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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-03192019-153600


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM6
Autore
BENEDETTI, FRANCESCA
URN
etd-03192019-153600
Titolo
Variabili socioeconomiche e studio epidemiologico in una popolazione storica: la Clinica di malattie nervose e mentali di Pisa dal 1907 al 1920
Dipartimento
RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di studi
MEDICINA E CHIRURGIA
Relatori
relatore Prof.ssa Dell'Osso, Liliana
Parole chiave
  • Clinica Pisana
  • Shell shock
  • Post Traumatic Stress Disorder
  • Disturbo post traumatico da stress
  • PTSD
  • Prima Guerra Mondiale
Data inizio appello
09/04/2019
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
09/04/2089
Riassunto
L'evoluzione della scienza psichiatrica è legata intimamente alla società da cui deriva, così l'assistenza al paziente alienato si è modificata nel tempo passando attraverso fasi diverse, con un processo che dall’istituzionalizzazione perviene all’assistenza familiare, passando per un periodo di critica psichiatrica (anzi, direttamente antipsichiatrica). Le vicende della psichiatria pisana appaiono inevitabilmente connesse ed influenzate da quelle nazionali ed infatti, dopo la legge del 1904, anche a Pisa si rende necessario un processo di aggiornamento, in linea con la riprogrammazione delle altre varie strutture psichiatriche, sparse in tutta Italia. Il seguente lavoro si propone come un’indagine epidemiologica mirata a individuare le linee di gestione dei pazienti ricoverati negli anni 1907-1920 presso la Clinica Pisana che secondo le disposizioni giolittiane dovrebbe essere assimilabile ad un manicomio, ma in realtà non si configura come una struttura di lunga degenza. La durata della permanenza dei malati è piuttosto variabile e non si tratta quindi di un luogo di sola reclusione; i pochi pazienti che non vengono dimessi in prova o in via definitiva sono di solito inviati presso il manicomio di Volterra (Frenicomio San Girolamo) e questo porta a ipotizzare che a Pisa vengano trattati pazienti che necessitano di brevi ricoveri, mentre a Volterra ci si occupi dei pazienti cronici, in una relazione dinamica dove i malati possono essere spostati tra le due strutture secondo questi criteri. La clinica svolgerebbe allora un’azione di filtro, coerentemente all’intento di snellire la popolazione manicomiale, viste le problematiche di sovraffollamento che caratterizzano tale periodo storico. Sebbene la legge 1904 identifichi come criterio di internamento la presunta pericolosità sociale, emerge dai dati uno scenario diverso, per cui si opta per il trasferimento in manicomio solo nei casi di pazienti con disabilità cognitive senili, congenite o acquisite, invasive e croniche o per pazienti privi di supporto familiare. Nei primi anni del XX secolo a determinare l’affollamento manicomiale sono per lo più affetti da patologie che oggi ed in parte anche allora, si potrebbero definire più neurologiche che non psichiatriche. Si esaminano non solo fattori clinici, ma anche fattori sociali, dando importanza alla cronicità del quadro clinico del paziente e alla mancanza di supporto sociale e familiare (rilevato ad esempio dallo stato civile), piuttosto che alla pericolosità. Come mostrano i registri, l’attività della Clinica Pisana prosegue normalmente anche durante la Prima Guerra Mondiale, dovendo però preoccuparsi anche dell’assistenza di una popolazione di combattenti; i ricoveri di civili rimangono sempre la maggioranza, ma durante le fasi più intense del conflitto l’impegno richiesto per la cura dei soldati aumenta, in particolare nel 1917, anno in cui si registra il picco dei ricoveri. Durante WW1 aumentano i trasferimenti manicomiali, ma ad esserne interessati sono soprattutto i civili; anche se il campione dei soldati risulta poco significativo, è possibile ipotizzare che l’assenza di un riconoscimento nosografico della patologia causata dall’ evento bellico possa essere la causa di questa scarsa istituzionalizzazione, unitamente a ragioni economiche e pratiche che impongono la necessità di rimandare i militari al fronte, costringendoli a riprendere servizio quanto prima. L’ Italia alla vigilia del primo conflitto mondiale si trova ancora immersa in complessi dibattiti sulla natura della patologia psichiatrica; la guerra arriva portando con sé nuovi interrogativi e mutando radicalmente la vita e il lavoro degli psichiatri. Come considerare i numerosi soldati che dimostrano sintomi nervosi? Si tratta di soggetti degenerati riconosciuti in conseguenza delle difficoltà belliche, ma che alla base hanno una condizione