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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-03252013-111045


Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
CECCHIN, GIULIO
URN
etd-03252013-111045
Titolo
Il conte Guido da Montefeltro Podestà e Capitano di Pisa (1289-1293) nelle fonti narrative
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E CIVILTA'
Relatori
relatore Prof. Ronzani, Mauro
Parole chiave
  • conte Guido da Montefeltro
Data inizio appello
22/04/2013
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
22/04/2053
Riassunto
Questa tesi specialistica è, per quanto riguarda l’argomento, in continuità con la mia tesi triennale che era incentrata sul conte Ugolino e sulla sua tragica morte. Infatti la venuta a Pisa di Guido da Montefeltro si colloca subito dopo l’uscita di scena del detto personaggio della Gherardesca.
Perciò questa volta l’attenzione sarà focalizzata aoprattutto su Guido stesso. Ne consegue che, ad eccezione del secondo capitolo della prima parte di questo elaborato, tutti gli altri riguarderanno quel conte. Lo faranno sia dal punto di vista della sua casata e della sua vita prima e dopo il suo periodo pisano (capitolo I.1), sia da quello propriamente detto di quando giunse a Pisa (capitoli II.1 e II.2). Un altro argomento trattato sarà invece inerente alla situazione politica di Pisa nel corso del XIII secolo prima dell’entrata in città di Guido (capitolo I.2).
Comunque, eccettuata la venuta a Pisa del conte in questione, gli altri temi citati verranno dibattuti in modo non troppo approfondito. Infatti ne consegue che la prima parte di questo elaborato debba essere considerata come una sorta di lunga introduzione al periodo pisano di quel condottiero ghibellino. In essa viene descritto tutto ciò che è utile per la comprensione del resto di questa tesi.
In ogni caso soltanto con il capitolo II.2 verranno introdotte ed analizzate le fonti storiche su Guido da Montefeltro a Pisa, poiché il capitolo II.1 servirà a narrare i caratteri generali di quell’avvenimento.
Infine ringrazio sia il professore Mauro Ronzani per avermi assegnato questo argomento e per avermi guidato e consigliato nella realizzazione di questo elaborato, sia l’Archivio Arcivescovile di Pisa per avermi concesso il permesso di far fotografare le pagine del registro notarile tardo duecentesco che costituiscono il documento inedito che verrà inserito nell’ultimo paragrafo del capitolo II.2.










Parte I

La casata dei da Montefeltro dalle origini fino al conte Guido, prima e dopo la sua venuta a Pisa e la città pisana nel XIII secolo precedentemente all’arrivo del detto conte













Capitolo I.1

La casata dei da Montefeltro dalle origini fino al conte Guido, prima e dopo la sua venuta a Pisa

I.1.1: Le origini della casata dei da Montefeltro

La storia del Montefeltro come Stato signorile risale all’inizio dell’VIII secolo, quando quella zona e le valli ed i territori ad essa limitrofi furono tolti al dominio bizantino durante il regno del re longobardo Desiderio.
Infatti, fin dal 715, la Chiesa con il papa Gregorio II organizzò ecclesiasticamente tale territorio che nel IX secolo costituì, grazie alle donazioni carolingie, un vescovado. Da allora i possedimenti della nazione montefeltrana si allargarono, oltre alle rocche del Montefeltro stesso e di San Leo, all’intero territorio ecclesiastico comprendente le valli della Marecchia, del Foglia e del Savio. Ciò avvenne grazie al fatto che , a cominciare dal duca Orso, i signori del luogo presero sotto la loro protezione i presuli di questa circoscrizioni ecclesiastica.
Negli ultimi tre secoli del I millennio d. C. i beni vescovili dei vescovi del Montefeltro, sempre grazie alla protezione dei detti duchi, aumentarono molto nelle valli già nominate, in quella del Senatello ed in altre località: Talamello, Casteldelci, Macerata Feltria, San Marino, Maciano e Carpegna.
Nel secolo X, e poi nell’XI, i titolari del vescovado locale dovettero farsi proteggere dai Conti di Carpegna. Questa fu la conseguenza del lungo assedio di San Leo, rocca famosa per la sua inespugnabilità, che durò molti anni e che venne fatto da Ottone I contro Berengario II che vi si era rifugiato. Inoltre altri motivi che portarono a tale risultato furono: la Lotta per le Investiture e gli scismi prima di Wiberto, a cui i presuli montefeltrani erano legati da un rapporto di suffraganeità e di fedeltà, e poi degli antipapi che l’imperatore Federico I oppose al pontefice Alessandro III.
Nell’XI secolo la casata dei conti di Carpegna si divise in tre rami. Uno di essi mantenne tale titolo e gli altri invece presero rispettivamente quelli di conti di Pietrarubbia e di Montecopiolo, da cui derivarono i conti di Montefeltro, ovvero i da Montefeltro, che furono i nuovi signori di tale territorio 1.

I.1.2: I conti del Montefeltro che precedettero Guido: Montefeltrano I

Nella seconda metà del XII secolo Montefeltrano I fu il primo esponente dei conti da Montefeltro ad essere storicamente attestato con sicurezza. Egli riuscì ad estendere i suoi possedimenti nel Montefeltro nella seconda metà degli anni ’70 di tale secolo, grazie al favore che godeva presso l’imperatore Federico I di Svevia. Ciò avvenne a danno di Aldruda contessa di Bertinoro che, negli anni precedenti, aveva parteggiato per i Bizantini nella difesa di Ancona: città che era stata assediata dall’impero germanico, fra le cui truppe vi erano stati anche i contingenti montefeltrani.
Montefeltrano I nel 1186 riuscì con il sue potenti truppe ad esercitare il suo dominio, oltre che nel Montefeltro, anche nei comitati confinanti di Urbino, Pesaro e Rimini. Città quest’ultima che, in funzione della sua posizione costiera, era molto importante.
Quell’esponente dei da Montefeltro, data la potenza militare del suo Stato, la sua fedeltà e la posizione strategica dei suoi territori, godette già di una grande importanza alla corte imperiale. Infatti, circostanza che rimase valida per più di un secolo, tale casata riuscì ad assicurarsi il pieno dominio sul vescovado la cui sede era ora a San Leo. In questo modo già Montefeltrano I fu capace di essere economicamente in grado di poter combattere per l’impero, ricevendone in cambio vari vantaggi ed un grande prestigio 2.


1 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.1, si veda il paragrafo 1 del capitolo I di: Gino Franceschini, “I Montefeltro”, Varese, 1970, “dall’Oglio editore”, pp. 9-10.

2 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.2, si vedano i successivi tre paragrafi del capitolo I di: Gino Franceschini, “I Montefeltro”, Varese, 1970, “dall’Oglio editore”, pp. 10-15.

