ETD

Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-04022018-234113


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
CAMPO, ENRICO
URN
etd-04022018-234113
Titolo
Essere qui, essere altrove. L'attenzione e la sua crisi
Settore scientifico disciplinare
SPS/07
Corso di studi
SCIENZE POLITICHE
Relatori
tutor Prof. Mele, Vincenzo
Parole chiave
  • sociologia dell'attenzione
  • sociologia cognitiva
  • cutura e cognizione
  • crisi dell'attenzione
  • attenzione
Data inizio appello
02/05/2018
Consultabilità
Completa
Riassunto
Affermare che l’attenzione sia una facoltà cruciale nelle società occidentali contemporanee è ormai quasi una banalità: la nostra capacità di prestare attenzione a determinati stimoli (oggetti, esseri umani, eventi, azioni) piuttosto che ad altri potenzialmente accessibili è appunto fondamentale e la limitatezza delle nostre risorse attenzionali è esperita come terribilmente dolorosa. L’immediato riferimento all’attualità del presente lavoro di tesi riguarda quindi l’idea, probabilmente abbastanza diffusa nel senso comune e non solo, secondo cui la “rivoluzione digitale” ha minato la nostra capacità di prestare attenzione.
La cosiddetta “crisi dell’attenzione”, se inquadrata in un contesto più ampio, assume una portata più generale che non può semplicemente essere derubricata sotto l’etichetta della degenerazione delle facoltà cognitive causata dalla tecnologia digitale. Anzi, questo atteggiamento finisce per avere un’impostazione nostalgica e basata su una visione idealizzata del passato. Tutto ciò, noi riteniamo, giustifica e rende urgente uno studio che indaghi l’attenzione nella sua dimensione sociale anche se la prima difficoltà che deve affrontare un lavoro che abbia questa aspirazione, consiste nel fatto che la maggior pare degli studi sul tema hanno adottato una prospettiva strettamente individualistica. Tradizionalmente l’interesse è stato rivolto soprattutto alle modalità attraverso cui un soggetto (spesso maschio, occidentale e adulto) dirige l’attenzione verso questo o quello oggetto, al numero contemporaneo di oggetti o operazioni cui può prestare contemporaneamente attenzione e così via. Secondo l’impostazione che invece abbiamo voluto difendere in questo lavoro non si può pensare l’attenzione a prescindere dalle convenzioni culturali e dalle norme sociali.
Nel primo capitolo abbiamo ritenuto necessario iniziare il nostro percorso con una ripresa e discussione della psicologia dell’attenzione. Tale scelta si giustifica sia da un punto di vista storico che teorico. Per quanto riguarda il primo punto, basti dire che l’attenzione è un tema centrale della psicologia sperimentale praticamente sin dalla nascita della disciplina, nella seconda metà del XIX secolo. In relazione alla ragione teorica, riteniamo che anche nell’affrontare processi sociali complessi non sia possibile sfuggire alle assunzioni su come agiscano e pensino i soggetti e, di conseguenza, su come funzionino i relativi processi cognitivi. Di conseguenza, nella misura in cui non queste assunzioni non vengono esplicitate e chiarite, si rischia di dare per scontato il concetto di “attenzione” che stiamo usando e che probabilmente ci deriva dal senso comune. Precisiamo da subito però che la psicologia, nonostante studi l’attenzione sostanzialmente dalla sua nascita, non può fornirci una definizione chiara e univoca di “attenzione” poiché non esiste un accordo unanime sulla caratterizzazione del fenomeno. Può però sicuramente aiutarci a focalizzare ulteriormente alcuni nodi cruciali legati al suo studio e al suo funzionamento. In particolare, nel primo paragrafo abbiamo voluto mettere in evidenza la multidimensionalità dell’attenzione, anche come processo cognitivo strettamente individuale, e abbiamo voluto riprendere i criteri che ci permettono di distinguerla dalla coscienza e dai sensi. Di seguito, abbiamo ripercorso brevemente le diverse fasi dello studio dell’attenzione nella psicologia cognitivista sin dagli anni Cinquanta del Novecento. Abbiamo tentato di mettere in evidenza gli specifici contesti sociali in cui hanno preso forma gli studi sperimentali sull’attenzione, sia rispetto agli originari interessi sottostanti (spesso militari), sia rispetto alle metafore utilizzate e al loro contesto tecnologico. L’opzione per una determinata metafora non è infatti neutrale rispetto allo studio del fenomeno oggetto di indagine e condiziona sia le domande di ricerca che l’orizzonte di possibilità delle risposte. Infine, nei paragrafi conclusivi, abbiamo dedicato spazio alle prospettive più recenti basate sulle tecniche di neuroimaging e abbiamo ripreso la proposta di Michal Posner di individuare un sistema dell’attenzione composto di specifici sottosistemi.