di debolezza costituzionale oppure è la guerra ad essere generatrice di traumi, tramite eventi che in modo universale possono creare disturbi mentali ed emotivi? Si cerca cioè di capire se sia la guerra la vera responsabile delle difficoltà dei soldati o se siano invece i più deboli, i degenerati, od addirittura i simulatori, a presentare questi disturbi e su come possa, con quali meccanismi, il trauma bellico agire sul sistema nervoso. Gli psichiatri italiani, storicamente fervidi sostenitori della natura biologica del disturbo mentale, si trovano in difficoltà ad ammettere che una genesi traumatica possa essere alla base di sintomi psichici, piuttosto sono propensi a credere che esista una vulnerabilità temperamentale e costituzionale alla base dei comportamenti atipici riscontrati in molti soldati, in pieno accordo con le teorie Lombrosiane. Si sposta il luogo di osservazione, dal manicomio alla trincea e così anche il suo oggetto: lo psichiatra non ha più di fronte un “semplice” malato, ma un combattente di cui valutare i comportamenti, spesso apparentemente poco eroici, ma alla cui funzione (quella di impiegare un’arma contro l’avanzata austriaca) malvolentieri si rinuncia. All’immagine del soldato forte
e coraggioso si affianca quella del militare “impazzito”, impaurito, angosciato che mette in atto tentativi di fuga, diserzione e lesioni autoinflitte. Ancora una volta siamo di fronte al sottile confine tra giudizio morale e valutazione psicologica. La psicopatologia bellica è inevitabilmente il capitolo clinico e teorico impostosi con prepotenza allo studio degli psichiatri del primo ventennio del secolo scorso. La comparsa sempre più frequente di sintomi nei combattenti al fronte impone la necessità di dare un nome alla nuova strana malattia: Shell shock o shock da granata, vento degli obici in Italia, termine coniato proprio dai soldati stessi. Si tratta di uno spettro clinico di condizioni neuropsichiatriche, viste inizialmente dalla comunità scientifica come un’opportunità per studiare la localizzazione delle funzioni psicomotorie nei soldati con lesioni cerebrali causate dai frammenti metallici delle granate, dovendo però presto fare i conti con un numero crescente di soggetti che essendo stati vicini o avendo assistito a combattimenti ed esplosioni, senza aver ricevuto direttamente alcuna ferita lamentano sintomi di difficile interpretazione. Tuttavia, al netto di riscontri ambigui sul piano macroscopico delle lesioni riscontrate, viene inevitabilmente messa in dubbio la relazione di causaeffetto tra i traumatismi cerebrali diretti e lo sviluppo dello Shell shock, fino a che alcuni iniziano a rinnegarne l’origine organica, sostenendo la causa psicologica e tornando a parlare di nevrosi traumatica. L’armistizio del novembre 1918 segna la fine della guerra, ma non delle sofferenze per i tanti reduci. Nuovi dibattiti di natura nosografica e clinica sono destinati ad insorgere nel dopo Guerra, fino alla successiva “epidemia” di Shell shock che si presenterà durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945); questa espressione sarà definitivamente bandita ma, malgrado questa precauzione, i soldati esposti ai danni diretti o indiretti da esplosione continueranno a presentare una serie simile di sintomi di disagio mentale. Verranno allora proposte definizioni alternative in un susseguirsi di nuovi termini, dallo “Stato commotivo post- traumatico” (Schaller,1939) alla “Sindrome postcommotiva” (Wittenbrook,1941); dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti soppiantano i paesi europei nella leadership della psichiatria mondiale e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) diviene la bussola con cui orientarsi nell’ambito delle malattie mentali: nasce il termine, per il momento più giornalistico che scientifico di “Sindrome postVietnam” in diretto riferimento alle gravi alterazioni psichiche dei reduci e quello più
ampio e comprensivo di “Disturbo da stress da catastrofe” (DSM-II, 1968). La task force dell’APA (American Psychiatric Association) per il DSM-III (1980), incaricata di studiare i Disturbi Reattivi, arriverà a riconoscere che il “Disturbo da stress da catastrofe” può originare anche da traumi non bellici, suggerendo allora la odierna locuzione di “Disturbo da stress post-traumatico” (PTSD). Il Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) è un disturbo psichiatrico definito da insorgenza di sintomi intrusivi (criterio B), comportamentali, cognitivi (criterio C) ed emotivi (criterio D) a seguito di esposizione ad evento traumatico per come definito dal criterio A (Apa 2013). A seguito del trauma i soggetti con PTSD sviluppano