I.1.3: I conti del Montefeltro che precedettero Guido: Buonconte I e Taddeo I

La successiva generazione fu quella dei conti Buonconte I e Taddeo I, figli di Montefeltrano I che vissero nella prima metà del XIII secolo. Essi continuarono la politica paterna ed in questa ottica strinsero un’intricata rete di rapporti parenterali e di alleanza con le famiglie nobili delle valli intorno al Montefeltro. In questo modo riuscirono ad avvicinarsi ancora di più alla città di Urbino, della quale controllavano il contado.
Il fatto che in quel periodo l’impero fosse vacante e che quindi i vicari imperiali non fossero in grado di esercitare i loro poteri, permise ai da Montefeltro di espandere le loro mire territoriali in particolare verso la città di Urbino ed anche nei confronti di Rimini e Città di Castello.
Però, con l’intervento del pontefice Innocenzo III, questa fase finì ed iniziò quella dei contrasti con la Chiesa, che sarebbe durata ancora a lungo ed avrebbe coinvolto sia i papi successivi sia i da Montefeltro delle generazioni seguenti.
Egli infatti riunì tutti i guelfi toscani, lombardi e romagnoli e, siccome il Montefeltro era una zona fortemente ghibellina, entrò in contrasto con esso. In quel periodo lo Stato della Chiesa era ancora, dal punto di vista territoriale, in fase di riorganizzazione e di consolidamento e questo spiega il perché del grande interesse della Santa Sede per il Montefeltro. Innocenzo III ottenne perciò il 7 ottobre 1209 la piena sovranità sulla Massa Trabaria, che era una delle zone più importanti del Montefeltro, dall’imperatore designato Ottone IV che era stato riconosciuto dal papa proprio in virtù di concessioni come questa.
Questo fatto provocò molti problemi ai da Montefeltro, come le defezioni e le fughe dei servi e soprattutto le rivolte a Città di Castello e ad Urbino. Inoltre anche alcuni esponenti di casate nobili
locali preferirono, nonostante gli antichi patti di alleanza, allontanarsi dai signori del Montefeltro ed avvicinarsi alla Chiesa: perché, dal loro punto di vista, era preferibile legarsi alla vicina Curia piuttosto che restare fedeli al lontano impero.
Comunque la situazione sembrò migliorare già nel gennaio del 1210, con la discesa in Italia di Ottone IV che doveva farsi incoronare imperatore a Roma. Attorno al monarca si riunirono le forze ghibelline ed i da Montefeltro, che furono fra i suoi maggiori sostenitori, erano fra loro.
In ogni caso fu tutto vano perché ben presto Ottone IV, a causa dei suoi contrasti con il papato, dovette precipitosamente tornare in Germania ed il fronte ghibellino si sfaldò.
In questo frangente i da Montefeltro esercitarono la loro influenza sulle città romagnole. Nell’estate del 1216 essi, insieme ad Urbino ed ai conti di Carpegna, Pesaro e Fano, aiutarono vittoriosamente Rimini; contro la quale si erano schierate le città di Bologna, Faenza, Cesena, Forlì, Bertinoro e Ferrara.
I da Montefeltro anche in questa generazione, come già nella precedente di Montefeltrano I, furono dei grandissimi capi di milizie. In quel modo riuscirono a stringere dei fortissimi legami di fedeltà nei propri confronti con gli uomini, le comunità ed i nobili dei loro territori: vincoli che durarono a lungo nel corso dei secoli.
Nei primi decenni del XIII secolo i rapporti fra il Montefeltro e Rimini si fecero sempre più stretti. I da Montefeltro ed i Riminesi rimasero legati ad Ottone IV fino alla sua morte nel 1218, nonostante egli fosse stato sconfitto a Bouvines e disconosciuto dal papato. Ciò provocò inizialmente diversi contrasti fra loro e Federico II di Svevia che era sceso in Italia in qualità di Re dei Romani, ovvero di imperatore designato.
Infatti, per quanto riguarda i da Montefeltro, Federico II a Bologna il 5 ottobre 1220 concesse a Giovanni vescovo del Montefeltro l’investitura comitale su di esso. Questo fu un colpo durissimo per i da Montefeltro, ma la situazione si ricompose a Capua nel febbraio del 1223. Quando Federico II, che si era accorto della tradizionale fedeltà dei da Montefeltro verso l’impero e dei servigi che tale casata aveva offerto a suo nonno Federico I, ritornò sui suoi passi e riconfermò a loro i propri possedimenti ed il titolo comitale sul Montefeltro.
Pochi anni dopo, nel giugno del 1226, Federico II investì i da Montefeltro anche del titolo di Conti di Urbino, per ringraziarli di aver nuovamente rinnovato la loro fedeltà all’impero. Da allora tale casata assunse la doppia denominazione ufficiale di Conti del Montefeltro e di Urbino. Furono così legittimate le mire che quelli avevano lungamente manifestato su tale città e sul suo contado.
In questo modo, grazie alla concessione della città in questione, essi ottennero il controllo delle strade che dalle Marche conducevano nell’alta valle del Tevere ed in Toscana. Inoltre divennero in grado di controllare anche quasi completamente le valli del Metauro e del Foglia, grazie al fatto che dominavano il contado del detto centro urbano.
Gli Urbinati negli anni immediatamente seguenti cercarono di opporsi al potere dei da Montefeltro sulla loro città, tanto che quei conti dovettero farsi aiutare da Rimini per affermare la loro autorità su Urbino. Infatti il 28 settembre del 1228 i conti Buonconte I e Taddeo I giurarono il cittadinatico di Rimini ed in questo modo i Riminesi si impegnavano a difendere i da Montefeltro e tutti i loro possedimenti di qualunque tipo essi fossero, in cambio dei diritti commerciali sulle loro terre e quindi anche sul contado urbinense.
Città di Castello, che inizialmente cercò di riaffermare i suoi antichi diritti ecclesiastico-civili sulle zone vicinissime ad Urbino a scapito dei da Montefeltro, si alleò con loro a seguito del riaffermarsi dell’autorità imperiale con Federico II intorno agli anni ’30 del XIII secolo. Infatti il 26 settembre del 1230, nel castello di Montecerignone, si giunse ad un accordo con cui ci fu la riappacificazione con i nobili di Città di Castello che avevano ampi interessi territoriali nel vescovado di Urbino. Inoltre vi erano anche varie clausole con cui i cittadini di Città di Castello affidavano la loro difesa militare ai da Montefeltro. Veniva così riaffermata e consolidata l’amicizia fra quei conti e quella città.
Quindi Buonconte I nel 1231 divenne Podestà di Città di Castello e da allora, fino al vuoto di potere seguito alla morte dell’imperatore Federico II nel 1250, i da Montefeltro furono sempre Podestà o Capitani di Città di Castello garantendosi il controllo della Massa Trabaria, della Val Verona e dell’intero contado di Urbino.
Il 31 gennaio 1234 gli Urbinati si sottomisero definitivamente ai da Montefeltro, riconoscendone l’autorità sulla loro città e sul suo contado. Da allora quella città, dove tale casata comitale si stabilì, divenne la capitale dello Stato del Montefeltro ed i suoi destini furono fortissimamente legati a quelli dei da Montefeltro. Inoltre, grazie al suo inserimento in uno Stato territoriale che sebbene di non grandi dimensioni era stabilmente costituito, Urbino godette di grandi vantaggi economico-commerciali, politici, militari ed artistico-culturali. In aggiunta a ciò la città in questione, essendo protetta dai detti conti, non rischiò più che lei o il suo contado oppure entrambi venissero sottomessi da altri centri urbani vicini, come era quasi riuscita a fare Città di Castello non molti anni prima. I da Montefeltro invece, grazie al controllo di Urbino, riuscirono a consolidare il loro dominio sui territori a cavallo fra la Romagna e la Toscana.
Papa Gregorio IX cercò invano di riaffermare l’autorità ecclesiastica nella fortemente filoimperiale Romagna, mandando il 2 marzo 1235 il Patriarca d’Antiochia a pacificare quella regione, dove era in corso una guerra fra Ravenna, Forlì, Rimini e Forlimpopoli contro Faenza, Cesena, Urbino e Cervia. Questo tentativo fallì proprio perché i da Montefeltro, ormai assimilati agli Urbinati, non si piegarono al volere della Chiesa e rimasero fedeli all’impero 3.

