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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-03232015-210643


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
RENUCCI, BENEDETTA
URN
etd-03232015-210643
Titolo
LA FINALITA' RIEDUCATIVA DELLA PENA DETENTIVA NELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE - TRA MISURE ALTERNATIVE E SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Dott. Bresciani, Luca
Parole chiave
  • rieducazione
  • pena
  • misure alternative
  • sovraffollamento
Data inizio appello
13/04/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
Il dettato costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, III comma Cost.) rappresenta il fulcro del lavoro che segue. Questo è il presupposto essenziale e irrinunciabile da cui si deve muovere quando si parla di pene e delle loro funzioni. È , appunto, proprio al fine di perseguire la finalità rieducativa, spesso indicata anche come risocializzazione del condannato, che il sistema sanzionatorio, soprattutto nella fase esecutiva, diventa flessibile, ponendo al centro dell’ attenzione l’individualizzazione del trattamento penitenziario e la sua progressività, per favorire la personalità del reo.
Nel primo capitolo si cercherà di analizzare come il concetto di pena si sia sviluppato nel dibattito filosofico e penalistico, oltre che nella storia. E con riferimento alle finalità che essa deve svolgere, particolare attenzione sarà dedicata a quella rieducativa.
Dopo un sintetico sguardo d’insieme alle disposizioni presenti nella nostra Carta costituzionale che trattano della pena, in particolar modo il principio di umanizzazione, ci concentreremo sulla disposizione che maggiormente suscita la nostra attenzione ovvero il principio del finalismo rieducativo.
Giungendo,così, al terzo capitolo, all’interno del quale l’elaborato si occuperà di ripercorrere, attraverso le sentenze del Giudice delle leggi, il cammino compiuto dal principio rieducativo e le diverse interpretazioni che ne sono state date: partendo da una iniziale valorizzazione della natura polifunzionale della pena, che però, al contempo, ne riduce la portata rieducativa; fino a giungere, dal 1990 in poi, alla massima espansione del finalismo rieducativo. Considerare la funzione della pena nella giurisprudenza della Corte, significa analizzare le motivazioni in diritto ovvero le idee di fondo che stanno alla base dell’insieme delle decisioni della Consulta, per evidenziare il percorso evolutivo che la stessa ha compiuto. Prendendo le distanze dall’originaria concezione polifunzionale della pena, in cui finalità retributive, di prevenzione speciale e prevenzione generale erano sostanzialmente equiparate si conclude con l’esaltare la finalità di risocializzazione, come fine principale, ineludibile della pena stessa, che non può mai essere completamente sacrificata a vantaggio di atre e diverse funzioni.
Nel quarto,e ultimo capitolo, spostandosi dal piano della pena astrattamente intesa a quello della sua concreta esecuzione, si osserva, anzitutto, come le misure alternative alla detenzione siano state introdotte dalla legge di Ordinamento penitenziario nel chiaro intento di conformare la disciplina al principio costituzionale della rieducazione. Non solo, ad una valorizzazione di queste è stato altresì affidato il compito di ridurre quantomeno quell’opprimente disagio del sovraffollamento che da tempo caratterizza le nostre carceri.
In effetti, specie gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati segnati – come è noto - da un notevole aumento della popolazione presente negli istituti di pena e la drammatica situazione carceraria che si è andata creando è sembrata ascrivibile ad una consistente stratificazione di interventi legislativi ispirati ad una visione “repressiva” e “carcerogena”, che si è concretizzata con un ricorso sempre maggiore alla pena detentiva. E ciò altro non indica che l’inefficienza dello Stato rispetto ad una delle sue funzioni primarie, ossia quella repressiva e rieducativa. Andando ad analizzare gli istituti di pena è possibile riscoprire l’illegittimità e l’intollerabilità delle condizioni detentive, che risultano in contrasto con i principi affermati dalla nostra Carta costituzionale. E quindi di fronte ad una tale situazione viene spontaneo chiedersi come sia possibile che una persona costretta a stare come non dovrebbe, possa essere aiutata a rieducarsi. Com’è possibile compiere un’opera di rieducazione se in una situazione di sovraffollamento non si fa altro che tirare fuori il peggio delle persone e non il meglio? Come si può ipotizzare un programma di risocializzazione quando il detenuto è costretto in una reclusione che va al di là dell’umanamente sopportabile? Come si può parlare di rieducazione se viene meno il rispetto della dignità umana?
Questa situazione ha suscitato “interesse” anche nei confronti della la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato il nostro ordinamento per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, che tutela la dignità umana, in relazione ad una situazione carceraria che presenta connotati non più tollerabili.
Preso atto di ciò, come ci ha chiarito la Corte di Strasburgo, i giudici interni hanno sollecitato una pronuncia della Corte costituzionale. Ad essere censurato dai giudici rimettenti è stato l’art. 147 c.p., nella misura in cui non prevede un’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena che avvenga in condizioni tali da recare offesa alla dignità umana. Di qui la richiesta, per l’appunto, di un intervento additivo da parte della Corte costituzionale che fosse capace di colmare una lacuna ritenuta lesiva di molteplici parametri costituzionali. Sebbene la risposta sia stata d’inammissibilità della questione sollevata (sent. n. 279 del 22 ottobre 2013) la pronuncia contiene un monito dai toni perentori rivolto al legislatore, il quale, se non dovesse introdurre gli opportuni rimedi al problema, andrebbe necessariamente incontro ad una “reazione” da parte della stessa Corte costituzionale, che si è riservata la facoltà di adottare le decisioni necessarie, in futuro, per ricondurre le condizioni di vita all’interno degli istituti carcerari a un livello di umanizzazione accettabile.
A questa decisione ha fatto seguito, in effetti, una serie di interventi normativi, tutti etichettati come provvedimenti “svuotacarceri”. Le novità apportate dal legislatore condividono indistintamente, infatti, il duplice obiettivo dell’implementazione della funzione rieducativa della pena e del miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. È proprio attraverso la riduzione della popolazione ristretta ,invero, che si creano i presupposti affinché quella funzione risocializzante possa essere davvero perseguita all’interno degli istituti penitenziari, in cui devono essere necessariamente garantiti e tutelati i diritti dei detenuti. È fuori discussione, del resto, che una detenzione disumana perde gli stessi connotati assegnati dalla Costituzione al trattamento sanzionatorio penale e ,primo tra tutti, la sua attitudine rieducativa, coerentemente a quella che è la lettura data dalla Corte circa l’interpretazione dell’articolo 27, terzo comma della Costituzione.
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