorporazione tra le due società e i debiti contratti dalla newco graveranno, allora, sulla società originata dalla fusione.
Generalmente, la società veicolo detiene un capitale modesto e in ogni caso di molto inferiore al prezzo della società da acquisire, si presenta infatti, il più delle volte come una società strumentale, difficilmente già operativa, priva di assets propri e destinata a durare in vita il tempo stimato per completare l’operazione complessa.
Nella prassi, anche se meno diffuse, è possibile incontrare ulteriori tecniche di leveraged buy out. In base ad una classificazione dal punto di vista oggettivo, è possibile distinguere due schemi, da un lato l’assets based transaction, basate cioè sulla compravendita delle attività che, a seconda dei casi, possono essere totalmente libere da debiti o con uno o più debiti gravanti sulle attività trasferite; dall’altro lato stock based transaction, ossia la transazione si basa sul trasferimento delle azioni/quote della società bersaglio.
La dottrina ante riforma si è a lungo interrogata circa la legittimità delle operazioni di leveraged buy out. La concreta fattispecie complessa che si veniva a creare, utilizzando tale operazione economica, aveva portato parte della dottrina a sostenere la sua illegittimità, in quanto riteneva che tale fattispecie integrasse, direttamente o indirettamente, la cd. financial assistance, vietata dall’articolo 2358 c.c. per le S.p.a. e dall’articolo 2483 c.c. per le S.r.l.. Altra parte della dottrina, invece, fin da subito ha ritenuto pienamente lecita e legittima tale operazione.
La tesi “sostanzialistica” guardava alla “sostanza” delle operazioni di leveraged buy out complessivamente considerate e riteneva alcune tipologie contrarie a norme imperative o, comunque, poste in essere in frode alla legge; la tesi “formalistica”, al contrario, affermava la liceità formale dei singoli segmenti che componevano la complessa operazione di leveraged buy out, giungendo a sostenere che, non solo le singole fasi, ma anche l’intera operazione complessivamente considerata, non impingesse, neppure indirettamente, nel divieto risultante dal combinato disposto degli articoli 2358 e 1344 c.c..
Secondo la dottrina minoritaria l’assunzione del debito di acquisizione da parte della target, per effetto della fusione per incorporazione da parte della newco, equivalente alla concessione di un prestito da parte della stessa target per l’acquisto delle sue azioni. Si sosteneva, infatti, che l’articolo 2358 c.c., norma ritenuta espressione di un principio di ordine pubblico, non fosse violata direttamente, bensì indirettamente ex articolo 1344 c.c., il quale permette di tacciare di nullità non solo l’operazione posta in essere in diretto contrasto con la norma imperativa, ma anche la più complessa fattispecie, composta da più segmenti leciti, i quali – collegati – siano posti in essere al fine di aggirare la medesima norma imperativa. Tale impostazione riteneva, quindi, sussistente un collegamento negoziale tra i diversi negozi posti in essere dalle parti, in particolare riteneva che il merger leveraged buy out fosse caratterizzato “dal concatenamento funzionale di una pluralità di fasi negoziali teleologicamente preordinate ad unico e precisamente individuato risultato finale”, consistente nell’accollo del debito per l’acquisizione della target in capo a quest’ultima.
Ecco che, la complessa operazione di merger leveraged buy out, seppur leciti i singoli atti giuridici che componevano la fattispecie, risultava illecita in quanto volta esclusivamente ad aggirare il divieto di cui all’articolo 2358 c.c..
Particolare rilevanza, per i sostenitori della tesi sostanzialistica, assume l’ultimo segmento della fattispecie complessa, e cioè la fusione. La dottrina preferibile qualificava la fusione come fattispecie neutra e quindi totalmente irrilevanti i motivi posti a fondamento della stessa. Al contrario, altra parte della dottrina riteneva che la fusione assolvesse ad una funzione tipica, quella cioè di concentrazione tra imprese, in conseguenza di ciò, se la fusione fosse stata utilizzata come segmento finale della complessa operazione di merger leveraged buy out, avrebbe richiesto la presenza di un business purpose ovvero della presenza di un concreto interesse imprenditoriale, mancando il quale, poteva trattarsi di una fusione posta in essere all’unico scopo di aggirare il divieto di assistenza finanziaria mediante un negozio in frode alla legge ex articolo 1344 c.c..
In netta contrapposizione con la tesi “sostanzialistica” si poneva altra parte della dottrina che, fin da subito, ha assunto una posizione favorevole al leveraged buy out negando in radice che, in un’operazione di merger leveraged buy out, potesse ravvisarsi una violazione del divieto di assistenza finanziaria.
Secondo tale orientamento, infatti, l’operazione di merger leveraged buy out non integrava, neppure indirettamente, il divieto di assistenza finanziaria previsto dall’articolo 2358 c.c.; la complessa operazione non comporta né acquisto di azioni proprie da parte della target, né quest’ultima accorda alcun prestito o fornisce alcuna garanzia per favorire l’acquisto di azioni proprie.