I.1.4: I conti del Montefeltro che precedettero Guido: Taddeo I a capo della casata alla morte di Buonconte I ed i figli di quest’ultimo

Buonconte I ebbe cinque figli: Montefeltrano II, Cavalca, Ugolino, Taddeo II e Gigliolo. Dopo la morte di Buonconte I avvenuta nel 1242, suo fratello minore Taddeo I divenne il capo della casata ed i suoi nipoti, primo fra tutti il primogenito Montefeltrano II, riconobbero l’autorità del loro zio. Così facendo, ancora una volta, venne confermata la solidità gerarchica della casata dei da Montefeltro, in cui tutti suoi rami erano controllati dal suo esponente più anziano.
Il 25 giugno 1243 cominciò il pontificato di Innocenzo IV, con cui ritornarono in auge le pretese ecclesiastiche di controllare le Marche e la Romagna e quindi si riaccesero le ostilità contro i ghibellini ed il loro imperatore Federico II. I da Montefeltro rimasero comunque, almeno proprio

2 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.3, si vedano i rimanenti paragrafi del capitolo I ed il capitolo II di: Gino Franceschini, “I Montefeltro”, Varese, 1970, “dall’Oglio editore”, pp. 15-36.
in questo primo frangente, molto compatti. Infatti Taddeo I venne duramente colpito dalle invettive papali, venendo definito uno dei principali avversari della Chiesa. Però il nipote Ugolino, che in qualità di vescovo di San Leo era stato tentato dal pontefice al tradimento verso lo zio con la promessa di potersi appropriare dei beni di quello e degli altri appartenenti alla casata montefeltrana, non lo fece. Anche Montefeltrano II venne colpito dagli attacchi ecclesiastici, non meno del suo capofamiglia.
Il 12 giugno 1247 Innocenzo IV inviò in Romagna, come suo legato e con ampi poteri, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini e gli dette facoltà di governo sulla Massa Trabaria. Per i da Montefeltro questo fu un grande colpo ed inoltre in questo modo le schiere dei ghibellini vennero scompaginate.
Ne conseguì che in breve tempo, anche grazie alla grande sconfitta subita a Parma dall’imperatore Federico II, in Emilia-Romagna avvennero molte defezioni di nobili e di città che passarono dalla parte guelfa.
Fra coloro che aderirono al guelfismo abbandonando l’antica fedeltà monarchica vi fu, fra gli altri, il conte Taddeo I. Il quale, insieme ad altri nobili, il 16 aprile 1248 conquistò Rimini scacciandovi la fazione imperiale. Questo cambiamento di parte produsse una grande crisi nella famiglia comitale del Montefeltro e di Urbino. Inoltre ci fu una spaccatura al suo interno, poiché i figli di Buonconte I rimasero legati al ghibellinismo.
Il 14 gennaio 1252 a Perugia ci fu, grazie a Filippo vescovo di Ravenna, un primo tentativo di pacificazione fra i guelfi ed i ghibellini, rappresentati rispettivamente dal conte Taddeo I e dal presule Ugolino. Il 18 marzo 1252 a San Miniato, sempre con quel vescovo ravennate come promotore, ci fu la proclamazione di una tregua di venti giorni.
Comunque dovette anche intervenire, come ulteriore mediatore, il pievano Pietro di Castel d’Elci e così a Fano si giunse al trattato di pace fra i due da Montefeltro, Taddeo I ed Ugolino, e tutti quei nobili e tutte quelle città che sostenevano l’una o l’altra delle opposte fazioni in lotta. Il vescovo Ugolino, morì alcuni mesi dopo la stipula di questo accordo. Il nuovo presule di San Leo fu, con grande gioia del papato e dei guelfi, un certo Giovanni non imparentato con i da Montefeltro che venne consacrato nell’ottobre del 1252.
Invece, entro i primi mesi del 1253, ci fu il decesso di Montefeltrano II a cui, nella seconda metà di quello stesso anno, seguì quello di Taddeo I 4.

I.1.5: Il conte Guido da Montefeltro prima della sua venuta a Pisa

Guido da Montefeltro nacque nel 1223 e fu uno dei figli, probabilmente il maggiore, di Montefeltrano II. Per essere precisi, anche Taddeo I ebbe un figlio con lo stesso nome. Comunque non sarà più nominato. Infatti quest’altro Guido non fece niente di storicamente notevole, anche a differenza del fratello Taddeo Novello da Montefeltro-Pietrarubbia. Inoltre, proprio per questi motivi non verrà aggiunto alcun numerale dopo quel nominativo e si ricorda che quindi da ora in avanti con il nome di Guido da Montefeltro sarà indicato soltanto l’importantissimo figlio di Montefeltrano II.
Il conte Guido, prima della morte dello zio Ugolino e del padre, non ebbe un grande risalto fra il novero dei suoi parenti. Infatti in questi primi tempi si occupò di amministrare e governare i vasti possedimenti di una famiglia di vassalli dell’arcivescovo di Ravenna, i conti di Ghiaggiolo, di cui aveva sposato una figlia e, poiché suo suocero e suo cognato erano entrambi morti, toccò a lui questo compito che in quel periodo lo costrinse a disinteressarsi quasi del tutto della sua famiglia d’origine. Fu allora che, in quanto capo della casata dei conti di Ghiaggiolo, giurò il cittadinatico di Forlì, comunità urbana nel territorio della quale c’erano molti beni di quella stirpe, e così divenne uno dei nobili più importanti che comandavano in quella città.
Ne conseguì che, ancora in età giovanile, fu inserito nell’esercito imperiale di Federico II come comandante dei contingenti forlivesi. Partecipò quindi nel 1240 all’assedio di Faenza ed in seguito