Nel secondo capitolo iniziamo a discutere della dimensione culturale dei processi attenzionali. Nella prima parte sono state discusse alcune delle assunzioni che guidano la psicologia basata sul paradigma sperimentale. In particolare, sono stati messi al centro della trattazione l’individualismo e l’universalismo, la cui azione combinata porta a relegare sullo sfondo la variabilità culturale e sociale dell’attenzione. Nella parte successiva sono stati quindi ripresi quei lavori che hanno studiato proprio le differenze culturali, ma che restano comunque all’interno del paradigma sperimentale. Per dar conto delle differenze culturali, alcuni autori hanno proposto di leggerle alla luce di due diversi modelli o pattern attenzionali, uno di tipo olistico e uno analitico che sarebbero più utilizzati, rispettivamente, nelle culture orientali e in quelle occidentali. Nell’ultimo paragrafo, abbiamo sostenuto la necessità di dover approfondire ulteriormente lo studio della variabilità sociale e culturale dell’attenzione per evitare di cadere nei due rischi, opposti e complementari, del neuroriduzionismo e dell’essenzialismo della cultura.
Il terzo capitolo è stato quindi dedicato agli approcci che studiano l’attenzione come un fenomeno sociale anche al di fuori del laboratorio. L’attenzione non è di certo un oggetto di studio semplice per la sociologia, che ha avuto storicamente una certa difficoltà ad affrontare i processi che si realizzano “dentro la testa”. Il primo paragrafo è stato quindi dedicato allo studio del rapporto tra il “mentale” e il “sociale” in sociologia. Anche se lo iato tra la psicologia (e in particolare quella cognitiva) e la sociologia è talmente profondo che sembra quasi che le due abbiano a che fare con due concezioni diverse dell’essere umano, negli ultimi anni stiamo assistendo a una certa convergenza, in particolare attorno al dibattito che, soprattutto negli Stati Uniti, ruota attorno all’etichetta di “cultura e cognizione”. Nel secondo paragrafo, abbiamo quindi discusso quegli approcci che studiano direttamente l’attenzione e in particolare abbiamo ripreso il lavoro di Eviatar Zerubavel e della sua scuola che, ormai da quasi venti anni, studia i processi cognitivi da un prospettiva squisitamente sociologica. Il paragrafo successivo è stato invece dedicato alle variegate prospettive che si richiamano all’economia dell’attenzione. All’interno di questa categoria sono però presenti approcci molto diversi tra loro, sia di tipo sociologico che più strettamente economico. In ogni caso, tutti hanno in comune il fatto di considerare l’attenzione come una risorsa scarsa la cui allocazione cambia gli equilibri del sistema economico complessivo. Nel paragrafo conclusivo abbiamo dedicato un certo spazio alla proposta di Dominique Bouiller. La sua idea di “regime attenzionale” è per noi di particolare utilità sia perché è in grado di coniugare più livelli di analisi, senza rinunciare quindi alla multidimensionalità che caratterizza l’attenzione, sia perché mostra un interesse specifico per un livello intermedio e “ambientale”.
I primi tre capitoli possono essere considerati come una sorta di progressiva costruzione di un oggetto di ricerca e, in particolare il terzo, come una messa a fuoco di una serie di nodi teorici essenziali per l’analisi dell’attenzione come un fenomeno sociale. Sono state quindi individuate alcune carenze o temi trascurati nelle prospettive riprese. In particolare la sociologia cognitiva americana, che ha studiato più diffusamente l’attenzione, trascura sia la dimensione storica che quella tecnologica e i due capitoli finali del lavoro di tesi hanno voluto appunto offrire un contributo in quella direzione.