Nella fase in cui la società acquirente si indebita per acquisire le azioni/quote della target, quest’ultima è totalmente estranea all’operazione di finanziamento, né il nostro ordinamento vieta il ricorso all’indebitamento al fine di finanziare l’acquisto di azioni; le garanzie, infatti, sono offerte ai finanziatori dalla newco, ed anche qualora il finanziatore si induca ad erogare il finanziamento nella previsione che, in un secondo momento, dopo la fusione, detto finanziamento verrà garantito dai beni della società target, egli corre in prima persona il rischio che l’operazione non si perfezioni. Non poteva pertanto parlarsi di garanzia specifica sui beni aziendali di target, si trattava, piuttosto, dell’aspettativa di una garanzia genericamente costituita dal patrimonio della target medesima.
La medesima dottrina rilevava che neppure nella seconda fase del leveraged buy out, quindi nel momento dell’acquisizione, la target non delibera alcunché a favore dei finanziatori, infatti, l’assunzione del debito della newco da parte della società risultante dalla fusione è soltanto uno degli effetti riconnessi all’operazione di fusione, operazione che non fa sorgere alcuna specifica garanzia a favore dei finanziatori. L’operazione di merger leveraged buy out, inoltre, non si pone in contrasto con l’articolo 2358 c.c. poiché la fusione opera unicamente sul piano patrimoniale, mancando il pregiudizio del capitale sociale. Con la fusione per incorporazione, inoltre, non si può mai parlare di annacquamento del capitale sociale, dato che le azioni, di target di cui si compone vengono annullate, facendo venire meno la possibilità di una rappresentazione contabile diversa da quella reale; dopo la fusione la società target non esiste più e dunque le eventuali garanzie successivamente costituite da newco a garanzia del finanziamento non possono, per definizione, integrare atti di assistenza finanziaria, non esistendo più target stessa.
La sola attività compiuta dalla target nell’ambito del complesso ed intero procedimento è la fusione per incorporazione della newco ma, secondo la dottrina “formalistica”, i motivi della fusione restano irrilevanti e insindacabili essendo la fusione un negozio neutro in quanto tipizzato dal legislatore e quindi in sé lecito a prescindere dalle motivazioni che lo sorreggono. L’imputazione del debito della società incorporante nel patrimonio della società incorporata, che viene a scomparire come elemento autonomo, è una mera conseguenza naturale ed imprescindibile della fusione.
In attuazione della direttiva 2006/68/CE, il legislatore italiano ha emanato il D.Lgs. n. 142 del 4 agosto 2008, che ha introdotto rilevanti modifiche al capo V del titolo V del libro V del codice civile, in particolare gli articoli 2357 e 2358c.c. concernenti le azioni proprie.
L’attuale formulazione dell’articolo 2358 c.c consente alle società di concedere anticipazioni sulle proprie azioni e prestiti o garanzie per il loro acquisto in presenza di determinate condizioni, ed in particolare alla preventiva approvazione dell’assemblea straordinaria dei soci.
Il legislatore ha così voluto sottrarre la fattispecie alla discrezionalità degli organi gestori della società, consentendola solo ove considerata utile per l’interesse sociale, nel rispetto degli interessi degli azionisti e dei terzi.
Inoltre, con la nuova formulazione dell’articolo ed in adeguamento alla direttiva 2006/68/CE, ha inteso promuovere l’efficienza e la competitività delle società, senza tuttavia ridurre le necessarie tutele per i soci ed i creditori sociali. Oggi, quindi, il compimento da parte della società di operazioni di assistenza finanziaria è lecito, ma al fine di evitare operazioni di annacquamento del capitale è consentito subordinatamente al verificarsi di determinate condizioni ed adempimenti.
Alla luce di tale modificazione, ci si è chiesti in dottrina se un possibile ambito di applicazione delle stesse sarebbe ravvisabile nell’ambito di operazioni di leveraged buy out in generale o di merger leveraged buy out in particolare, infatti, oggi, le banche che finanziano la società acquirente potrebbero richiedere in garanzia i beni della stessa società target.
Si ritiene tuttavia che, anche se astrattamente possibile, le limitazioni patrimoniali, economiche, procedurali e le condizioni imposte dal nuovo articolo 2358 c.c., potrebbero non essere compatibili con la realizzazione di questo tipo di operazioni. Ammesso che siano soddisfatti i requisiti patrimoniale di cui all’articolo 2358 c.c., infatti, risulta difficile comprendere come gli amministratori, i quali dovranno illustrare in apposita relazione, le ragioni e gli obiettivi imprenditoriali dell’operazione, possano individuare un interesse specifico della società target a garantire con i propri beni tale indebitamento. E la situazione risulterebbe maggiormente complicata nel cd. management buy out, dove l’acquisto è posto in essere dagli stessi amministratori della stessa società target; non si vede, infatti, come gli amministratori possano attestare quanto sopra, stante l’evidente conflitto d’interessi in cui versano
Risulta, quindi, chiaro che, con la modifica dell’articolo 2358 c.c., non si è aggiunto alcunché alla disciplina del merger leveraged buy out; il legislatore tuttavia, facendo salva l’applicabilità dell’articolo 2501 bis c.c., sembra aver chiarito la relazione tra le due norme, affermando che possono anche coesistere e disciplinare aspetti diversi della medesima fattispecie.