4 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.4, si veda il capitolo III di: Gino Franceschini, “I Montefeltro”, Varese, 1970, “dall’Oglio editore”, pp. 37-46.
agli scontri in Lombardia ed alla battaglia di Parma. Federico II in persona si era accorto del suo valore, tanto da donargli un vessillo con l’aquila imperiale che reggeva lo stemma civico di Forlì.
Anche dopo il 1250, anno in cui morì Federico II, nel periodo di vacanza imperiale successivo a questo decesso Guido da Montefeltro continuò a salvaguardare i diritti imperiali minacciati ed usurpati dai guelfi.
All’inizio del 1253, quando avvenne il decesso di suo padre Montefeltrano II, il conte Guido riprese ad occuparsi degli interessi della sua casata d’origine: diventando il più grande fautore del ghibellinismo nelle Marche ed in Romagna.
Nel 1259 Guido, che era in tale anno il Podestà di Urbino, strinse un patto di reciproca difesa fra quella città e Città di Castello. Infatti in quel periodo i ghibellini si erano rafforzati grazie all’intervento di Manfredi, figlio illegittimo di Federico II e re dell’Italia meridionale.
Si inseriscono proprio in quest’ottica i seguenti avvenimenti: la rivolta di Ascoli che, insieme a tutto il suo territorio, era stata tolta ai guelfi dai signori di Brunforte che erano amici ed alleati dei da Montefeltro e la Battaglia di Montaperti del 4 ottobre 1260, grazie alla quale le forze ghibelline riuscirono ad imporsi sul guelfismo in Toscana ed in tutto il resto dell’Italia centrale.
In seguito a tutti questi accadimenti il conte Guido, che allora era il Podestà di Jesi, divenne il nuovo vicario regio di Manfredi nella Marca di Ancona ed esercitò i poteri civili e militari connessi a questo incarico per tre anni.
Però, proprio quando sembrava che i ghibellini avessero vinto contro i guelfi, la situazione mutò a partire dal 1261 con due pontefici francesi in successione: Urbano IV e Clemente IV. Il primo di loro il 21 maggio 1264, quando la Marca d’Ancona era ancora soggetta a Manfredi, vi mandò Simone Paltrinieri il cardinale del Titolo di San Martino. Egli era stato insignito di vasti poteri in qualità di legato pontificio e di governatore del Ducato di Spoleto e della Marca d’Ancona ed il 5 agosto 1264 citò in giudizio, con un ordine di comparizione entro otto giorni presso il tribunale che presiedeva, i più importanti esponenti nobiliari del ghibellinismo marchigiano. Voleva infatti che rispondessero alle autorità ecclesiastiche del loro sostegno a Manfredi ed il conte Taddeo Novello da Montefeltro-Pietrarubbia fu, avendo ereditato gli ideali guelfi dal padre Taddeo I, fra i sostenitori di quella iniziativa.
Nel 1265 sempre per iniziativa pontificia, ma questa volta di Clemente IV, ci fu la discesa dalla Francia verso l’Italia meridionale di Carlo d’Angiò. Le truppe angioine erano comandate dai fratelli Guido, Simone e Filippo di Monfort e riuscirono a percorrere la via Flaminia, attraversando le Marche e l’Umbria, senza che i ghibellini potessero fermarle. Le città marchigiane passarono quindi sotto il controllo francese, proprio come in precedenza avevano fatto quelle romagnole a cominciare da Rimini governata dal conte Taddeo Novello e da Malatesta da Verrucchio.
In conseguenza della discesa franco-angioina, il conte Guido da Montefeltro dovette abbandonare la Marca di Ancona e rifugiarsi ad Urbino. Questa città riuscì a temporeggiare così abilmente da evitare un attacco e da permettere ai ghibellini di riconquistare Cagli. In tale modo, grazie anche al possesso di Fossombrone, la fazione filo-imperiale fu in grado sia di avere il controllo della via Flaminia e delle strade che dalle Marche e dalla Romagna conducevano nell’alta valle del Tevere, sia soprattutto di costituire un triangolo militare che aveva per vertici proprio Urbino, Cagli e Fossombrone. Inoltre, questa triangolazione difensiva era rafforzata dalla presenza al suo interno del montuoso Montefeltro e dell’insediamento urbano di Città di Castello. Il conte Guido fu colui a cui si dovette l’ideazione di questo baluardo protettivo.
Nel 1266 i franco-angioini riuscirono, a seguito della definitiva sconfitta a Benevento del re Manfredi, ad impossessarsi dell’Italia meridionale. Così i guelfi come il conte Taddeo Novello passarono dalla parte dei vincitori a differenza dei ghibellini che, così come Guido stesso, furono posti dagli eventi fra gli sconfitti.
Però nell’ottobre di quello stesso anno il vento ricominciò a soffiare a favore del ghibellinismo: non solo nelle Marche ed in Romagna, ma anche in tutto il resto dell’Italia. Infatti, dopo che Carlo I d’Angiò era diventato il nuovo re del meridione italiano, in quel regno si era creato un forte malcontento popolare poiché le aspettative di una diminuzione delle tasse e di un aumento delle autonomie cittadine erano state disilluse. Quindi i filo-imperiali volevano sfruttare questa situazione, pertanto all’inizio del terzultimo mese del 1266 fu convocata nella città tedesca di Augusta una corte plenaria in cui era presente, come rappresentante dei ghibellini italiani, anche il conte Guido. Venne allora dichiarata la necessità di una discesa in Italia, da compiersi il più presto possibile, del re di Germania Corradino di Svevia: il giovane era l’ultimo membro della dinastia che, come esponenti di spicco, in tempi recenti aveva avuto l’imperatore Federico II ed il re Manfredi.
Guido da Montefeltro, dopo essere tornato nella penisola italiana, venne catapultato in modo molto repentino fuori dagli angusti ambiti politico-militari della Romagna e delle Marche, verso quelli molto più estesi della lotta ghibellina in tutta Italia. Corradino stesso, riconoscendone il valore ed ancor prima di lasciare la Germania, lo investiva con un suo diploma rilasciato ad Augusta della contea abruzzese di Chieti, esclusa la zona di Lanciano.
Il re tedesco in questione concepì in tre fasi la sua discesa nel territorio italiano che iniziò nel 1267: la prima lo portò in Toscana, stabilendosi nella grande roccaforte ghibellina di Pisa; la seconda invece prevedeva la presa di Roma e la terza ed ultima riguardava invece la riconquista del regno dell’Italia meridionale. Egli non ebbe eccessivi problemi fino al luglio del 1268, quando entrò nella città sede del papato che si rifugiò a Viterbo ed il presidio di quell’insediamento urbano venne affidato al conte Guido in persona in qualità di vicario.
In precedenza il 26 giugno 1268, poco prima della conquista di Roma, Guido stesso aveva distrutto nel territorio aretino a Ponte a Valle un grande distaccamento angioino al comando del maresciallo di Braiselve. Questo fatto, proprio come la successiva presa di Roma, erano grandi segnali di un esito favorevole della discesa di Corradino in Italia: sebbene ben presto essa sarebbe finita tragicamente ed avrebbe portato all’estinzione della dinastia sveva.
Ancor prima sia del giugno del 1268 sia del tragico finale delle vicende di questo giovane re di Germania, il 5 aprile di tale anno, il conte Guido era stato ufficialmente scomunicato da papa Clemente IV insieme a tutti gli altri ghibellini italiani.
Tornando a Corradino, nell’agosto del 1268 venne sconfitto dalle truppe angioine a Tagliacozzo. Dopo la disfatta subita cercò di ritornare a Roma, ma il conte Guido si rifiutò di farlo entrare in città. Infatti sapeva che là il giovane re tedesco sarebbe stato facilmente catturato dai guelfi che ormai stavano riprendendo il controllo della situazione. Agendo in tale modo sperava di riuscire ad indirizzarlo verso la costa nella speranza che potesse raggiungere Pisa e riorganizzare laggiù le sue truppe. Comunque ciò si rivelò vano, perché alla fine Corradino non riuscì a sfuggire alla cattura ed in seguito all’esecuzione pubblica.
Nel frattempo Guido, dopo aver consegnato il campidoglio per quattromila Fiorini a Jacomo Cantelmo vicario del vittorioso monarca angioino, tornò ad Urbino. Sebbene fosse finito fra i ghibellini sconfitti, nella sua casata ci fu anche chi si trovava dalla parte dei vincitori guelfi: cioè suo cugino Taddeo Novello.
In questo periodo il ghibellinismo sembrava definitivamente sconfitto ed i guelfi e gli angioni apparivano come i padroni dell’intera Italia, però la situazione mutò sul finire dell’anno. Infatti il 29 novembre 1268 morì papa Clemente IV. Il conclave che ne seguì fu lungo e la Chiesa sembrò paralizzata, perché non tutti i cardinali erano filo-angioini ed una numerosa parte di loro era di ideali favorevoli al ripristino dell’autorità imperiale nella penisola italiana. In questo modo i ghibellini poterono godere di un periodo relativamente tranquillo per potersi riprendere dal disastro subito.
Comunque non si giunse immediatamente ad una cessazione delle guerre, infatti il conte Guido aiutò nell’estate del 1270 i ghibellini della Toscana meridionale, ottenendo il risultato di evitarne l’annientamento e di conquistare Gavorrano. Il 20 giugno 1271 Guido, che nel frattempo era già tornato ad occuparsi delle vicende della zona romagnolo-marchigiana, venne fatto prigioniero da Malatesta da Verrucchio, noto anche come Malatesta da Rimini, a seguito della battaglia di Monteluro. Non è ben certo né come né quando egli fu liberato, ma il conte in persona attribuì questo fatto all’intercessione di San Francesco di cui era devotissimo.
Per poco meno di tre anni la sede pontificia fu vacante finché nell’anno in questione, il 1271, divenne papa l’italiano Gregorio X. Il nuovo pontefice cercò di fare una politica di pacificazione fra guelfi e ghibellini, anche per tentare di ridimensionare il potere angioino sul territorio italiano, che alla lunga avrebbe potuto creare un problema per gli interessi territoriali del papato stesso. Infatti promosse la fine della vacanza regio-imperiale, che durava dall’estinzione della dinastia sveva nel 1268, promovendo la nomina di Rodolfo d’Asburgo ad imperatore designato.
In ogni caso non fu quel papa che riuscì a calmare i conflitti fra le due opposte fazioni, considerando che la nuova nomina imperiale riaccese gli animi dei sostenitori del detto monarca. Il rettore della Chiesa romana si limitò, prima il 9 maggio 1272 con il suo vicario spirituale maestro Guglielmo di San Lorenzo e poi il 15 marzo 1274 da Lione dove aveva indetto un concilio, ad ammonire i fautori del ghibellinismo, come il conte Guido, a non commettere più atti violenti contro i guelfi.
La città di Forlì, che aveva un ottimo ricordo di quando Guido stesso comandava i suoi contingenti all’interno dell’esercito di Federico II, lo richiamò per affidare a lui la sua difesa. Fu così che egli, al comando delle truppe forlivesi, il 19 aprile 1274 conquistò Faenza scacciandovi i sostenitori del guelfismo. Inoltre il 13 giugno 1274 ci fu la vittoria ghibellina di San Proclo in cui l’esercito filo-imperiale uscito da Faenza riuscì, grazie ad uno stratagemma del conte Guido e sebbene fosse in inferiorità numerica, ad accerchiare e distruggere quello guelfo bolognese. Quest’ultimo era comandato dallo stesso Malatesta che aveva catturato nel 1271 Guido in persona, che ora si vendicò per l’umiliazione subita.
Come conseguenza di questa schiacciante vittoria, i ghibellini del detto da Montefeltro si impossessarono di Cervia e delle sue saline, che erano una delle risorse naturali più economicamente importanti di tutta la Romagna, per poi puntare su Cesena che venne presa il 3 settembre 1274. Dopo San Proclo i ghibellini erano quindi stati in grado di costituire un vasto asse territoriale in loro possesso che comprendeva la Romagna, il Montefeltro ed una parte della Toscana sia del sud che del nord.
Approfittando della situazione favorevole, l’imperatore designato Rodolfo il primo novembre 1275 mandò in Romagna un suo vicario accompagnato da una sua delegazione plenipotenziaria. Lo fece allo scopo di ottenere dalle città il giuramento di fedeltà nei suoi confronti. Questo fatto inizialmente rimise in subbuglio l’Italia centrale e settentrionale, incrementando sempre più le speranze ghibelline.
Gregorio X morì ad Arezzo il 10 gennaio 1276 ed il 25 novembre 1277, dopo i brevissimi pontificati Innocenzo V, Adriano V e Giovanni XXI, salì al soglio pontificio Niccolò III anch’egli di nazionalità italiana. Il nuovo papa continuò con la politica di Gregorio X.
Il 14 novembre 1278 a Civitella il conte Guido Da Montefeltro riuscì a fermare un grande esercito guelfo, messo in campo per cercare di riconquistare le città perse in Romagna dopo San Proclo. Questa schiacciante vittoria consolidò nuovamente la sua autorità come capo militare del ghibellinismo italiano e dimostrò, ancora una volta, la superiorità della fazione filo-imperiale.
In precedenza il pontefice allo scopo di placare gli animi dei ghibellini della Toscana e della Romagna aveva fatto in modo che Rodolfo, con il cavillo che era un imperatore solo designato e non ancora incoronato da nessun successore di San Pietro, dichiarasse nulli i giuramenti dei suoi sostenitori. Allora i nobili guelfi giurarono fedeltà alla Chiesa, a nome delle città romagnole che governavano ed il papa prese possesso di esse tramite un suo vicario, a cui dette il titolo di Conte di Romagna. Comunque in questo clima di pacificazione generale anche i ghibellini fecero quel giuramento, come il conte Guido che lo fece il primo settembre 1278, e la Romagna venne ceduta alla Chiesa. Inoltre, rispettivamente il 16 ed il 24 di quello stesso mese ed anno, il re Carlo d’Angiò dovette rinunciare su richiesta pontificia alle sue cariche di Senatore di Roma e di vicario imperiale per la Toscana.
Il 31 gennaio 1279 la pacificazione in questione continuò. Infatti Latino in quanto cardinale legato e Bertoldo come Conte di Romagna, loro che erano i due nipoti papali entrambi appartenenti alla nobile famiglia romana degli Orsini proprio come Niccolò III, entrarono a Faenza e vi fecero tornare anche i guelfi che erano stati scacciati da là. Successivamente, il 2 febbraio 1280, essi indissero un grande banchetto nel palazzo pubblico faentino ed il conte Taddeo Novello era là presente fra i maggiori nobili guelfi. Vi parteciparono pure i più importanti esponenti del ghibellinismo, come il conte Guido da Montefeltro che dal 25 settembre 1278 non era più scomunicato. In questo modo venne raggiunta una tregua fra le due parti in lotta e ci fu la pacificazione della Romagna, che si estese a tutta l’Italia centrale e settentrionale.
Comunque questa soluzione fu di breve durata, poiché il 22 agosto 1280 morì Niccolò III. Le ostilità in Romagna ricominciarono, anche in considerazione del fatto che il nuovo papa fu il francese Martino IV che ruppe la linea politica di pacificazione dei suoi due predecessori. Così facendo tutti i risultati positivi raggiunti in precedenza furono perduti. Inoltre si ricreò l’asse compatto, in funzione antighibellina, fra la Chiesa e Carlo I d’Angiò.
La resistenza filo-imperiale si concentrò a Forlì. Infatti Faenza era andata perduta il 13 novembre 1280 ed i ghibellini, con a capo Guido da Montefeltro ed in conseguenza del profondo indebolimento subito a causa della pace generale ottenuta dal pontefice della casata degli Orsini, ora controllavano un territorio che oltre alla detta città comprendeva Forlimpopoli, Cesena, Cervia, Bertinoro, Urbino ed il Montefeltro.
I guelfi nell’estate del 1281 condussero una non brillante campagna militare non riuscendo a conquistare Cesena ma ottenendo, come unico risultato positivo, il riuscire ad isolare Forlì dove il conte Guido resisteva strenuamente. Fu proprio in quella città che in seguito si compì una grande tragedia per la fazione guelfa.
Comunque riguardo a Guido stesso, prima di tornare agli eventi che si svolsero sul campo di battaglia, bisogna dire che il 26 marzo 1282 Martino IV lo scomunicò nuovamente.
Nella primavera del 1282 visto che l’esercito angioino-ecclesiastico non riusciva ad imporsi sebbene fosse nettamente in superiorità numerica, i guelfi decisero di tentare la sorte in una battaglia campale presso Forlì. Fu così che il primo maggio 1282 vennero massacrati.
Questo evento, in cui morì anche il conte Taddeo Novello che era a capo delle truppe della