Nel quarto capitolo si è quindi tentato di legare la questione della crisi dell’attenzione alla più generale questione dei caratteri dell’epoca moderna. A tal proposito, abbiamo voluto mettere in primo piano la costitutiva relazione tra Neuzeit e stimolazione attenzionale. Se infatti, come abbiamo visto nel primo paragrafo, la modernità è l’epoca che interpreta se stessa come l’epoca del nuovo, che erge a norma la produzione materiale e simbolica del nuovo, allora è anche l’epoca che eccede sempre le risorse attenzionali. Il “nuovo” infatti può essere considerato, da un punto di vista percettivo o cognitivo, un nuovo stimolo, un nuovo prodotto e, oggi sempre di più, una nuova “esperienza”. Nel secondo e terzo paragrafo, abbiamo però voluto discutere dell’ambiguità di tali meccanismi: da un lato (terzo paragrafo), come avevano già notato i sociologi classici (Georg Simmel in primo luogo), la continua ricerca della stimolazione ha anche un effetto paradossale di anestetizzazione sensoriale. Dall’altro (quarto paragrafo) siamo di fronte a un processo che fa in modo che il “nuovo” diventi l’atteso, ne sterilizza così la carica innovativa e dunque funziona nei termini di un “cambiamento debole”. Pertanto, la modernità ha in sé un’ambiguità costitutiva che, secondo Walter Benjamin, può addirittura avere tratti infernali. Ovviamente, in tale scenario, la variabile cruciale risulta essere il ritmo dei cambiamenti: quanta “novità” è possibile produrre e assorbire nell’unità di tempo data? Il problema modernità-novità-attenzione risulta allora essere strettamente connesso a quello della cosiddetta accelerazione, che è stata discussa nel quarto paragrafo. In particolare, sono state riprese le recenti proposte teoriche di Hartmut Rosa rispetto all’accelerazione dei ritmi di vita al fine di contestualizzare in una cornice più ampia i processi di desincronizzazione e risincronizzazione dell’attenzione. Secondo la nostra impostazione, dunque, la cosiddetta “crisi dell’attenzione” potrebbe non essere necessariamente una percezione generalizzata esclusiva del nostro presente, ma si candiderebbe a essere in qualche modo endemica alla modernità (e più in generale potrebbe non essere solo un fenomeno specifico della modernità). La nostra ipotesi di lavoro è che tale percezione si faccia più acuta in quei periodi storici che sono testimoni di un rapido, ed eventualmente rivoluzionario, cambiamento nelle tecnologie mediali, laddove “media” va inteso in un senso molto ampio. Il quinto paragrafo è stato pertanto dedicato alla teoria di Jonathan Crary, secondo cui il capitalismo è un sistema che produce incessantemente (cioè ciclicamente) delle “crisi dell’attenzione”. Il disciplinamento dell’attenzione, nella doppia dimensione del lavoro e del consumo, è una componente cruciale dei processi capitalistici di soggettivazione e fa parte di un processo che continuamente tenta di spingere oltre i limiti delle soglie attenzionali. Pertanto, i problemi che stiamo oggi affrontando, per quanto oggi ci sembrino legati in maniera inestricabile alle tecnologie informatiche, hanno in realtà una storia più lunga. Complessivamente, l’obiettivo del quarto capitolo è stato duplice: da un lato, correggere una possibile miopia storica che ci porterebbe ad affrontare tale questione come se fosse solo legata alle nuove tecnologie e, dall’altro lato, tentare di delineare eventuali specificità, se ci sono, di un regime attenzionale moderno.
L’ultimo e quinto capitolo è diviso in due macro parti ma che sono entrambe accomunate dalla proposta di utilizzare due concetti appartenenti al bagaglio teorico tradizionale della sociologia: quello di sistema di rilevanze e quello di frame. Il primo, concettualizzato da Alfred Schütz negli ultimi anni della sua vita ma presente in tutto il suo pensiero, serve a mettere in primo piano il modo in cui il senso comune guida dall’interno i movimenti dell’attenzione individuale. Dopo aver discusso il ruolo dell’attenzione e dei sistemi di rilevanza in Schütz (secondo e terzo paragrafo), proporremo di leggere i sistemi di rilevanza come matrici sociali dell’attenzione (quarto paragrafo). Nella seconda parte del capitolo affronteremo invece più direttamente il rapporto tra tecnologia e processi attenzionali. In particolare, vedremo come una delle metafore più utilizzate nella sociologia della percezione, ovvero quella del filtro, incentrata solo sui meccanismi di selezione ed esclusione, abbia una certa difficoltà a dar conto delle dinamiche “qualitative” nella modulazione dell’attenzione. Dopo aver ripreso brevemente il concetto di frame in Ervin Goffman e in Gregory Bateson (quinto paragrafo) analizzeremo le prospettive recenti che hanno indagato il rapporto tra gli apparati e il cognitivo nei termini di un’estensione della mente. Tali prospettive aprono quindi a una lettura articolata dei diversi livelli nella dinamica tra l’attenzione e la tecnologia. In particolare, tale dinamica verrà letta come un processo che va a incidere anche al livello dell’inconscio: l’utilizzo dei concetti di inconscio ottico e inconscio tecnologico, affrontati nel settimo paragrafo, hanno appunto la funzione di illuminare questo rapporto. Infine, si proporrà di insistere su una sfumatura particolare del concetto di inconscio tecnologico e ridefinirlo come inconscio esteso. Quest’ultimo termine ha infatti la funzione di dar conto della specificità dei dispositivi che usano algoritmi predittivi sulla base di dati da noi prodotti e che, come diverse ricerche hanno messo in evidenza, orientano le nostre scelte e i nostri processi atttenzionali in modalità in parte nuove.
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