Negli anni precedenti alla riforma, la giurisprudenza ha affrontato di rado il problema della liceità del leveraged buy out, sia perché tale tecnica di acquisizione societaria ha avuto prevalentemente ad oggetto società con una ristretta base azionaria, dove era agevole conseguire il consenso di tutti i soci, sia per un ostacolo di natura giuridica, quale la disciplina dell’invalidità dell’atto di fusione, che rappresentava un indubbio ostacolo a pronunce dirette sulla legittimità o meno dell’operazione in esame. Inoltre, nessun precedente giurisprudenziale si è occupato con cognizione di causa della materia, anche se la dottrina aveva contribuito ad alimentare la disputa giurisprudenziale cercando di leggere, tanto le massime, quanto il silenzio dei giudici, a sostegno dell’una o dell’altra tesi.
Il quadro giurisprudenziale appare confuso, talvolta la giurisprudenza ha sostenuto l’illiceità del leveraged buy out contestualizzato in fattispecie che erano in chiara violazione diretta o indiretta dell’articolo 2358 c.c., ma che nulla avevano a che vedere con l’ipotesi tipica del merger leveraged buy out, contribuendo ad alimentare il clima di incertezza che si era venuto a creare tra gli operatori.
Dall’analisi della casistica giurisprudenziale, emerge come il termine di leveraged buy out sia stato utilizzato in modo estremamente generico, senza rilevare che sotto tale nomenclatura ricadono diversi modelli operativi con peculiarità proprie. Tuttavia, tale analisi appare proficua sotto un duplice aspetto: da un lato, pur tenendo ferma la precedente premessa, è possibile verificare quali modelli siano stati considerati illeciti dalla giurisprudenza, dall’altro, si rileva come fino ad oggi non vi sia stata nessuna pronuncia giurisprudenziale che abbia dichiarato l’illiceità, per violazione diretta o indiretta di norme imperative, del modello più importante e diffuso di leveraged buy out, cioè quello che si completa con la successiva fusione delle società coinvolte.
Dall’analisi del quadro giurisprudenziale emerge una posizione oscillante della giurisprudenza in merito alla liceità o meno del leveraged buy out in generale e del merger leveraged buy out in particolare, dal quale è possibile ricavare che non vi è stata alcuna pronuncia che abbia dichiarato in astratto l’illegittimità di un’operazione di leveraged buy out realizzata mediante fusione; anzi, in più di un caso ne è stata affermata la liceità, pur con la precisazione che per essere tale doveva fondarsi, in concreto, su di una valida ragione imprenditoriale.
Il legislatore, a fronte del quadro giurisprudenziale oscillante e dottrinario incerto, ha deciso, con la riforma del diritto societario, di prendere una posizione netta a favore della liceità dell’operazione di leveraged buy out, ribattezzata dalla nuova disciplina codicistica come “fusione a seguito di acquisizione con indebitamento”.
Il nuovo articolo 2501 bis c.c. trova fondamento nella relativa disposizione delle legge n. 366 del 1 ottobre 2001 (“Delega al governo per la riforma del diritto societario”), la quale ha previsto che le fusioni tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, non comportano violazione del divieto di acquisto e di sottoscrizione di azioni proprie, di cui, rispettivamente, agli articoli 2357 e 2357 quater del codice civile, e del divieto di accordare prestiti e fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie, di cui all’articolo 2358 c.c.. La novella deve, quindi, qualificarsi come vera e propria norma di interpretazione autentica, volta ad escludere arbitrarie estensioni del divieto contenuto nell’articolo 2358 c.c.; a tal fine, occorre rilevare che il legislatore non ha modificato il disposto di cui all’articolo citato, riconoscendo implicitamente che un’operazione di merger leveraged buy out non comporta violazione diretta del divieto di assistenza finanziaria.
Obiettivo del legislatore, quindi, non era tanto quello di conferire legittimità ad operazioni di leveraged buy out che avrebbero potuto violare direttamente l’articolo 2358 c.c. bensì quella di conferire maggiore certezza circa il trattamento giuridico delle operazioni di merger leveraged buy out, eliminando alla radice i dubbi sollevati in dottrina ed in giurisprudenza circa la loro liceità; infatti, l’incertezza circa la legittimità dell’istituto ne aveva ostacolato il pieno sviluppo nel panorama del controllo societario. Il nuovo articolo 2501 bis c.c. non sembra dunque, a prima vista, aver pienamente assecondato gli obiettivi della delega almeno sotto un duplice profilo: in difetto, in quanto nulla dispone in ordine alla liceità dell’operazione considerata rispetto all’articolo 2358 c.c., come invece era richiesto dal legislatore delegante; in eccesso, perché introduce una specifica disciplina della fattispecie della “fusione con acquisizione a seguito di indebitamento” senza che ciò fosse previsto dalla legge delega.
Il legislatore delegante, qualificando come sempre lecita l’operazione di merger leveraged buy out, ha implicitamente assegnato al legislatore delegato il compito di disciplinare tale operazione, per evitarne un utilizzo distorto e indiscriminato da parte degli operatori. Ha rappresentato l’occasione per il legislatore delegato di introdurre un complesso di regole volte a disciplinare la “fusione a seguito di acquisizione con indebitamento”; e proprio la messa a punto di strumenti idonei a tutelare i soci e i creditori della società target da un eccessivo indebitamento che potrebbe sconvolgere l’equilibrio economico-finanziario della target, appare un elemento essenziale per il successo della nuova fattispecie.