Chiesa, è conosciuto pure con il nome dantesco di “sanguinoso mucchio” 5.
Nell’immediato questa vittoria ghibellina indebolì gli Angioini così tanto da permettere al re d’Aragona Pietro III, che era in stretto contatto con il conte Guido da Montefeltro, di sottrargli la Sicilia nell’ottobre dell’anno in questione. Però in quello successivo la situazione mutò nuovamente ed i guelfi ripresero vigore.
L’8 gennaio 1283 Martino IV ordinava alle popolazioni marchigiane di non aiutare assolutamente i ghibellini ed il conte Guido. Rispettivamente il 15 aprile ed il 27 maggio, riprese e ribadì i processi e le sentenze che aveva già espresso l’anno precedente contro i nemici della Chiesa. Inoltre, sempre durante quella primavera, il pontefice mandò in Romagna un nuovo e più cospicuo esercito.
Il 5 maggio 1283 Forlì si arrese ai guelfi, seguita da Cesena nel corso del mese seguente. Dopo circa otto anni di signoria su quelle due città, il conte Guido dovette abbandonarle e rifugiarsi ad Urbino. Fu là che si riorganizzò la resistenza filo-imperiale. La situazione era molto grave per coloro che sostenevano il ghibellinismo. Infatti anche Orvieto, Rimini, Jesi, Cagli, Fano, Fossombrone, Pesaro, la Marca di Ancona, la Massa Trabaria ed altri territori del Montefeltro come San Leo, erano ormai diventati ostili per loro.
Ad Urbino c’era instabilità interna, poiché una parte dei notabili provò a trattare con la Chiesa, ma senza che si arrivasse ad un cambiamento della fazione dominante in città ed essa rimase fedele al suo Conte.
Nell’autunno del 1283 Guido di Monfort fu inviato dal monarca angioino nelle Marche per combattere contro Urbino. Nel giugno del 1284 gli Urbinati riuscirono comunque a respingere gli assedianti guelfi e lo sconfitto conte Guido di Montfort lasciò le Marche per occuparsi dei diritti della moglie sui beni del suo defunto suocero.