una serie di sintomi clinici, spesso invalidanti e tendenzialmente cronici; caratteristiche salienti sono la persistente rievocazione dell’evento traumatico che viene rivissuto continuamente sotto forma di pensieri intrusivi, sogni, flashback, allucinazioni, l’evitamento di situazioni riconducibili anche indirettamente ad esso, le alterazioni negative di cognitività ed umore, con perdita di interessi e distaccamento emotivo da amici e familiari e infine l’aumento dell’arousal, caratterizzato da irritabilità, ipereccitabilità e difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno. Ne consegue l'autoperpetuarsi delle alterazioni psicobiologiche insorte dopo il trauma e l'incapacità dell'organismo di ritornare alle condizioni di omeostasi precedenti all’esposizione (Yehuda et al., 2000). I sintomi del PTSD compaiono tipicamente tre mesi dopo l’evento acuto, ma sono descritti casi “ad espressione ritardata” (APA 2013) in cui la diagnosi viene posta dopo sei mesi. Nonostante la storia del trauma psichico sia molto antica la comparsa del PTSD come entità nosografica risale solo alla terza edizione del DSM, a seguito delle devastanti conseguenze delle Guerra del Vietnam; inizialmente gli studi inerenti sono stati incentrati sui conflitti militari, considerando il trauma bellico come l’esperienza traumatica per antonomasia. L’interesse originario è stato duplice, di natura scientifica, nel tentativo di studiare le caratteristiche di un disturbo che sembrava poter godere di una propria autonomia nosografica e di natura sociale e politica, con l’obiettivo di indennizzare i soldati americani reduci dalla guerra del Vietnam. I primi lavori hanno quindi come protagonisti uomini con alle spalle traumi bellici di portata eccezionale e sulla stessa scia anche gli studi successivi vanno ad associare all’insorgenza del disturbo l’esposizione a traumi inevitabilmente fuori dall’ordinario. Terremoti, inondazioni, incidenti aerei, attentati terroristici affiancano via via gli eventi bellici arricchendo la letteratura sul PTSD. La definizione di trauma è riportata nel criterio A DSM-5 ed è stata molto dibattuta negli anni, sempre con l’intenzione di diversificare l’evento traumatico da un comune evento stressante. Quest’ultimo è infatti capace di evocare una risposta neurobiologica e comportamentale nell'individuo, tale da porlo nelle condizioni di affrontare l'evento stesso e ripristinare poi l’omeostasi; la sintomatologia risulta rapidamente reversibile e l’equilibrio può essere ripristinato in tempi rapidi. Questa risposta è abolita o insufficiente nel PTSD e le alterazioni persistono ben oltre la fine del trauma, creando le condizioni su cui può svilupparsi la patologia (McEwen, 1998). Con il trascorrere degli anni gli studiosi hanno progressivamente ampliato gli orizzonti della ricerca sul PTSD, valutando la possibilità che una sintomatologia analoga possa insorgere anche dopo l’esposizione a traumi di più modesta entità. Si è così assistito alla graduale crescita di lavori in cui la comparsa del disturbo viene messa in relazione ad episodi comuni nella vita quotidiana, fino alla più recente visione di spettro post-traumatico, in cui si avvalorano anche i quadri sottosoglia (PTSD parziale/sub-threshold) (Dell’Osso et al, 2008; Dell’Osso et al, 2009a; Dell’Osso et al, 2011a). Sono state effettuate numerose indagini sul PTSD per individuarne le eventuali basi neurobiologiche, le caratteristiche cliniche, le comorbidità, i fattori protettivi ed i possibili fattori di rischio. Tra questi ultimi, i principali sono stati identificati nella gravità e tipologia dell’evento traumatico, nel sesso, età, condizioni di povertà e indigenza, professione lavorativa svolta e infine nell’anamnesi positiva per disturbi psichiatrici. La conferma che il PTSD sia un disturbo di notevole impatto negativo sull'individuo e sull’intera società, è emersa da studi condotti su superstiti di terremoti che hanno ammesso l'utilizzo ripetuto di farmaci psicotropi e la ricorrente ricerca di un trattamento di tipo psicologico (Rossi et al, 2011, Dell’Osso et al, 2012b). Infatti il PTSD, che si sviluppa con tassi di prevalenza compresi tra 10.3% e 49.6% nelle popolazioni esposte ad eventi traumatici (Dell'Osso et al, 2011a; Carmassi et al, 2013) ha anche la caratteristica di avere un decorso potenzialmente cronico, altamente invalidante e con elevate complicazioni come il rischio di suicidio (Carmassi et al, 2015). Il campo d'azione del soggetto è in sostanza notevolmente ristretto con conseguente grave limitazione della vita di relazione e lavorativa (Van der Kolk et al, 1996).
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