Una parte della dottrina ha sostenuto, invece, che proprio la mancanza della deroga esplicita, prevista invece nella Legge Delega, sia indice della volontà del legislatore delegato di indicare nell’articolo 2501 bis c.c. le condizioni cui le fusioni devono sottostare per non integrare violazione dell’articolo 2358 c.c.: i requisiti di cui all’articolo 2501 bis c.c. non avrebbero solamente natura formale, ma anche sostanziale. Il legislatore si sarebbe dunque orientato verso una legittimazione controllata del merger leveraged buy out, egli non avrebbe cioè derogato all’articolo 2358 c.c., ma avrebbe aderito alla tesi, sostenuta ante riforma, secondo la quale le operazioni di merger leveraged buy out, fondate su di un uso ragionevole della leva finanziaria, non si porrebbero in contrasto con il divieto di assistenza finanziaria, mentre continuerebbero a rimanere illegittime per violazione dell’articolo 2358 c.c. le operazioni fondate su previsioni irragionevoli circa l’uso della leva finanziaria. In realtà, il legislatore delegato, ritenendo lecita a monte l’operazione in oggetto, ha proceduto, a valle, ad introdurre una procedimentalizzazione dell’intera operazione, prevedendo obblighi informativi e alcune cautele volte a proteggere l’equilibrio economico e finanziario della società risultante dalla fusione. Ecco che, l’eventuale disapplicazione della normativa di cui all’articolo 2501 bis c.c. non si traduce in una nullità per violazione dell’articolo 2358 c.c., bensì in un’invalidità per un vizio di procedimento.
La ratio della disciplina contenuta nell’articolo 2501 bis c.c. caratterizzata dalla presenza di certe condizioni cui la fusione deve sottostare, è da ricercare nell’essenza stessa dell’operazione posta in essere, operazione non già illecita bensì anomala, cioè pericolosa dal punto di vista finanziario. Nel merger leveraged buy out, infatti, il debito contratto dalla società acquirente si insinua nell’equilibrio finanziario della società acquisita, con il rischio di scardinarlo (atteso che il debito risponde all’esigenza dell’acquirente di pagare il prezzo delle azioni di target e non già ad esigenze imprenditoriali di quest’ultima), ciò, lungi dal rappresentare un’illecita assistenza finanziaria costituisce una rischiosa operazione finanziaria.
La procedimentalizzazione dell’operazione è finalizzata, sotto il profilo formale, a dare piena informazione ai soci ed ai creditori circa le conseguenze derivanti dalla traslazione di un debito altrui sul patrimonio della target, in modo da ripristinare così la simmetria informativa tra tali soggetti e le banche finanziatrici le operazioni mentre, sotto il profilo sostanziale, è finalizzata a responsabilizzare gli amministratori delle società coinvolte nella fusione, i quali dovranno procedere ad una attenta analisi della sostenibilità del debito contratto.
Relativamente alla necessità di un mutuo di scopo per integrarsi la fattispecie la posizione prevalente ritiene non necessaria una finalizzazione del debito all’acquisizione della società obiettivo, rileva solo che il debitore procede all’acquisto utilizzando somme che ha l’obbligo di restituire, pertanto, il nesso funzionale tra debito e acquisizione sussiste di fatto e in re ipsa ogni volta che l‘acquirente proceda al pagamento del corrispettivo utilizzando somme cd. “a debito”. Diversamente opinando, infatti, sarebbe troppo facile aggirare la normativa in esame, semplicemente non dichiarando le ragioni poste alla base della contrazione del debito.
Per quanto riguarda invece il collegamento temporale tra l’assunzione del debito e l’acquisto, nonostante il dettato formale sembri presupporre un breve lasso di tempo, si ritiene tuttavia preferibile applicare la disciplina in oggetto tutte le volte in cui, al momento della fusione, sussista un indebitamento contratto per procedere all’acquisto del controllo di target, indipendentemente dal tempo intercorso tra il momento in cui è sorto il debito e l’acquisto della partecipazione; sul lasso di tempo che deve intercorre tra l’avvenuta acquisizione e la fusione tra la società acquirente e la società target, la norma nulla dispone. In dottrina ha prevalso la tesi che l’eventuale contiguità temporale sia un elemento sempre irrilevante, infatti, si ritiene che elemento caratterizzante della fattispecie, che giustifica le particolari tutele previste dalla norma in esame, sia la presenza, al momento della fusione, di un debito anomalo che verrà traslato sul patrimonio della società target, non rilevando a tal fine il lasso temporale intercorrente tra il momento dell’acquisizione e la fusione, ma rilevando invece la condizione che il debito, al momento della fusione, non sia stato interamente rimborsato. Per ciò che invece concerne la misura dell’indebitamento, nel silenzio della norma, sembrerebbe che essa sia applicabile ogni qualvolta si sia in presenza di un debito contratto per l’acquisto del controllo della società bersaglio, indipendentemente dalla sua misura, anche se ad una diversa conclusione si può giungere, sotto il profilo interpretativo, considerando un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie, il fatto che il patrimonio della società acquisita venga a costituire garanzia generica o fonte di rimborso di debiti.