5 Per quanto riguarda questa espressione, si veda il v. 44 del canto XXVII dell’”Inferno” di Dante, p.389 di Dante Alighieri, “La Commedia”, “Inferno”, a cura di Bianca Garavelli e con la supervisione di Maria Corti, “Bompiani”, Milano, 2003.
Tra la fine del 1284 e l’inizio del 1285, per iniziativa pontificia, la guerra si inasprì ancora. I guelfi mobilitarono nuove truppe, ma il conte Guido non venne sconfitto.
La situazione mutò nel corso del 1285 con le morti dei due maggiori sostenitori del guelfismo. Infatti il 6 gennaio ci fu il decesso del re Carlo I d’Angiò, seguito il 29 marzo da quello del papa Martino IV avvenuto a Perugia. Il 2 aprile 1285 Onorio IV divenne il nuovo successore di San Pietro. Egli apparteneva ad una famiglia ghibellina ed era un moderato di natura. Sia lui che Carlo II d’Angiò, il nuovo re dell’Italia meridionale, fecero sì che la guerra gradualmente giungesse al termine e ci fu anche la capitolazione di Urbino 6.

I.1.6: Il conte Guido da Montefeltro dopo la sua venuta a Pisa

Dal marzo del 1289 al luglio-settembre del 1293 il conte Guido da Montefeltro stette a Pisa. Questa è la sua venuta nella città pisana e di essa, come anche degli eventi che la introducono e che sono da collocarsi fra i mesi di aprile del 1285 e di marzo 1289, parleremo in seguito e rispettivamente nel prossimo capitolo e nella seconda parte di questo elaborato. Per ora salteremo tale argomento per passare invece a ciò che il detto conte fece nell’ultima parte della sua vita, dopo il suo ritorno da Pisa.
Tornato nella zona fra le Marche e la Romagna egli aveva perso i suoi possedimenti, compresa Urbino. Però la sua signoria su Pisa gli aveva garantito abbastanza ricchezze in modo da poter pagare le sue truppe montefeltrane e da essere in grado di disporre di un esercito regolare e non di una banda di banditi.
Fu così che nel tardo mese di agosto del 1293 riuscì a conquistare la città di Cagli. Infatti Guido aveva conseguito questo risultato grazie all’aver mantenuto molte amicizie di lunga data con coloro che erano di ideali ghibellini fra le famiglie nobili, i militi ed i mercanti romagnolo-marchigiani che, sia in passato sia ora, lo avevano sostenuto ed aiutato.


6 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.5, si vedano i capitoli IV-VII di: Gino Franceschini, “I Montefeltro”, Varese, 1970, “dall’Oglio editore”, pp. 46-120.
Entro la primavera del 1294 Urbino, città in cui era ancora fortissimo il ricordo e la nostalgia della grandezza dei conti montefeltrani, venne ripresa. Poco tempo dopo, il 18 giugno 1294, il Podestà di Cesena Malatestino Malatesta forte del suo esercito composto da milizie cesenate, riminesi e della Marca di Ancona, tentò vanamente di assediare Urbino. Infatti i da Montefeltro, dopo aver respinto l’attacco nemico, furono in grado di conquistare il 6 agosto 1294 Pesaro. Essi erano guidati da Galasso e Corrado, rispettivamente cugino ed ultimogenito di Guido.
Facendo un passo indietro, il 5 luglio 1294 ci fu l’elezione dell’eremita Pietro di Morrona al soglio pontificio con il nome di Celestino V. Il carisma di santità che emanava fu tale da indurre il conte Guido, ormai vecchio e stanco delle guerre, ad andare alla sua incoronazione papale all’Aquila. Laggiù, oltre a fare atto di umiliazione e di sottomissione al nuovo successore di San Pietro, manifestò anche la sua volontà di farsi frate. Questo suo desiderio si sarebbe compiuto solo negli anni successivi, ma intanto ciò bastò ad allontanarlo sempre più dalla vita mondana. Infatti il suo posto di irriducibile ghibellino a capo dei da Montefeltro fu preso dal conte Galasso che, aiutato dal nipote Corrado, fu appunto colui che si impossessò di Pesaro.
Inoltre da quel momento in poi la presenza del conte Guido divenne un deterrente contro i nemici, a cui il solo ricordo delle sue gesta incuteva una grande paura, ed una fonte di immensa stima e venerazione per gli alleati. Però le effettive operazioni militari vennero svolte quasi totalmente da Galasso e dagli altri membri della stirpe.
Guido il primo ottobre 1294, con il consenso di Carlo II re di Napoli, andò da Urbino fino alla Curia. Venne così assolto dalla scomunica e da tutte le altre sentenze ecclesiastiche contro di lui, diventando in questo modo amico della Chiesa.
Però il 13 dicembre 1294 il papa abdicò ed il 24 dello stesso mese ed anno ci fu la successione di Bonifacio VIII. Questo fatto rimise parzialmente in discussione la situazione.
Il 28 marzo 1295 il nuovo pontefice fece in modo che, per ciò che riguardava il conte Guido insieme ai suoi parenti ed ai suoi sostenitori, venisse ribadito il loro proscioglimento da ogni provvedimento che li avesse colpiti. Inoltre, sempre in tale data, i da Montefeltro restituirono alla Chiesa tutte le terre facenti parte dei loro possedimenti e che spettavano ad essa. In seguito, il 30 luglio di quell’anno, Guido andò a Cesena per essere reintegrato ufficialmente dal legato pontificio nel pieno possesso dei suoi beni sia allodiali che feudali.
Nonostante si fosse totalmente riappacificato con la Chiesa, il conte Guido rimase interessato alla sorte dei suoi vecchi amici ed alleati ghibellini, come i Parcitadi di Rimini. Il 3 luglio 1295 quella fazione riminese, grazie alla mediazione dell’arcivescovo di Monreale che era il conte di Romagna per volere ecclesiastico, aveva fatto pace con i Malatesta. Ciò durò comunque ben poco a causa dei Malatesta, tanto che il detto conte voleva punirli per aver infranto le condizioni della pacificazione. Però questo provvedimento non venne messo in atto, anche perché Bonifacio VIII sostituì il conte di Romagna nominando Guglielmo Durand.
Ne conseguì che per i Parcitadi la situazione si fece pericolosa. Infatti il conte Guido da Montefeltro arrivò in loro aiuto con le sue truppe. Fu però tutto vano poiché i Parcitadi, credendo ad una finta proposta di pace della fazione malatestiana, mandarono via i soccorsi e vennero sopraffatti dai loro nemici ed i sopravvissuti furono espulsi da Rimini.
In questa fase, dopo la pacificazione con la Chiesa, il conte Guido non era più interessato a conquistare la Romagna ed a lottare contro i guelfi, ma voleva pacificarla e cercava di impedire che il ghibellinismo fosse fatto del tutto sparire sottomesso dal guelfismo che si era imposto. Il caso dei Parcitadi è un esempio di ciò.
Il 26 gennaio 1296 il papa convocò con tutti gli onori Guido a Roma e lì gli diede dei suggerimenti per compiere il suo desiderio di darsi alla vita religiosa, lasciandolo libero di scegliere l’ordine in cui entrare. Il conte scelse i Frati Minori di San Francesco, santo a cui era da sempre devotissimo.
Prima che questa volontà avesse il suo esito positivo, ci furono altri rappacificamenti: come il fatto che il 15 febbraio 1296 Pisa venne prosciolta dal pontefice da tutti i provvedimenti passati contro di lei, dovuti alla venuta in città del da Montefeltro in questione.
Il 17 novembre 1296 il conte Guido divenne infine ad Ancona uno dei frati minori francescani. Fece anche due pellegrinaggi, uno sulla tomba di San Francesco ad Assisi e l’atro a Roma su quella degli Apostoli.
Ad ancona il 29 settembre 1298 Guido da Montefeltro morì, dopo circa due anni passati in modo molto pio per espiare le sue colpe. In quella stessa città venne poi sepolto. Comunque in seguito le sue spoglie vennero spostate due volte: prima nella chiesa di San Francesco ad Urbino e poi nel 1443 nel sacello di San Donato nell’odierna chiesa di San Bernardino dove c’è il mausoleo della sua casata 7.

