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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-04012013-141012


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MORONI, CHIARA
URN
etd-04012013-141012
Titolo
La resistenza popolare palestinese in Cisgiordania
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Prof. Gallo, Giorgio
Parole chiave
  • resistenza popolare
  • Cisgiordania
  • Palestina
  • resistenza
Data inizio appello
18/04/2013
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
18/04/2053
Riassunto
Cinque mesi , forse più, alla scoperta della storia, della cultura, della politica e della quotidianità della popolazione palestinese; oltre alla ricerca sui testi fatta in Italia, buona parte delle informazioni che mi hanno permesso di scrivere questo mio lavoro sono state raccolte attraverso interviste formali, chiacchierate, incontri, seminari, viaggi nella regione della Cisgiordania, condividendo la realtà quotidiana con i palestinesi. Rileggere le teorie sulla violenza e quelle sulla nonviolenza consente a tutti di inquadrare meglio il fenomeno della resistenza palestinese, che si caratterizza come nonviolento secondo un approccio pragmatico. Sempre nel primo capitolo viene motivata la scelta del termine “resistenza popolare”, che fa riferimento non solo alla base del fenomeno, che è appunto quella del popolo, ma al fatto che l’aggettivo “popolare” è frutto di una discussione, interna alla società e al movimento di resistenza palestinese, su come fosse definibile, da un punto terminologico, la loro azione di lotta all’occupazione e di sumud.
Nel secondo capitolo viene ripercorsa la storia della Palestina, evidenziando tutte le modalità di resistenza sperimentate dai palestinesi nel corso della loro battaglia per la libertà che dura quasi da 65 anni. La parte di popolazione attiva sul fronte della resistenza deve fare i conti con la repressione israeliana, con i tentativi di controllo dell’ANP, con l’apatia del resto della popolazione e con un contesto internazionale che continua a vedere nella soluzione a due stati la risposta al problema mediorientale. La resistenza dei villaggi, dei comitati popolari, delle associazioni, dei singoli si intreccia poi con la cultura palestinese, fatta di tradizioni millenarie e di contaminazioni straniere; l’arte, in tutte le sue forme, il senso di comunità, l’attaccamento alla propria terra, l’essere affamati di giustizia, etc. hanno reso la lotta popolare dei palestinesi un qualcosa di unico.

In questa tesi viene esaminata la resistenza popolare palestinese nella regione della Cisgiordania; tuttavia, è bene che si chiaro che il fenomeno non può essere considerato indipendentemente da quello che accade, e da come reagiscono i palestinesi, nelle altre regioni della Palestina storica, e quindi Gerusalemme Est, Striscia di Gaza e villaggi palestinesi che si trovano all’interno della Linea Verde. I movimenti di resistenza possono cercare di raggiungere i propri obiettivi sia attraverso il metodo della resistenza nonviolenta che con l’uso della forza (resistenza armata); nella maggior parte dei casi vengono adottate entrambe le modalità.
Per quanto riguarda il caso palestinese, la resistenza è un’espressione completa e ampia, che storicamente si è manifestata in forme differenti, dell’aspirazione alla libertà e alla dignità del popolo palestinese . Nel corso degli anni, i palestinesi sono passati dal combattere gli Ottomani al governo inglese durante il mandato, fino al 1948 e alla lotta contro il progetto sionista di Israele. È in particolare contro quest’ultimo che il diritto internazionale riconosce al popolo palestinese il diritto a resistere. Secondo il Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 adottato nel 1977, relative alla Protezione delle Vittime dei Conflitti Armati Internazionali, la popolazione di un paese occupato da una potenza straniera ha il pieno diritto a lottare per la propria liberazione. Quando nell’arena internazionale si parla della violenza a sfondo politico interna al conflitto israelo-palestinese, viene però dimenticata – o meglio ignorata – la violenza sionista (individuale o di gruppo) e gli attacchi quasi quotidiani dei coloni. La questione dell’opinione pubblica internazionale è cruciale perché condiziona enormemente la scelta sul metodo di resistenza nella società palestinese. Ad esempio, una delle critiche mosse al Comitato di Coordinamento della Lotta Popolare (in inglese, abbreviato con PSCC) è proprio quella di utilizzare la formula della “nonviolenza” per attirare non solo il consenso, ma soprattutto i fondi internazionali. Per capire meglio le diverse modalità con cui la resistenza palestinese si è sviluppata nel corso del tempo, è necessario analizzare prima le teorie sulla violenza e sulla nonviolenza, da cui hanno origine rispettivamente la resistenza armata e quella nonviolenta.