L’assunzione del debito, come sopra esposto, deve essere finalizzata all’acquisizione del controllo di altra società ed implica, affinché possa dirsi integrata la fattispecie, che detta acquisizione abbia luogo. Risulta quindi necessario valutare se il controllo richiesto dall’articolo 2501 bis c.c. possa dirsi integrato in presenza di tutte le fattispecie previste dall’articolo 2359 c.c..
Senza dubbio la normativa si applica nell’ipotesi di controllo di diritto quando cioè vi è il controllo della maggioranza dei voti espressi in assemblea.
Maggiori problematiche suscitano le altre forme di controllo previste dalla legge. Invero, il “controllo di fatto” che si integra quando una società disponga di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria dell’altra, potrebbe non essere con certezza individuato preventivamente, quando si procede all’acquisto, ma soltanto in un momento successivo, dopo aver verificato la compagine azionaria in sede assembleare e la suddivisione tra i soci delle quote di capitale, nel corso di un determinato periodo di tempo. E’ vero che appare piuttosto arduo affermare ex ante che una partecipazione di minoranza conferisca controllo; tuttavia, d’altra parte si è affermato che chi si propone di dare corso all’operazione di leveraged buy out al fine di acquisire il controllo di fatto della target, è per ciò solo tenuto ad uniformarsi alle disposizioni di cui all’articolo 2501 bis c.c., anche se l’acquisizione di tale controllo non possa dirsi certa fino allo svolgimento delle assemblee della società target e/o della società risultante dalla fusione. Insomma, qualora sulla base della situazione concreta degli assetti proprietari, sia possibile ritenere ex ante che sussista un controllo di fatto, la disciplina dovrà trovare applicazione.
Diversamente opinando si andrebbe ad escludere dall’applicazione dell’articolo 2501 bis c.c. molte operazioni di leveraged buy out aventi ad oggetto società quotate in mercati regolamentati, nelle quali la polverizzazione del possesso azionario ha consentito che il controllo dell’assemblea fosse nelle mani di soggetti detentori di quote di capitale assai contenute; in definitiva si impedirebbe ad una norma di garanzia di operare e tutelare proprio laddove l’operazione coinvolga gli interessi di una moltitudine di risparmiatori e del mercato in generale.
Ulteriore condizione richiesta per la ricorrenza dell’istituto della fusione a seguito di acquisizione con indebitamento è che, per effetto della fusione, il patrimonio della controllata venga a costituire garanzia generica o fonte di rimborso dei debiti contratti dalla controllante per l’acquisizione del controllo. In dottrina è stata sostenuta l’interpretazione meramente letterale della norma in oggetto, rilevando il fatto che il patrimonio della società target venga a costituire garanzia generica o fonte di rimborso del debito contratto per la sua acquisizione abbia valenza meramente descrittiva, in quanto conseguenza naturale della fusione. Tuttavia, se ci si limitasse a questa lettura superficiale, la norma sarebbe priva di contenuto sostanziale, poiché appare evidente che l’attuazione di una fusione comporta come effetto naturale ed ineliminabile che il patrimonio delle società fuse venga a costituire generica garanzia per le obbligazioni dell’altra, trattandosi della naturale conseguenza della confusione di due masse patrimoniali; occorre cioè che il patrimonio originario della società controllante non possa da solo fornire una sufficiente garanzia patrimoniale per il rimborso del debito contratto per l’acquisizione.
La procedimentalizzazione introdotta dal legislatore della riforma trova applicazione qualunque sia il tipo di fusione adottata in concreto per concludere l’operazione. Le relative disposizioni varranno pertanto sia in caso di fusione propria che di fusione per incorporazione e quest’ultima sia diretta che inversa
Deve inoltre ritenersi che il corredo informativo richiesto per tale tipo di operazione sia integrativo rispetto a quello applicabile a tutte le fusioni; quindi, le informazioni che, ai sensi della disposizione in esame, devono essere incluse nel progetto di fusione, nella relazione dell’organo amministrativo e nella relazione degli esperti, si aggiungono, integrandole, alle informazioni che devono essere normalmente contenute in tali documenti nell’ambito di una qualsiasi fusione.
L’articolo 2501 bis c.c. obbliga ora gli amministratori di entrambe le società partecipanti alla fusione a pubblicare, nel progetto di fusione e nella relazione, i passaggi più significativi sul piano economico e finanziario dell’analisi di sostenibilità su cui si basa l’operazione. La disciplina speciale dell’informativa societaria di fusione, introdotta dal nuovo articolo 2501 bis c.c., si propone di colmare, o quantomeno ridurre, l’asimmetria informativa che, prima della riforma, separava i finanziatori e promotori dell’operazione di merger leveraged buy out dai soci di minoranza e dai creditori sociali della società bersaglio.
Relativamente al livello di analiticità con cui gli amministratori devono indicare le risorse finanziarie e le loro fonti nel piano economico e finanziario, si ritiene che debba comunque essere raggiunto un grado di precisione tale da permettere agli esperti di formulare il giudizio di ragionevolezza cui sono chiamati
All’interno della tipica relazione che gli amministratori devono redigere ai sensi dell’articolo 2501 quinquies c.c. al fine di illustrare e giustificare il contenuto del progetto di fusione, devono essere illustrate “le ragioni che giustificano l'operazione e contenere un piano economico e finanziario con indicazione della fonte delle risorse finanziarie e la descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere”.