I.1.7: Dante e la leggenda del conte Guido da Montefeltro

Dante colloca il conte Guido da Montefeltro nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno, ovvero fra i consiglieri fraudolenti. Questa è una ripresa della leggenda che si era formata a seguito del suo incontro, successivo al suo esser diventato un frate francescano, con Bonifacio VIII. Fatto accaduto durante il secondo pellegrinaggio che fece poco prima di morire.
Si racconta che in quella occasione il pontefice gli abbia chiesto un consiglio su come riuscire a sottomettere con l’inganno la città di Palestrina che resisteva all’assedio delle sue truppe. Guido gli disse come fare e questa è la ragione che spiega la detta collocazione dantesca all’interno della prima cantica della sua “Commedia”.
Questo consiglio non è storicamente provato, nonostante lo sia l’incontro fra loro due in cui sarebbe inserito, inoltre la leggenda secondo la quale avvenne è sicuramente anteriore a Dante e non una sua invenzione.
Ora, prima di tornare a questo aspetto, analizzeremo l’intero canto XXVII dell’”Inferno” di



7 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.6, si vedano i capitoli VIII-XI di: Gino Franceschini, “I Montefeltro”, Varese, 1970, “dall’Oglio editore”, pp. 121-162. Inoltre, per ciò che concerne il detto paragrafo e quelli che lo hanno preceduto, si vedano le voci relative al termine Montefeltro in: “Enciclopedia dantesca”, volume 3, Roma, 1984 (seconda edizione riveduta), “Istituto della Enciclopedia italiana”, pp. 1016-1021.
Dante. In questo modo analizzeremo la maniera in cui il poeta in questione descrive la figura del conte Guido e le vicende che lo riguardano. Inoltre ne parleremo a questo punto perché in tale testo non viene mai fatto riferimento alla venuta a Pisa di quel personaggio.
Dopo aver parlato con Ulisse, Dante e Virgilio vengono chiamati dall’anima di un altro peccatore che è anch’egli, proprio come l’eroe omerico con cui condivide il tipo di peccato e quindi di pena, condannato a bruciare all’interno di una fiamma eterna. Costui, riconoscendo dal modo di parlare del poeta fiorentino che proviene dall’Italia centro-settentrionale ed ipotizzando che sia finito recentemente all’inferno, gli chiede le ultime notizie riguardanti la Romagna:

“Già era dritta in su la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quando un’altra che dietro a lei venia,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.
[…]
udimmo dire: <<O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,
perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restar a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
Caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e’l giogo di che Tever si diserra>>” 8.




8 Per quanto riguarda questo brano, si vedano i vv. 1-6 e 19-30 del canto XXVII dell’”Inferno” di Dante, pp.386-388 di Dante Alighieri, “La Commedia”, “Inferno”, a cura di Bianca Garavelli e con la supervisione di Maria Corti, “Bompiani”, Milano, 2003.
Allora Dante su indicazione di Virgilio, siccome questa è un’anima italiana, gli risponde personalmente. Gli dice che, sebbene attualmente non sia in corso alcuna guerra, la Romagna non è in pace, poiché è dominata da tiranni guerrafondai. Inoltre aggiunge che Ravenna è ancora dominata dai da Polenta, il cui potere si è esteso anche su Cervia. Invece Forlì è sotto la signoria degli Ordelaffi. Riguardo a questa città viene ricordato il fatto che in precedenza ci fosse stato un grande massacro delle truppe francesi e, per indicare ciò, viene usata l’espressione “sanguinoso mucchio” 9.
Poi aggiunge che Rimini era stata conquistata dai due da Verrucchio, Malatesta e Malatestino, che l’avevano tolta slealmente al ghibellino Montagna dei Parcitati da loro ucciso a tradimento. Faenza ed Imola erano governate da Maghinardo Pagani da Susinana, il quale era solito cambiare repentinamente e spesso fazione, sostenendo i guelfi oppure i ghibellini a seconda di come era più comodo per i suoi interessi. Infine Cesena viene ricordata come una città che vive sospesa fra momenti d’indipendenza ed altri di signoria di un qualche nobile romagnolo definito tiranno, termine usato in precedenza anche per tutti gli altri signori della Romagna:

“Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: <<Parla tu; questi è latino>>.
E io, ch’avea già pronta la risposta,
senza indugio a parlare incominciai:
<<O anima che se’ là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
senza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova



9Per quanto riguarda questa espressione, si veda la nota 5 di questo stesso elaborato.
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E’l mastin vecchio e’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
Conduce il lioncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu’il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra’l piano e ‘l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.” 10

Successivamente, Dante chiede all’anima di presentarsi e di raccontargli la sua vita. Si viene così a sapere che è il conte Guido da Montefeltro, il quale accetta di raccontare di sé perché dà per scontato che anche Dante sia un dannato come lui e, siccome chi è stato condannato a stare all’inferno non può uscirne, non teme che possa infangare la sua reputazione raccontando quello che sta per dirgli una volta che sia tornato nel mondo terreno. Infatti Guido ha lasciato là il ricordo di sé come di un uomo morto in stato di santità, grazie alla sua scelta di trascorrere gli ultimi anni della sua vita da frate francescano, dopo essersi riconciliato con la Chiesa.
Il Conte inizia a parlare di sé presentandosi come un capo militare che ha compiuto grandi imprese d’armi che lo hanno portato ad avere la fama mondiale di grandissimo condottiero, ma dice di aver conseguito questi risultati più con l’inganno che con il coraggio.
In seguito si fece frate francescano e si tenne lontano dagli inganni che lo avevano contraddistinto, almeno finché il papa non lo fece ripiombare in essi con il consiglio fraudolento che gli estorse su come vincere con l’inganno la resistenza del popolo di Palestrina.


10 Per quanto riguarda questo brano, si vedano i vv. 31-54 del canto XXVII dell’”Inferno” di Dante, pp.389-390 di Dante Alighieri, “La Commedia”, “Inferno”, a cura di Bianca Garavelli e con la supervisione di Maria Corti, “Bompiani”, Milano, 2003.
Bonifacio VIII, per avere la meglio sulle resistenze del frate, gli disse che in quanto pontefice aveva ereditato le chiavi del paradiso e quindi la facoltà di cancellare il peccato che stava per fargli commettere.
Promettere tanto e mantenere poco fu il consiglio fraudolento che, nonostante le rassicurazioni pontificie, provocò la definitiva condanna del vecchio conte. Infatti, quando morì, San Francesco venne a prendere la sua anima per portarla con sé in paradiso. Però un diavolo che si definì un logico, ovvero un filosofo, lo fermò. Grazie al fatto che il pentirsi di un peccato per poi ricadervi contravveniva al principio aristotelico di non contraddizione, riuscì a portare lo spirito del conte all’ìnferno dove il giudice Minosse stabilì la sua condanna:

“Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se il nome tuo nel mondo tenga fronte>>.
[…]
<<S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria senza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
senza tema d’infamia ti rispondo.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venia intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come a quare, voglio che m’intenda.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però swon due le chiavi
che ‘l mio antecessor non ebbe care”.
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ‘ve ‘l teacer mi fu avviso ‘l peggio,
e dissi: ”Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar ne l’alto seggio”.
Francesco venne poi com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar; non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra’miei meschini
perché diede ‘l consiglio frodo lente,
dal quale in qua stato li son a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.
Oh me dolente! Come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi!”.
A Minos mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando mi rancuro>>” 11.