Johan Galtung, uno dei fondatori della disciplina degli studi sul conflitto e per la pace, ha sviluppato una teoria della violenza che distingue tra diretta, strutturale e culturale. La“penetrazione”, ossia impiantare il pensiero dominante nel gruppo svantaggiato, unita alla “segmentazione”, intesa come fornire al gruppo danneggiato una visione parziale della realtà, impedisce la presa di consapevolezza. Nel 2002 gli studiosi Dr.
L’elemento centrale, secondo Thomson, è che la violenza di ogni tipo tende a evocare una risposta a sua volta violenta e, riferendo questa teoria al caso palestinese, i bambini che lanciano i sassi, o i martiri che si fanno esplodere uccidendo dei civili israeliani, sono la risposta - con la sola forma di violenza a loro disponibile - alle azioni delle forze armate di Israele e anche alla violenza sociale che i palestinesi subiscono costantemente.
Un altro possibilità è giustificare la violenza in termini di legalità dei mezzi, a prescindere dalla giustezza del fine. Questo non significa sottomissione alla volontà del malvagio, ma piuttosto impiegare tutte le forse dell’anima contro la volontà del tiranno” . Solo le persone che sono consapevoli del proprio potere e della propria forza possono praticare la nonviolenza, il cui risultato sarà la vittoria della forza spirituale su quella fisica. Riferimenti alla nonviolenza possono essere ritrovati nel Giainismo e nel Buddismo, nell’Islam, nella religione ebraica e in quella cristiana. Negli Stati Uniti, inoltre, molti gruppi nel corso del XIX secolo hanno articolato una dottrina sulla “non-resistenza”, in particolare nel contesto del movimento di abolizione della schiavitù. Ancora, sul concetto di disobbedienza civile, “questa consiste nel riconosciuto diritto alla rivoluzione, e quindi nel diritto di rifiutare l’obbedienza e di opporre resistenza al governo, quando la sua tirannia o la sua inefficienza siano grandi ed intollerabili” . Nel cristianesimo la nonviolenza è vicina al concetto di non-resistenza, che significa “astenersi totalmente dall’infliggere lesioni personali (…), [praticare] una resistenza morale attiva e rigorosa” . La nonviolenza e le strategie di peace-building sono componenti autentiche della tradizione islamica nel contesto socio-culturale del periodo precedente al XIX secolo, con solide radici nella storia e nella cultura musulmana. Abdul Ghaffar Khan, il leader della lotta nonviolenta dei Pashtun contro gli inglesi, individua ‘amal (servizio), yakeen (fede) e mahabbah (amore) come valori fondamentali dell’Islam, in contrapposizione alla caratterizzazione stereotipata della religione musulmana come violenta . Le virtù del perdono e della grazia, della tolleranza, della sottomissione a Dio, della giustezza dei mezzi e il rispetto dei diritti altrui sono più volte sottolineati sia nel Corano che negli Hadiths. Nel Corano si possono trovare alcune sure che dimostrano la centralità della pace e dei valori sopra descritti.
La prima comunità lega la nonviolenza ai cinque pilastri delle fede , in particolare al digiuno e al jihad. I Sufi attribuiscono grande importanza agli aspetti spirituali del jihad, nel loro percorso di conquista del sé.