Tale requisito non coincide con la manifestazioni di valide ragioni industriali come da certa dottrina prospettato, infatti non sembra che queste possano avere alcun rilievo in relazione alle esigenze di tutela dei soci di minoranza e dei creditori della società target; non si è mai dimostrato per quali ragioni la sussistenza di una motivazione industriale e non solo finanziaria della fusione costituisse una maggiore garanzia per detti soggetti.
E’ stato infatti, sottolineato, correttamente, che l’articolo 2501 bis 3° co. non fa alcun riferimento alla natura delle “ragioni dell’operazione” che devono essere indicate nella relazione degli amministratori; non è dunque possibile ritenere che le uniche ragioni che possono essere indicate nella relazione, pena l’illegittimità dell’operazione, debbano essere industriali; ammettere tale tesi equivarrebbe a smentire la chiara portata interpretativa dell’intervento del legislatore delegante il quale ha ben chiarito che non è possibile distinguere tra merger leveraged buy out legittimi ed illegittimi a seconda delle ragioni industriali che stanno alla base dell’operazione. Nel momento in cui il legislatore ha disciplinato, come fattispecie tipica di fusione, il merger leveraged buy out, egli ha riconosciuto la piena legittimità di operazioni di fusione che, non avendo altra finalità o motivazione che quella di traslare sul patrimonio della società target il debito contratto per acquisirne il controllo, non hanno, per definizione, una propria ed autonoma motivazione industriale, essendo necessariamente dirette a realizzare obiettivi di natura finanziaria
La previsione delle “ragioni” non comporta da parte del legislatore un giudizio di liceità o illiceità sulle finalità dell’operazione di fusione, implica piuttosto, un dovere informativo suppletivo da parte degli amministratori al fine di permettere ai soci di elaborare una consapevole decisione prima di procedere alla deliberazione.
La relazione degli amministratori deve inoltre contenere “un piano economico e finanziario” che la dottrina unanimemente ritiene trattarsi di un vero e proprio business plan corredato dall’analisi di sostenibilità che il promotore ha predisposto e condiviso con i finanziatori in vista dell’operazione.
Il piano economico e finanziario presuppone, quindi, la redazione di un piano strategico – industriale teso a dimostrare che l’operazione sia giustificata; in altre parole, che la società risultante dalla fusione avrà stabilità e redditività nonostante l’indebitamento e sarà in grado di ripagare il debito Obiettivo della relazione degli amministratori è, infatti, quello di consentire ai soci e ai creditori della società target di capire in che modo si è arrivati ai numeri indicati nel progetto di fusione, di comprendere l’iter logico seguito, dai promotori e dai finanziatori prima, e dagli amministratori della società target poi, nelle loro determinazioni e di saggiare infine autonomamente la ragionevolezza delle previsioni e dell’analisi di sostenibilità su cui si fonda l’operazione.
La relazione degli amministratori dovrà inoltre contenere una vera e propria analisi di sostenibilità dell’operazione fondata su dati “storici, correnti e previsionali” contenuti nel business plan. L’esame dei dati “storici” misura la prudenza dell’analisi della sostenibilità dell’operazione, e quindi la sua ragionevolezza; i dati “correnti” invece dovranno evidenziare se nei mesi precedenti la fusione l’attività caratteristica di target abbia generato, e continui a generare, le liquidità necessarie al rimborso del debito; i dati “previsionali”, infine, esprimeranno invece la capacità di target di produrre liquidità per gli anni a venire, fino al rimborso del debito.
Nella fusione a seguito di acquisizione con indebitamento, il legislatore ha ampliato le competenze dell’esperto il quale, ad integrazione della relazione di cui all’articolo 2501 sexies c.c. circa la congruità del rapporto di cambio, ha il compito di attestare la ragionevolezza delle indicazioni relative alla sostenibilità dell’operazione contenute nel progetto di fusione. Il legislatore ha, dunque, voluto duplicare, nell’interesse dei soci e dei creditori della società target, il giudizio circa la sostenibilità dell’operazione che il mercato ha già manifestato attraverso la decisione dei finanziatori di investire in un determinato progetto; l’operazione non è più solo condizionata dal giudizio positivo dei finanziatori circa la sua sostenibilità, ma anche da una ulteriore valutazione dell’esperto, espressa, in ultima analisi, anche nell’interesse dei soci e dei creditori della società target.
La valutazione degli esperti non si sovrappone dunque a quella dell’organo amministrativo, non dovranno essi entrare nel merito delle scelte effettuate dagli amministratori, né compiere una propria autonoma analisi di sostenibilità, dovranno solo limitarsi ad esaminare la ragionevolezza delle metodologie applicate dall’organo amministrativo, unico responsabile dell’individuazione delle risorse finanziarie necessarie per il rimborso del debito.