Come si può vedere da tutti i brani citati, Dante inizia descrivendo la situazione politica delle città della Romagna. Lo fa a volte nominando quegli insediamenti urbani ed altre alludendovi attraverso il ricordo di qualche evento importante che vi è successo oppure per mezzo dei fiumi che le bagnano. La stessa cosa avviene con i nomi dei signori che le governano, visto che vengono identificati con gli stemmi araldici delle loro casate e solo in alcuni casi ne vien fatto il nome.
Successivamente si passa al ritratto del conte Guido, il cui nome non viene comunque esplicitamente riferito. Egli viene presentato principalmente come un uomo dedito agli inganni, sebbene fosse un grande condottiero militare.






11 Per quanto riguarda questo brano, si vedano i vv. 55-57 e 61-129 del canto XXVII dell’”Inferno” di Dante, pp.391-398 di Dante Alighieri, “La Commedia”, “Inferno”, a cura di Bianca Garavelli e con la supervisione di Maria Corti, “Bompiani”, Milano, 2003.
Infine, dopo il detto brevissimo accenno alla parte più lunga della sua vita, si passa subito ai suoi ultimi anni quando si fece frate francescano. Questo è soprattutto un modo per parlare male di Bonifacio VIII, il pontefice odiatissimo da Dante, in quanto fu l’artefice del suo esilio da Firenze.
Infatti il Conte gli augura ogni male, lo chiama capo dei nuovi Farisei e dice che gli ha chiesto il consiglio fraudolento per combattere contro altri cristiani e non con gli islamici: cosa che invece sarebbe stata più onorevole per il capo della cristianità occidentale. Inoltre il papa, per raggiungere il suo scopo e soddisfare le sue grandissime ambizioni, arriva anche a promettere ciò che non può mantenere ed a servirsi di una facoltà spirituale che non possiede.
Nel complesso da questo canto emerge un ritratto negativo del conte Guido che viene visto come un ingannatore che a sua volta viene ingannato in due occasioni: prima in vita da Bonifacio VIII che gli garantisce vanamente di salvare la sua anima, poi da morto da Dante stesso che non gli dice di non essere un dannato e che quindi sarebbe tornato nel mondo terreno a tramandare il racconto che Guido gli ha fatto e che può infamare la sua memoria 12.





















12 Per quanto riguarda il paragrafo I.1.7, si veda la voce relativa a Guido da Montefeltro in: “Enciclopedia dantesca”, volume 3, Roma, 1984 (seconda edizione riveduta), “Istituto della Enciclopedia italiana”, pp. 1020-1021.
Capitolo I.2

Pisa nel XIII secolo, prima della venuta del conte Guido

I.2.1: Pisa nel XIII secolo: i caratteri generali

Pisa iniziò il XIII secolo come un Comune governato da un’elite piuttosto ristretta che era l’aristocrazia consolar-podestarile, la quale si era stabilizzata sul finire del XII secolo. Essa era composta da famiglie nobili di antica origine feudale, ma anche da altre di ascendenza molto meno illustre e che erano salite alla ribalta nel precedente secolo. La pratica delle armi nei posti di comando soprattutto nell’ambito della cavalleria comunale, insieme all’esercizio del commercio marittimo erano elementi d’unione di un ceto sociale così eterogeneo.
Come in altre città, per Pisa quello era il periodo del passaggio dal Comune consolare a quello podestarile. Infatti vi era l’alternanza fra i Podestà forestieri, quelli cittadini ed i collegi consolari. Tutti costoro erano affiancati dal Senato, che era un organo consultivo in cui le famiglie della detta classe sociale erano libere di esercitare la loro influenza politica.
Inoltre vi era un’assemblea della popolazione urbana, convocata in base alla divisione della città in quattro zone corrispondenti alle sue principali porte. Essa affiancava il Senato in occasioni di rappresentanza, come la dichiarazione di una guerra o la stipula di una pace.
Comunque, nella seconda metà del XIII secolo, quest’assemblea sarebbe passata da ventiquattro a quattrocento cittadini e vi sarebbero confluiti anche i senatori ed i rappresentanti delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri. In questa fase, quella del Comune del Popolo, essa avrebbe quindi assunto una grande importanza e grandi poteri.
Ne conseguì che, sul finire di quel periodo di cento anni, l’elite al potere a Pisa cambiò radicalmente: con famiglie senza più alcun legame di parentela con le persone più illustri d’inizio secolo e salite alla ribalta quasi sempre solo nella seconda metà di quello. Perciò il controllo della città passò da una classe di cavalieri e mercanti-armatori, ad una di mercanti e banchieri.
Le istituzioni erano inoltre diventate più complesse, con l’aggiunta di nuove cariche: il Capitano del Popolo che era anch’egli generalmente un forestiero, ed il Collegio degli Anziani del Popolo che era formato da dodici cittadini eletti sulla base dell’innovativa divisione urbana in quartieri e non più in base alle porte civiche. Questo era un organo che svolgeva le principali funzioni di governo e che era affiancato da un vasto sistema di Consigli, composti da un numero variabilmente alto o basso di Pisani provenienti dalle corporazioni o dalle società rionale oppure, anche in questo caso, dall’ambito dei vari quartieri. Così si era arrivati sia ad un incremento notevole della partecipazione degli abitanti alla vita politica rispetto al passato, sia alla creazione di una struttura in grado di fare in modo che il Popolo potesse perpetuamente controllare il Comune pisano.
Nel complesso il XIII secolo fu per Pisa il periodo delle maggiori, più estese e più radicalmente profonde trasformazioni politico-istituzionali di tutta la sua storia come Comune indipendente.
Questo processo di mutamento fu rapidissimo e concentrato negli anni di passaggio fra le due metà del secolo in questione.
Una causa di questo cambiamento va ricercata nella diversa situazione economica europea rispetto al passato.
All’inizio del Duecento gli scambi commerciali iniziarono a spostarsi sempre più verso il nord Europa, con l’affermarsi delle fiere dello Champagne. Questo fatto, siccome quei luoghi erano raggiungibili solo per via di terra, favorì le città dell’interno a discapito di quelle costiere e ciò influì anche su Pisa. Infatti la vecchia aristocrazia consolar-podestarile che la controllava non seppe adattarsi a tale mutamento, rimanendo legata ai commerci marittimi in ambito Mediterraneo. Invece la città era ora un centro di servizi e scambi economici ed una piazza commerciale.
In questa rinnovata situazione si era formato, seguendo il modello fiorentino, un ceto di mercanti-banchieri che traeva vantaggio dalla presenza nei confini urbani dei loro colleghi stranieri. Costoro furono quelli che, intorno alla metà del secolo, promossero il passaggio al Comune di Popolo e che furono i primi a rivestire la carica di Anziano.
Comunque nel tardo Duecento, sebbene si mantenne sempre il regime popolare, la classe dirigente che lo aveva instaurato venne meno e ci fu l’affermazione di nuove famiglie ancor più delle precedenti acculturate al modello economico fiorentino.
Fu l’estate del 1288 a modificare la situazione. Infatti allora avvenne la rivolta aristocratica, promossa dall’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini, che travolse la signoria del conte Ugolino della Gherardesca e di Nino Visconti. Prima l’arcipresule ed
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