Le azioni nonviolente sono strettamente legate alla presunta capacità dell’azione di trasformare l’avversario nel conflitto: sia gli attori nonviolenti che gli oppositori sociali risultano infatti cambiati dall’atto nonviolento. Una sofferenza consapevole è un elemento centrale della pratica della una sofferenza consapevole è un elemento centrale della pratica della satyagraha nel pensiero di Gandhi.
Come azione, sfida, coraggio e lotta, la nonviolenza permette alle persone di sfuggire al dominio della violenza e di affermare l’indipendenza e la dignità della persone, aiutandoli a determinare il loro futuro. Resistenza e cultura
“La nonviolenza è essenzialmente una forma attiva di resistenza” . Questo “fraintendimento” è presente anche oggi nella società palestinese, nonostante ci siamo ci sono molte forme di resistenza profondamente collegate alla cultura, e quindi non armate, in tutta la Palestina.
Facendo riferimento al legame con la cultura, le azioni nonviolente sono una parte delle “tattiche”, nel significato dato a questo termine da Michel De Certeau. (…) In altre, parole, la tattica è l’arte della parte debole” . Al di là delle teorie, nella lotta palestinese è evidente sia come le varie forme di resistenza abbiamo le loro radici nella cultura palestinese (canzoni che trattano la situazione attuale, la danza tradizionale ‘dabka’, le varie poesie autori palestinesi, etc.), sia l’importanza di forme quotidiane di resistenza (come continuare a portare il proprio gregge a pascolare su un’area interdetta o andare tutte le mattine a scuola). Esempi di queste azioni di resistenza culturale verranno descritti nel capitolo 3, che tratta nello specifico le azioni di resistenza attuate oggigiorno in Cisgiordania.
La resistenza popolare come terza via
Per quanto riguarda la resistenza palestinese, il nocciolo della questione è il metodo usato nelle varie azioni: la dialettica tra violenza e nonviolenza costituisce necessariamente il punto di partenza di ogni riflessione e analisi sulla resistenza palestinese . Oltre alle due modalità già indicate, resistenza armata (muqawima musallaha, مقاومة مسالحة) e resistenza nonviolenta (muqawima la unfiya, اللاعنفية مقاومة), esiste una forma che le include entrambe: la resistenza popolare. Coerentemente con lo scopo della tesi, che è quello di presentare una panoramica della resistenza palestinese in Cisgiordania, al di là delle teorie, delle ideologie e dei luoghi comuni, e considerando i diversi approcci che compongono gli studi sulla nonviolenza (in particolare riguardo ai diversi sentimenti che sottostanno all’approccio morale/religioso/etico e a quello pragmatico), la scelta è stata di non escludere, per via del significato dato a una parola, forme di resistenza tuttora attuate dalla popolazione palestinese.
In Palestina il concetto di resistenza, così come quello di nonviolenza, è definito in maniera diversa rispetto alle teorizzazioni occidentali, e usare termini ambigui renderebbe l’analisi meno accurata; da qui l’assunzione del punto di vista palestinese e della dicitura “resistenza popolare” come base di partenza per l’identificazione dell’oggetto di studio.
Secondo molti palestinesi, la resistenza popolare (in arabo muqawama sha’bya المقاومة الشعبية ) è la forma di azione più praticata in Cisgiordania dalla popolazione ed è diametralmente opposta alla resistenza armata.
La resistenza popolare ha il vantaggio di comprendere sia la forma nonviolenta che armata, entrambe possibili e legittime per il popolo palestinese in quanto parte della loro lotta di liberazione contro l’occupazione. Nella logica sionista le azioni dei palestinesi, anche se nonviolente, non sono atti di resistenza ma azioni illegali; dunque Israele si limita a reagire per difendere i suoi legittimi interessi.
La resistenza palestinese non è una manifestazione recente e per meglio sottolineare il suo bagaglio storico è ora utile tracciare la storia della Palestina, mettendo a fuoco le forme di resistenza popolare implementate.
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