Il legislatore nulla dispone circa le conseguenze in caso di violazione del disposto del nuovo articolo 2501 bis c.c.. Occorre stabilire, quindi, cosa succeda e quali siano le soluzioni applicabili in caso di fusione a seguito di acquisizione con indebitamento approvata in violazione delle relative norme procedurali. Ante riforma, infatti – ma la soluzione può dirsi confermata anche oggi – la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie concordavano nell’affermare che la delibera di fusione adottata in carenza dei presupposti procedimentali minimi stabiliti dalla legge, sia annullabile ex articolo 2377 c.c. Innanzitutto non appare condivisibile la tesi sostenuta dalla dottrina minoritaria la quale ritiene che il rispetto delle disposizioni procedurali sia condizione necessaria per qualificare come legittima l’operazione di merger leveraged buy out infatti seguendo questa linea interpretativa, si finirebbe con il concludere che la fusione deliberata in violazione delle norme procedurali di cui all’articolo 2501 bis c.c. è nulla per violazione del divieto di assistenza finanziaria. Altra parte della dottrina ha individuato preferibilmente la ratio della nuova disposizione nella protezione del patrimonio della società target da una fusione lecita ma pericolosa; la disciplina del nuovo articolo 2501 bis c.c. sarebbe quindi imperativa, e dunque indisponibile da parte dei soci che, neppure all’unanimità, potrebbero disattenderla. La conseguenza di una eventuale delibera di fusione, adottata in violazione o in deroga al citato articolo, sarebbe quindi invalida, in quest’ottica non vi sarebbe ragione per discostarsi dalle soluzioni adottate da dottrina e giurisprudenza prima della riforma, con la conseguenza che la delibera sarebbe annullabile.
Relativamente all’attestazione degli esperti occorre stabilire se essa sia un requisito di validità per la fusione, o se possa essere considerata al pari della relazione sulla congruità del rapporto di cambio effettuata per tutte le fusioni, e cioè obbligatoria ma non vincolante e, secondo la dottrina maggioritaria, rinunciabile dai soci all’unanimità, in quanto si tratterebbe di una tutela posta esclusivamente a tutela dei loro interessi.
Si ritiene, invece, che l’attestazione degli esperti sulla ragionevolezza dell’analisi di sostenibilità dell’operazione di merger leveraged buy out sia obbligatoria, vincolante e non rinunciabile, essendo un rimedio preventivo alla fusione a tutela degli interessi non solo dei soci, ma anche dei creditori della società target. La dottrina, pur sostenendo senza eccezioni che i soci non possano rinunciare nemmeno all’unanimità a detto giudizio, è tuttavia divisa sull’ipotesi se i soci possano disattivare o meno questo strumento di tutela dei creditori sociali, deliberando la fusione in presenza di una attestazione negativa.
Vi è chi sostiene che, essendo un rimedio preventivo posto a tutela dei creditori ed essendo gli esperti chiamati ad “attestare” e non semplicemente a “valutare”, la fusione non può avere luogo in presenza di un’attestazione negativa. Altra dottrina afferma invece che, anche in presenza di un eventuale giudizio negativo, la tutela dei creditori non viene pregiudicata, in quanto essi sarebbero legittimati a far valere le loro ragioni in sede di opposizione alla fusione portando in giudizio il parere negativo degli esperti.
La prima categoria dei rimedi esperibili è quella dei rimedi caratterizzati dalla realità. L’impugnazione della delibera di fusione e l’opposizione dei creditori sono i due rimedi, gli unici di natura “reale”, aventi cioè la capacità di incidere sull’an della fusione, esperibili dai soci di minoranza e dai creditori sociali delle società partecipanti alla medesima. Tali rimedi, infatti, possono essere esperiti nelle more tra la deliberazione di fusione e l’ultima iscrizione dell’atto di fusione, e se portati a buon fine possono determinare la caducazione dell’intera operazione, mentre dopo tale termine troverà applicazione una tutela incentrata meramente sul risarcimento del danno.
La seconda categoria di rimedi posti a tutela degli interessi dei terzi soggetti coinvolti in un’operazione di merger leveraged buy out è rappresentata dai mezzi di tutela risarcitoria. Il processo di tendenziale sostituzione delle tradizionali sanzioni reali con i rimedi obbligatori, gradatamente affermatosi in ambito societario, ha portato all’attuale codificazione di un criterio di stabilità delle operazioni straordinarie viziate, incentrato, una volta completati i prescritti adempimenti pubblicitari, sulla previsione di una mera tutela risarcitoria.
Residui spazi dei rimedi reali non possono del resto essere recuperati neppure invocando l’inesistenza della fattispecie stessa per carenza di uno dei presupposti essenziali A norma dell’articolo 2504 quater, 2°co., una volta divenuto efficace l’atto di fusione iscritto nel registro delle imprese e verificatosi quindi l’effetto sanante che preclude ogni pronuncia di invalidità, resta infatti salvo solamente il diritto al risarcimento del danno per i soggetti danneggiati dalla fusione.
Circa la scelta operata dal legislatore di preferenza per la tutela risarcitoria rispetto a quella reale, la dottrina risulta divisa se tale opzione costituisca o meno un arretramento della tutela offerta. Vi è chi sostiene che lo strumento risarcitorio meglio si adatti a realizzare gli interessi dei soggetti lesi dall’atto invalido in maniera più efficace rispetto alla rimozione retroattiva della fattispecie viziata, e che la rimozione dell’atto invalido avrebbe effetti nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nell’operazione e non solo nei confronti di chi ne è stato danneggiato.
Sul piano dell’appetibilità dell’operazione, prima della riforma fiscale, la fusione deliberata nel corso di un’operazione di merger leveraged buy out offriva la possibilità di sfruttare alcune norme tributarie che disciplinavano tale operazione straordinaria al fine di conseguire importanti vantaggi fiscali. La società incorporante poteva ottenere, infatti, la deducibilità degli interessi passivi relativi al prestito contratto per l’acquisizione della target e di dedurre dalla base imponibile le quote di ammortamento calcolate sui maggiori valori iscritti in bilancio per effetto dell’imputazione del disavanzo di fusione. Con la riforma del 2003 il legislatore ha notevolmente modificato il regime fiscale applicabile a questa peculiare operazione straordinaria con la conseguenza che i vantaggi fiscali derivanti dall’esecuzione di un’operazione di merger leveraged buy out si sono notevolmente ridotti. Anche questa normativa, in tempi più recenti, ha subito ulteriori modificazioni legislative, quali l’allineamento del trattamento fiscale dei conferimenti d’azienda alle operazioni di fusione e scissione, entrambe assoggettate al principio di neutralità fiscale e sottoposte al medesimo regime di affrancamento dei maggiori valori iscritti; è stato mantenuto il regime di partecipation exemption e reintrodotta la possibilità di effettuare rivalutazioni sia a pagamento che gratuitamente dei maggiori valori emergenti a seguito di operazioni di aggregazione.
Pertanto, se con il regime fiscale introdotto con la riforma fiscale del 2003, il legislatore aveva voluto assicurare, con la soppressione di meccanismi che generavano asimmetrie fiscali, una maggior linearità al sistema comportando tuttavia un aggravio d’imposta delle operazioni straordinarie e in particolare del merger leveraged buy out, con le modifiche recentemente introdotte sembra ripensare l’impostazione centrale, ritenendo preferibile dare nuovo impulso alle operazioni straordinarie, offrendo un panorama di opportunità fiscali. In tal modo, il legislatore ha inteso favorire le aggregazioni aziendali, consentendo al soggetto beneficiario di ottenere il riconoscimento di maggiori valori fiscali con un prelievo ridotto a quello ordinario, offrendo quindi, una maggiore appetibilità alle operazioni di leveraged buy out.
La possibilità di fruire, ponendo in essere un’operazione di leveraged buy out, di vantaggi finanziari ed economici derivanti dallo sfruttamento della leva finanziaria, ha portato il legislatore ad indagare tale operazione straordinaria sotto la lente della normativa antielusiva.
Al di là della presa di posizione del legislatore in favore dell’ammissibilità e legittimità del merger leveraged buy out, l’intera operazione rimane soggetta alle disposizioni di cui all’articolo 37 bis con la conseguenza che dovrà essere posta in essere in presenza di valide ragioni economiche, che la giustifichino sotto il profilo fiscale. Può accadere, infatti, nella prassi che le aziende piuttosto che conseguire vantaggi di natura economica, pongano in essere operazioni straordinarie ed in particolare fusioni a seguito di acquisizione con indebitamento, con l’obiettivo di aggirare la normativa fiscale utilizzando meccanismi e sistemi volti ad ottenere un indebito abbattimento del reddito fiscale. Il comportamento elusivo si manifesta con il rispetto formale delle norme fiscali, tuttavia, sostanzialmente è diretto ad aggirare norme imperative al fine di conseguire vantaggi illegittimi. Diversamente deve dirsi se il contribuente, al quale è offerta una pluralità di alternative legittime, utilizzi quella che gli consente un maggior risparmio d’imposta anche se tale scelta non è giustificata da valide ragioni economiche.
Nel caso venga posta in essere un’operazione elusiva, l’amministrazione finanziaria non potrà cancellare gli effetti giuridici di tale operazione, ma potrà eliminare il danno economico recato al fisco attraverso il recupero degli indebiti vantaggi tributari conseguiti dal soggetto elusore, al netto delle minori imposte pagate al momento della realizzazione del comportamento elusivo.
Le recenti ulteriori modificazioni, soprattutto sul regime di deducibilità degli interessi passivi, l’eliminazione del il pro-rata patrimoniale e della thin capitalization, sostituiti da un meccanismo basato sul confronto tra il costo dell’indebitamento netto ed il risultato operativo lordo della gestione caratteristica evidenziato nel bilancio d’esercizio, hanno modificato ulteriormente il grado di appetibilità di tale operazione. Oggi, infatti, gli interessi passivi al netto degli interessi attivi sono deducibili nel limite del 30 per cento del risultato operativo della gestione caratteristica iscritto nel bilancio d’esercizio al lordo degli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali ed immateriali nonché dei canoni di locazione finanziaria. Ecco che, tali modificazioni incideranno notevolmente sulla concreta utilizzazione del leveraged buy out; se da un lato infatti il legislatore con gli ultimi interventi legislativi in materia di aggregazioni aziendali ha reso più “attraente” tale operazione, dall’altra con gli interventi normativi in materia di deducibilità degli interessi ai fini Ires, ha reso meno appetibile sotto il profilo fiscale la fattispecie del merger leveraged buy out.
File